Koinonia Gennaio 2020
Frontiera fine-vita
NORMATIVE CORRENTI, LEGGI FUTURE,
FONDAMENTALISMI, AZIONI CARITATEVOLI
L’assoluzione emessa dal Tribunale penale di Milano, sull’accusa di istigazione e favoreggiamento al suicidio che pesava su Marco Cappato, ha coinciso con una montante epoca politica basata su pure tecnicalità e mere propagande elettorali, una volta resa marginale una progettualità complessiva di progresso sociale.
Il verdetto è caduto sonoramente nel pieno delle festività natalizie infrangendo i vetri scintillanti di una cultura pervasa di cristianesimo, ma calata in una società che oggi si colloca “fuori dalla cristianità, non più cristiana” come affermato in quei giorni decisamente da papa Francesco.
Il sostegno alla volontà di Fabiano Antoniani, condivisa dai parenti più stretti, di mettere fine alla sua vita aveva attivato l’accusa di istigazione ed aiuto al suicidio in virtù dell’articolo 580 del c.p., nonostante il movente poggiasse soltanto su sentimenti di compassione e la determinazione del medico anestesista si collocasse sul diritto soggettivo e personalistico sancito dall’articolo 13 della Costituzione: “La libertà personale è inviolabile”.
La sentenza assolutoria ha giustificato l’intervento intenzionale e programmato del medico di avere adiuvato la decisione assunta dalla persona responsabile e in piena coscienza di ciò che intendeva ottenere fermamente.
Naturalmente le divisioni a proposito non sono mancate: gli oppositori sostengono che è stata “sancita la morte di Stato” muovendo dall’art. 2 della Costituzione che, sottolineando il valore normativo della persona e del diritto alla vita, escluderebbe un orientamento giuridico che violi in ogni circostanza l’intangibilità della vita in quanto questa qualità si eleva al di sopra della stessa decisione personale a causa del limite invalicabile che risiede, appunto, nella tutela della vita. Alcuni fra questi hanno aggiunto il principio secondo cui titolare della vita resta soltanto Dio, che, in tal modo chiamato in causa, diviene un ulteriore ostacolo alla condivisione del parere della Corte costituzionale del settembre scorso che ha ritenuto “non punibile chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche e psicologiche che egli reputa intollerabili ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli”.
Già nel caso di Eluana Englaro la Corte di Cassazione, nel 2009, aveva sostenuto la liceità di sospendere il trattamento terapeutico e il supporto vitale “quando la condizione di stato vegetativo sia irreversibile e non vi sia alcun fondamento che lasci supporre che la persona abbia la benché minima possibilità di un qualche sia pur flebile recupero della coscienza e di ritorno alla percezione del mondo esterno…” . Ed ancora prima, nel 1997, la Convenzione europea su Diritti umani e sulla Biomedicina aveva affermato: “La sospensione dei trattamenti che si configurino in accanimento terapeutico è possibile se esiste il consenso scritto del malato o dei familiari qualora egli non si trovi nelle condizioni di intendere e di volere”.
Con un certo tasso di semplificazione si può affermare che i progressisti considerano la decisione della Consulta e l’assoluzione di Cappato strumenti per rafforzare la libertà individuale e la promozione del diritto inalienabile all’autodeterminazione della persona, fra i conservatori prevalgono i timori che la decisione della Consulta e una apposita legge diventino l’occasione per aprire le porte all’eutanasia attiva e a sue possibili distorsioni, una sorta di “cavallo di Troia”.
Resta comunque difficile, sul piano clinico-scientifico ed etico, distinguere il limite sottile che corre fra non-accanimento terapeutico (eutanasia passiva), sedazione terminale ed eutanasia attiva (farmacologica) guidata ed assistita dal medico: la coscienza e le assunzioni di responsabilità individuali travalicano le definizioni, le leggi, le normative e gli stessi atti istituzionali. Soprattutto, la questione mai dovrebbe porsi utilizzando fondamentalismi giuridici e religiosi e tantomeno tattiche politiche e partitiche. Occorrerebbe, piuttosto, partire dalla constatazione che malati ridotti a veri gusci pietrificati si trovano costretti a percorrere sentieri di immane sofferenze in tempi e spazi desolati ed immobili. In questi casi, e solo in questi casi, la morte, già spesso nel cuore di questi malati, diviene un evento naturale e come tale accettabile e forse desiderabile, un atto davvero, senza infingimenti, caritatevole e compassionevole.
A tanti di noi, in tanti ruoli, si è presentata l’occasione di osservare queste condizioni estreme di miseria fisica e di confessarsi nell’intimo della propria coscienza quali vie d’uscita sarebbero state auspicabili per quella determinata persona immersa in quella situazione tragica. Chi, nonostante tutto, sia riuscito a restare estraneo a quella voragine non dovrebbe disquisire astrattamente su diritti e doveri, speranze e testimonianze, cavalli di Troia e allocuzioni similari... Il medico che fermasse la sua opera terapeutica intenzionalmente un po’ prima del programmabile accanimento terapeutico, anche in assenza di un testamento biologico ma assumendo in prima persona la piena responsabilità delle sue azioni “in scienza e coscienza”, non dovrebbe essere giudicato passibile di reato, ma pienamente medico e non esecutore di condanne capitali su chi ha smarrito irrimediabilmente ogni coscienza di sé stesso e di legami con la vita, immerso in uno stato di sofferenza fisica e mentale indomabile: le accuse sarebbero formalmente inadeguate, puramente ideologiche e compiutamente inumane.
La carità e la compassione, qualunque sia ed appaia la loro fonte, da sole giustificano l’operato responsabile di medici agnostici e religiosi, innanzitutto ispirati alla libertà di coscienza ed a principi inderogabili e non negoziabili del libero arbitrio e dell’autodeterminazione, accomunati comunque come sono dai vincoli umani di una immanente ed evidente debolezza e povertà comuni.
Francesco Domenico Capizzi