Koinonia Gennaio 2020


EPIFANIA

(o del tramonto dell’Occidente)

 

Era davvero accorato l’invito di p. Alberto a leggere il discorso del papa alla curia del 21 dicembre, e in effetti il messaggio papale, pur con tutte le prudenze che il pontefice è costretto ad usare, suona come un estremo, drammatico appello a non sottovalutare la portata ‘epocale’ del momento storico che stiamo vivendo. Non è per pura piaggeria che la prima considerazione che mi sento di fare è relativa alla visione profetica che oggettivamente p. Alberto dimostra, insistendo ormai da decenni sulla criticità del crinale in cui si sta muovendo la cristianità, nella (apparente) indifferenza (o connivenza?) anche di alte sfera della Chiesa; ma il declino e il tramonto non riguarda soltanto l’approccio religioso alla vita, ma coinvolge tutta la cultura occidentale, ed è una parabola che viene da lontano: gli anni tremendi del berlusconismo hanno segnato indelebilmente la civiltà (nel senso del ‹vivere civile›) del nostro paese, mortificando una vitalità culturale secolare che sembrava poter essere una sufficiente difesa contro la barbarie montante.

A proposito di profeti, un altro grande pensatore del ‘900, Gyorgy Lukàks aveva ammonito, in tempi non ancora sospetti: «o comunismo o barbarie»: tra le macerie del muro di Berlino si è brindato alla libertà, ma il liberismo finalmente privo di remore e il mercato svincolato da ogni regola (la deregulation reaganiana) hanno aperto la strada alla barbarie. Chi è pratico di scuola sa bene cosa è accaduto in quegli anni: le pseudo riforme che si sono succedute, fino alla catastrofe della Gelmini, hanno progressivamente impoverito l’offerta scolastica, limitando e pressoché criminalizzando i contenuti, magnificando le cosiddette competenze: si è voluto una scuola ‹del fare› e si è cercato di distruggere (in gran parte riuscendoci) quell’idea della scuola che vedeva come finalità prima la formazione dell’uomo e del cittadino, che aveva come obiettivo primario la costruzione di un pensiero critico. Il consumatore, in una società di libero mercato, il lavoratore in una comunità dominata dal feticcio dell’azienda, intesa come forma assoluta e indiscutibile di organizzazione delle attività che ha portato ad aberrazioni come ‹azienda sanitaria›, devono essere ‹educati› ad eseguire e a consumare senza riflettere. Il ‹pensiero unico› ossessivamente e in maniera martellante inculcato attraverso le televisioni private ma (ahimè) anche pubbliche  prima e i social poi ha definitivamente sostituito ogni forma di pensiero critico ed originale.

Ma qualcuno ha resistito, nella scuola, come nella chiesa, come nella società. Certo, casi isolati, considerati quasi patologici o quantomeno patetici, spesso nella derisione, se non addirittura nella minaccia. Ma qualcuno ha resistito.  Ricordo un intervento del prof. M. Cataldi, autore, insieme a R. Luperini, di una gloriosa Storia della letteratura italiana, ad un corso di aggiornamento negli ultimi anni ‘90: ad una richiesta sul perché il mondo della cultura non si ribellasse e facesse sentire forte e chiara la sua voce di dissenso rispose sconsolato che alcuni professori universitari gridano in aule ben chiuse in modo da non essere sentiti, altri frequentano con disinvoltura i salotti televisivi; i grandi media – ovviamente asserviti al potere berlusconiano – non pubblicano più le loro parole, addirittura uno dei ‘resistenti’ più battaglieri, Franco Fortini veniva drasticamente censurato, i suoi articoli tagliati, anche dai giornali più vicini, in teoria, alle sue idee. Si dirà che comunque la parabola berlusconiana è passata, questo è vero, ma i suoi effetti malefici perdurano e perdureranno, ciò che è stato distrutto in un paio di decenni non si ricostruirà tanto facilmente.

Ritorno al discorso del papa: mi piace pensarlo come il lato di un triangolo che ha gli altri due lati nella lettera Aperuit illis con la quale veniva istituita la “Domenica della Paola di Dio” e in quella più recente  Admirabile Signum,  sul significato e il valore del Presepe. Un trittico che rivela una profonda unità e un’intima preoccupazione del pontefice. L’invito a mettere di nuovo al centro la Parola di Dio come elemento di incontro, di comunione e comunicazione tra il Padre e gli uomini è caduta pressoché nel vuoto, anche per la difficoltà ormai antropologica di capire, di ascoltare, di vivere la Parola.

Da Platone in poi la civiltà occidentale ha fatto della parola e in specie della parola scritta lo strumento principe su cui costruire la vita in comune, per trasmettere i valori, i dubbi, i sogni degli uomini e delle donne di tutti i tempi. Non possiamo dimenticare che la lingua greca prima e la latina hanno veicolato nel mondo occidentale il messaggio cristiano e lo hanno diffuso per secoli.

Oggi le nuove strutture del dominio economico e politico stanno progressivamente esautorando la Parola e le parole come bagaglio inutile e oneroso: siamo alla esaltazione, alla rivendicazione della ignoranza da parte di chi governa il mondo e sta offrendo ogni giorno uno spettacolo indecoroso di sé. Ma tant’è. In buona sostanza il risultato di decenni forsennati di corrosione della cultura e del pensiero critico hanno fatto sì che la Parola ha perso la sua valenza comunicativa; è divenuta ormai quasi incomprensibile e priva di effetto: sono suoni vuoti. Allora dobbiamo trovare urgentemente altre forme di trasmissione di Verità e di valori.

