Koinonia Dicembre 2019


QUALE POSTO PER LA PAROLA DI DIO

 

Non sembra esserci tanto posto in questo mondo, perché il seme della Parola di Dio trovi terreno adatto e diventi carne. Ma qualcosa deve pur nascere! Infatti, ”mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto. Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia, perché non c’era posto per loro nell’albergo” (Lc 2,6.7). E potremmo senz’altro fermarci qui, per capire come vanno le cose in un simile ambito.

Che il mistero del Natale continui a farsi sentire in un mondo ignaro e inospitale vuol dire che qualcosa di insolito e di decisivo accade comunque, magari ai margini e nell’assoluto anonimato. Così come del resto avviene per le cose veramente importanti della vita, prima che vengano enfatizzate, razionalizzate, formalizzate, pubblicizzate e magari celebrate, in una parola falsate e strumentalizzate. Non viviamo di fatto in un mondo artefatto e innaturale, a cui peraltro siamo assuefatti ed in cui siamo integrati?

Inutile ripetere che anche il mistero del Verbo fatto carne ha subito e subisce la stessa sorte, fino alla banalizzazione, e non vale neanche la pena fare ricorso ad antidoti di spiritualizzazione che peccano di eccesso opposto. Perché se c’è il pericolo di materializzazione e appiattimento, c’è anche il rischio di una evaporizzazione intimista del mistero. Quando nei primi secoli dell’era cristiana queste questioni erano dibattute aspramente, si sarebbe parlato di “monofisismo”, e cioè dell’assorbimento totale dell’umanità di Gesù nella sua natura divina, fino appunto ad essere una sola natura: questo dunque vuol dire la parola monofisismo, che però ai nostri giorni potrebbe essere usata anche per il suo contrario, e cioè per un dissolvimento della natura divina in quella unicamente umana, per quanto sacralizzata.

È quando la fede cristiana viene ridotta a dimensioni di umanitarismo, buonismo, solidarismo, pacifismo in maniera assoluta ed esclusiva, quasi non fosse altro. Ci rimane difficile, insomma, mantenere equilibrio e tensione interni al mistero di questo unicum che è il Cristo - Verbo di Dio fatto carne - in cui sussistono due nature “senza confusione, senza mutamenti, senza divisione né separazione”. È quanto afferma il Concilio di Calcedonia, ed è quanto potrebbe richiedere un nostro ripensamento e una presa di coscienza quando ripetiamo che “per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo, e per opera dello Spirito santo si è incarnato nel seno della Vergine Maria e si è fatto uomo”. Non è il fatto più sconvolgente dalle conseguenze più impensate, a cui peraltro abbiamo fattio l’orecchio?

Questo spiega come mai non ci possa essere posto per un fatto del genere che non ha luogo o collocazione che lo possa qualificare nella sua irriducibilità. Si richiederebbe soltanto di prendere visione e prendere atto  di qualcosa che ricapitola il mondo, la vita, la storia e riuscire a sostenere la tensione che trasmette, al di là di ogni ritualizzazione o solennizzazione, che cercano di riportare dentro un sistema celebrativo quanto sfugge ad ogni umana misura, che non sia quella del credere  in lui: quella accoglienza del Verbo da cui deriva il potere di diventare a nostra volta figli di Dio, partecipi di questa pienezza di verità e di grazia. Tutto questo ci sembra poca cosa, tanto da preoccuparsi di sovraccaricare di significati ulteriori e più plausibili il mistero della fede, come a voler dare sapore al sale.

Queste considerazioni  volevano introdurre una riflessione in chiave natalizia, se fosse stato possibile rientrare nei tempi; ma forse restano ugualmente valide per orientare il nostro cammino di chiesa e di discernimento in questo particolare momento storico, in cui si contrappongono senza confrontarsi modelli diversi di chiesa: quello di una chiesa chiusa in se  stessa come un riccio ed autoreferenziale; e quello di una chiesa proiettata al di fuori per proporre e operare la  salvezza di questo mondo con tutte le sue crisi. Anche a occhio nudo appare questa polarizzazione di segno opposto o verso il sacro con correttivi umanistici o verso la socialità a sfondo evangelico. In ogni caso, sempre di monofisismi paralleli si tratta, per quanto opportunamente corretti, tanto da dare adito a forme di gnosticismo e di pelagianesimo spesso denunciati da papa Francesco.

Stranamente, queste due versioni di chiesa, che coesistono alla base, trovano una sintesi a priori ai vertici, quando gli stessi Pastori si fanno interpreti alternativamente delle due tendenze - si direbbe con un colpo alla botte e un colpo al cerchio! - senza peraltro trovare una sintesi reale nelle cose, per promuovere un modello di chiesa plurale, “una” nella diversità per sua stessa costituzione. 

