Koinonia Gennaio 2020
“CONVERTITEVI” (II)
La straordinaria conversione di Paolo
È santissimo l’invito a compiere opere di carità percependo la sofferenza di Dio in ogni creatura che ha fame, sete e soffre, ma guai se l’orizzonte della carità ci impedisse di percepire la sofferenza stessa di Dio, bloccando il nostro cuore (spesso tramite le nostre ambizioni) soltanto a quel già che possiamo fare noi dimenticando il non ancora che può fare lui soltanto. Il Signore ha detto che nel luogo in cui nel frattempo sta, non è per starci tranquillamente e in eterno, ma per prepararci “un posto” e poi tornare. Non solo, ma di quel “luogo” noi dovremmo conoscere “la via” (Gv 14,3-4). La nostra fede deve credere l’impossibile solo a lui possibile, una fede dunque umile, che dopo il nostro avere fatto tutto quel che c’era da fare lasci sgorgare dal più profondo di noi la consapevolezza d’essere “servi inutili”, avendo semplicemente fatto “quello che dovevamo fare” (Lc 17,10). Sì, è bello e importante, persino meritevole di applausi l’aver salvato da naufragio, fame e malattie decine, centinaia, migliaia di persone magari; ma quanti ne restano a soffrire in ogni istante sulla faccia della terra? E coloro che sono morti? Non ci capiti insomma di continuare a vivere come se tutto quanto c’è ancora da fare riuscissimo da soli a farlo, come se egli dovesse in eterno restare mendicante; scordandoci del suo ritorno, della sua promessa di risuscitarci “nell’ultimo giorno” (Gv 6,39). Lui non altri è il nostro re, uno che proprio facendosi povero in mezzo a noi, per le via della Galilea, ci ha insegnato a cercare “anzitutto, il regno di Dio e la sua giustizia” considerando il resto nient’altro che “aggiunta” (Mt 6,33).
Egli non è più e non è ancora con noi da duemila anni. Dov’è andato nel frattempo ce l’ha raccontato in un famosa parabola. È andato in “un paese lontano, per ricevere il titolo di re e poi tornare”. Guai dunque se nell’incontrarlo al suo arrivo, dovesse trovarci dalla parte di quei “nemici” che non vogliono che egli diventi il “loro re”. E mai dimenticare che il motivo che ha spinto Gesù a raccontare la parabola era quello di trovarsi “vicino a Gerusalemme”, mentre coloro che aveva intorno “pensavano che il regno di Dio dovesse manifestarsi da un momento all’altro” (Lc 19,11-27). È come se avesse detto loro: non illudetevi, io non sarò accolto come re a Gerusalemme, ma rifiutato e costretto ad andare via per tornare come re solo dopo molto tempo. Il titolo di re, che riceverò in croce e nella morte, non sarà sufficiente e dovrete stare molto attenti a non dimenticarvelo, accomodandovi nel mondo così com’è, come se io non dovessi più tornare.
Ma credere, o meglio, aderire all’invito del Battista prima e del Cristo poi, all’inizio dell’avventura cristiana, non era forse entrare nell’idea di un manifestarsi vicinissimo del regno di Dio? E che cosa farà subito dopo Gesù se non camminare spedito “davanti a tutti salendo verso Gerusalemme” come Messia? E non gioirà forse egli con i suoi discepoli che gridavano a gran voce “Benedetto colui che viene, / il re, nel nome del Signore”? Non dirà forse ai farisei scandalizzati di tutto ciò e che lo invitavano a rimproverarli: “Io vi dico che, se questi taceranno, grideranno le pietre” (Lc 19,28-40)?
Fa certamente parte del “mistero del regno di Dio” - un mistero che persino i “Dodici”, ai quali Gesù lo diede fin dall’inizio, faranno fatica a comprendere; un mistero che cova nel fondo delle stesse “parabole” e del motivo per cui Gesù si trova costretto a raccontarle per non essere compreso da “quelli che sono fuori” (Mc 4,10-11) - lo scandalo da sopportare e condividere insieme al Messia venuto per regnare e invece poco più avanti costretto a morire. Vero dramma è per il Messia quello di non essere capito, di non essere accolto. È insomma il dramma del Signore che sta facendo di tutto per salvarci e non può. Morirà per dircelo, ma noi continuiamo a non capire.
E però saranno guai per tutti; ecco perché Gesù scoppia a piangere “alla vista della città” dicendole: “Se avessi compreso anche tu, in questo giorno, quello che porta alla pace! Ma ora è stato nascosto ai tuoi occhi. Per te verranno giorni in cui i tuoi nemici ti circonderanno di trincee, ti assedieranno da ogni parte; distruggeranno te e i tuoi figli dentro di te e non lasceranno in te pietra su pietra, perché non hai riconosciuto il tempo in cui sei stata visitata” (Lc 19,41-44). E tale annuncio, tale messa in guardia, non era solo per gli abitanti di Gerusalemme di allora, si badi, ma anche per noi oggi. Vero dramma della salvezza è quando Dio vorrebbe con tutte le forze evitarci il dramma della catastrofe e non ci riesce. È quando desidera la nostra vicinanza e comprensione, il nostro fargli compagnia nel suo essere mendicante e solo alle porte di Roma, e noi siamo magari tutti presi in Vaticano in mezzo alla gran folla che grida: “‘Viva il papa!’, e dimentica Cristo”, come diceva il buon Carlo Carretto qualche decennio fa.
La conversione è urgente ancora oggi, forse più che all’inizio, là dove “dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù andò nella Galilea, proclamando il vangelo di Dio” (Mc 1,14). E c’era urgenza e tragedia insieme: erano tempi in cui ti mozzavano la testa per quel che dicevi e facevi; tempi in cui si respirava aria di fretta, di vera e propria guerra. “Subito lo Spirito lo sospinse nel deserto” ad affrontare il nemico, colui che ancora detta legge nel mondo, fino a farci vedere ogni giorno chi è che ancora comanda qui sulla terra, fino a mostrarci, come a Gesù allora, “tutti i regni del mondo e la loro gloria” dandoli a chi si getta ai suoi “piedi” e l’adora (Mt 4,8-9); “fino a insediarsi nel tempio di Dio, pretendendo di essere Dio” (2Ts 2,4).
Là nel deserto Satana lo tentò insistentemente per “quaranta giorni” (Mc 1,12); quaranta come i giorni e le notti in cui le acque scesero inesorabili col diluvio a distruggere la terra ai tempi di Noè (Gen 7,12); quaranta come i giorni annunciati da Giona necessari a quelli di Ninive per convertirsi, pena la distruzione dell’intera città (Gn 3,4).
Daniele Garota
(2. fine)