Prima della Parola, in una fase anteriore al linguaggio l’uomo ha tentato di comunicare attraverso immagini; nella civiltà greca, a cui mi riferisco per una sorta di inevitabile deformazione professionale, o più semplicemente perché è quella che conosco più a fondo, prima della ‘invenzione’ della scrittura come strumento di comunicazione del pensiero, il teatro ha costituito una sorta di rappresentazione in forma plastica delle idee, dei valori.

E così arriviamo al Presepe: la rappresentazione plastica della Verità del Figlio di Dio. Riconoscere l’inadeguatezza ormai del linguaggio e la necessità di ricorrere ad una pedagogia dell’immagine, è il segno della drammatica regressione dell’epoca che viviamo, come in termini chiari e angosciosi si è espresso Papa Francesco nel discorso alla curia: non siamo più nella cristianità, non siamo più, aggiungerei io nella civiltà millenaria dell’occidente; (solo per inciso: ma l’oriente dov’è? E cosa è? Credo che l’intera umanità sia in trasformazione epocale…).

Dunque il Presepe: la rappresentazione dell’evento della Nascita del Redentore: non più possibile la narrazione attraverso i documenti, ecco la narrazione per immagini dell’evento. La grande intuizione di S. Francesco a Greccio, per comunicare a tutti, anche ai non capaci di leggere e di comprendere le parole, la Buona Novella nella sua verità essenziale: la Madre col Bambino. Ma quello era un mondo ancora bambino. Ora Papa Francesco ripercorre, a ritroso, lo stesso percorso e individua in questo elemento un possibile baluardo contro la barbarie e l’analfabetismo di ritorno. Naturalmente il suo invito non ha niente a che vedere con i richiami beceri e blasfemi che certi indecenti politici hanno fatto al Presepe in questi giorni. Non di questo si tratta.

Ma per capire appieno la portata del richiamo della Mirabile Signum devo fa ricorso ai miei ricordi di bambino. Mi ci ha portato, alcuni giorni prima dell’inizio delle vacanze natalizie, la difficoltà incontrata a scuola nello spiegare ai miei studenti il significato del termine epifania a proposito di un’ode di Saffo. In passato era un gioco facile per me richiamare la festa della epifania, quando appunto si ricorda e si celebra la presentazione, la manifestazione di Gesù ai Magi venuti dall’oriente per adorarlo; oggi non è più così: l’evocazione di questi nomi, di questi eventi non suscita nei giovani di oggi memorie consolidate: in questo caso la maieutica non funziona più.

Allora il ricordo della mia infanzia: la magia di nomi strani e misteriosi, Betlemme, Gaspare, Melchiorre, Baldassare, trasmessi dalla mia nonna a me bambino di 4-5 anni e ripetuti orgogliosamente alla mia mamma: lei rideva delle mie inevitabili storpiature e io le ripetevo a bella posta, perché era bello vedere ridere la mamma. Poi nelle tre domeniche antecedenti il Natale, la mamma mi portava a comprare la statuina di un re Mago per il Presepe. Le ho ancora quelle statuine e, per dirla con Callimaco, “ho non pochi decenni”: e insieme ad esse le statuine ereditate come una sorta di “memoria storica della famiglia” dai nonni; naturalmente nel corso degli anni ne ho aggiunte altre che fondano una memoria in continua evoluzione costituiscono, in altre parole, cultura.

Con la mia cugina, da bambini, individuavamo una statuina, un personaggio in cui identificarci: quello sono io, quella sei tu. Anche noi facevamo parte di quella vicenda, volevamo esserci dentro anche noi. I racconti della nonna, relativi alla nascita di Gesù, accompagnati spesso dalla recitazione della nota, ora non più, filastrocca di G. Gozzano, hanno costituito, prima ancora della frequentazione della scuola, il primo nucleo di una formazione culturale che ha lasciato una traccia indelebile dentro di me, mescolati ad altri racconti, felici e talvolta drammatici della nostra famiglia: lì so di poter trovare le radici di quello che sono divenuto da adulto, di quello che sono adesso.

Ma oggi tutto questo, indubbiamente retaggio di una civiltà contadina in via di sparizione, non esiste più. Partire dal Presepe potrebbe essere un passo fondamentale per ricostruire una civiltà. Ma noi, che siamo testimoni ed anche eredi (magari immeritatamente) di questo patrimonio di civiltà che dobbiamo fare? Stringere al petto i documenti, i manoscritti, che riusciamo a salvare dal disastro, come i dotti che fuggirono da Costantinopoli distrutta portando in salvo, in occidente, i tesori della letteratura greca. Leggerli, discuterli, farli vivere ancora, far risuonare la Parola con tutta la sua musica di verità, per chi la vuole ascoltare, fosse solo il vento e la sabbia del deserto.

Portarli in salvo verso un tempo in cui si avvertirà di nuovo il bisogno di tornare umani. Quel tempo verrà e noi agli uomini di allora dovremo render conto di ciò che abbiamo fatto e di ciò che non abbiamo fatto in questo tempo in cui ci è stato dato di vivere.

 

Ezio Dolfi

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