Koinonia Gennaio 2020


Le «care abitudini» della cattolicità

 

Certo la fede, come del resto qualsivoglia altra dimensione dell’uomo, non può vivere né essere vissuta - non può rivelarsi né venir percepita - indipendentemente dal peculiare linguaggio storico che le è omogeneo: dunque, nella fattispecie, fuori dalla religione, che è, di preciso, il discorso, il modo, l’esperienza oggettiva e comunicabile, in cui essa, la fede, può appunto farsi e si fa collettiva, pubblica, visibile; e però, come è naturale (poiché nella storia non si sfugge al limite), anche irrimediabilmente datata. Ma quando allora - gli esempi sono persino troppo numerosi e stanno sotto gli occhi di tutti - la religione, staccandosi dal suo «servizio di fede», trapassa in ideologia, e con ciò si riduce a distorto strumento di interessi mondani o, peggio ancora, a macchina per la difesa accanita dell’insieme dei privilegi esistenti in una società data?

È questo il vero problema che (quantunque per diversi itinerari e ragioni) penso interessi egualmente l’uomo di chiesa e il politico. Ebbene, mi sembra si possa dire che si abbia sostanzialmente scadimento da un piano come quello della religione, in sé corretto e legittimo, a un terreno che, come l’ideologico, è sempre ambiguamente mistificatorio, e spesso oggettivamente reazionario, ogni volta che i credenti si lasciano attardare e irretire dalle loro «care abitudini», e cioè identificano senza residui nei moduli del loro passato religioso, nelle sue forme e formule e opere (storiche, quindi, e in quanto tali transeunti, anzi già magari fattesi obsolete) le espressioni invece, paradigmatiche e immutabili, del proprio cammino di fede.

In definitiva, sta tutta qui, a veder bene, la ragione d’essere dei numerosi ghetti e recinti e particolari osservanze e mille altre manifestazioni chiuse ed esclusive della realtà religiosa, che nel loro insieme costituiscono appunto quel «mondo cattolico», cui certo non sono ancora venuti meno - anche se non si osa più dirlo a gran voce – l’orgoglio pervicace e l’antica consuetudine di considerarsi, «nella scena di questo mondo passeggero», la societas perfecta. All’opposto, legandosi nostalgicamente alle «abitudini», consacrandole a norme perenni, scambiando insomma come permanente ciò che in modo inevitabile (e fecondo) è destinato a passare, si fissa (quasi in maniera inconsapevole) a sede del vero un punto determinato, una semplice fase della propria storia religiosa, e per ciò stesso si abbandona irrimediabilmente la vita (il presente e il futuro) per vivere una morte che non ha, per principio, speranza di riscatto, di resurrezione.

Solo che una religione siffatta (con gravissimo danno della fede che le si consegna) non viene forse a essere una mera ideologia, dal momento che fatalmente pretende di ridurre e congelare in se stessa la libera vitalità della storia? E infatti, non diviene forse tale, allora, da erigere un ben determinato passato (un fugace configurarsi del tempo), in eterno, in sacro luogo della naturalità e della norma contro ogni possibilità innovatrice dell’avvenire, dando così un contributo rilevante, per non dir decisivo, a una precisa operazione reazionaria?

 

Franco Rodano

In Cattolici e laicità della politica, Editori Riuniti 1992, pp. 46-47

.

.