Il n.8 della Lumen gentium non lascia dubbi: “Cristo, unico mediatore, ha costituito sulla terra e incessantemente sostenta la sua Chiesa santa, comunità di fede, di speranza e di carità, quale organismo visibile, attraverso il quale diffonde per tutti la verità e la grazia. Ma la società costituita di organi gerarchici e il corpo mistico di Cristo, l’assemblea visibile e la comunità spirituale, la Chiesa terrestre e la Chiesa arricchita di beni celesti, non si devono considerare come due cose diverse; esse formano piuttosto una sola complessa realtà risultante di un duplice elemento, umano e divino. Per un’analogia che non è senza valore, quindi, è paragonata al mistero del Verbo incarnato. Infatti, come la natura assunta serve al Verbo divino da vivo organo di salvezza, a lui indissolubilmente unito, così in modo non dissimile l’organismo sociale della Chiesa serve allo Spirito di Cristo che la vivifica, per la crescita del corpo (cfr. Ef 4,16)”.

Qualcosa che farebbe pensare ad una “incarnazione permanente”, nella quale sentirci coinvolti per dare volto celeste e terrestre insieme alla chiesa che siamo qui ed ora. Per un riscontro più puntuale di questo impegno possiamo tornare al discorso programmatico di Papa Francesco ai rappresentanti del V Convegno della chiesa italiana del 2015 a Firenze su “Il nuovo umanesimo in Cristo”, che può fare da cartina di tornasole di come stanno andando le cose ai nostri giorni. Basterebbe prendere questa affermazione: “Possiamo parlare di umanesimo solamente a partire dalla centralità di Gesù, scoprendo in Lui i tratti del volto autentico dell’uomo. È la contemplazione del volto di Gesù morto e risorto che ricompone la nostra umanità, anche di quella frammentata per le fatiche della vita, o segnata dal peccato”. Per poi passare a questa raccomandazione: “Puntate all’essenziale, al kerygma. Non c’è nulla di più solido, profondo e sicuro di questo annuncio. Ma sia tutto il popolo di Dio ad annunciare il Vangelo, popolo e pastori, intendo”. A che punto siamo in proposito?

Ci siamo rifatti spesso a questo “manifesto per la chiesa italiana” tanto da avanzare l’ipotesi di lavoro “Kairòs-Italia”. Ma è chiaro che la nostra attenzione rimane viva su quanto ci avviene intorno. Così, per esempio, non ci è sfuggito il fatto che proprio il 10 novembre 2019 ha avuto luogo in Santa Maria del Fiore a Firenze una solenne celebrazione per il IV anniversario di quel Discorso papale. Così pure, il 23 novembre si è svolto presso la “Facoltà teologica dell’Italia centrale” il Convegno organizzato dalla Conferenza Episcopale Toscana. “Rileggere il Convegno ecclesiale di Firenze”.

L’impressione è che in questo modo ci sia il rischio di celebrare quell’evento e di enfatizzare quel documento, il cui messaggio non arriva però al Popolo di Dio nel suo insieme, ma rimane appannaggio di quei dottori della legge a cui viene detto: “Voi non siete entrati, e a quelli che volevano entrare l’avete impedito” (Lc 11,52).  Bisognerebbe insomma portare tutto a pubblico dibattito nel senso di una sinodalità aperta, al di là  di circoli, di gruppi, di eventi per i soliti noti, mentre  sono tanti quelli che non hanno voce in capitolo.

A cominciare dalla residua massa informe dei “praticanti” che continua a scorrere come torrente carsico dentro il sistema-chiesa organizzato, ma di fatto marginale rispetto ad un’opera di coscientizzazione e ad un coinvolgimento attivo di base. Quella che si fa vedere e valere è una chiesa dei “quadri” e non di popolo, se non in senso devozionale e clientelare per santuari e pellegrinaggi vari, niente affatto per una fede adulta!

Se poi consideriamo “gli altri”, potremmo parlare di preclusi e di esclusi: di quanti sono ritenuti fuori gioco in partenza perché estranei al proprio discorso anche se destinatari di diritto del vangelo di Dio per i poveri. Come se il vangelo non dovesse arrivare a tutti per dare la parola a tutti. In ogni caso, nessuno impedisce alla Parola di Dio di fare la sua corsa, e noi con essa “corriamo con perseveranza nella corsa che ci sta davanti” (Eb 12,1)

Ebbene, per continuare su questa scia per ora non c’è di meglio che riportare di seguito alcuni passaggi dell’intervento che C.Theobald ha fatto il 23 novembre al convegno “Rileggere il Convegno ecclesiale di Firenze”.

 

Alberto Bruno Simoni op

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