Koinonia Dicembre 2019


Siate perfetti come è perfetto il padre vostro celeste

 

A chi non è capitato di dare una scrollatina di spalle per liberarsi dei propri pesi? Capita, anzi, per un senso di rimorso coltoci a mezza via, di gettare cavallerescamente i nostri pesi sulle spalle altrui. Così tacitiamo la nostra coscienza con la scappatoia della legge del compenso.

Da un pezzo i cristiani hanno scrollato dalle proprie spalle il peso del dovere della santità e l›hanno trasferito su quelle più capaci dei preti, dei frati e delle monache. Il peggio è che pare sia subentrata la convinzione che la santità sia un affare che riguardi esclusivamente i preti, i frati e le monache.

E non per disprezzo. La santità è qualcosa di troppo grande, di troppo nobile, di troppo superiore perché possa sporcarsi le mani nella vita monotona e dozzinale della famiglia, nell’ambiente corrosivo e iperteso delle fabbriche e degli opifici, nei vicoli sdrucciolevoli della politica e del commercio. Resti pure di casa dove si trova, tra le mura delle canoniche conventi e monasteri, con pace sua e nostra.

Ma bisogna dire che questo svisamento di Cristianesimo non è tutta colpa dei fedeli. La nostra indiscreta e insistente esaltazione dello stato religioso presentato, non senza una punta di gelosa vanteria, come lo stato ufficiale nella Chiesa di «professione di santità» ha inconsciamente inculcato nei fedeli la convinzione di un nostro accaparramento della santità cristiana. Prerogativa che i fedeli pare ci abbiano riconosciuta con non eccessivo rammarico.

Ma ne abbiam pagato subito lo scotto. A chi non è capitato d’aver dovuto sorbirsi, da parte di semplici fedeli, una tiritera sulla mancanza di umiltà, povertà, carità, castità, pazienza, generosità, disinteresse in sacerdoti e religiosi? loro che «son tenuti» a codeste virtù e alla santità? E chi non ha rilevato il disappunto dei medesimi «semplici fedeli» quando si è fatto notar loro che a tali ed altre virtù siamo tenuti tutti - sacerdoti, religiosi e laici - e allo stesso titolo: in forza cioè del battesimo per il quale accettiamo il Vangelo ed in particolare il «discorso della montagna», dalla prima all’ultima parola? Ma non è facile far capire queste cose, soprattutto a chi è abituato a esigere da sacerdoti e religiosi virtù evangeliche che egli non ha, a chi si lancia frettolosamente a raschiar le croste al prossimo senza avvertir le proprie, a chi insomma ha preso il brutto vezzo di scaricare sulle spalle altrui i pesi propri.

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Ed ecco il Concilio che, nel suo documento centrale - quello sulla Chiesa - ci presenta un intero capitolo sotto un titolo che fa proprio bene pronunciare a sillabe piene: «L’Universale Vocazione alla Santità nella Chiesa» (Cost. dogm. sulla Chiesa, c. V). Un capitolo sfuggito alla penna dei cronisti e pubblicisti del Concilio e che invece è al cuore di tutto il rinnovamento della Chiesa inteso dal Concilio stesso.

Il popolo di Dio, costituito dall’elemento divino e umano insieme, accoglie anche peccatori; per questo sente il bisogno di una continua penitenza e purificazione (ibid., n. 8). Anche nella coscienza di non essere ancora «senza macchie né rughe» (Ef. 5, 27), deve sentire e seguire la legge della sua vita che lo porterà alla conformazione perfetta al suo Capo e Modello, il quale è «santo, innocente, immacolato» (Ebr. 7, 26). Cristo infatti ha costituito la sua Chiesa e per essa ha dato la sua vita, «perché fosse resa santa» (Ef. 5, 26). Così, «siccome colui che vi ha chiamati è santo, voi pure dovete esser santi in tutta la vostra condotta, come sta scritto: Sarete santi perché io son santo» (1 P. 1, 15-16).

Ma «Chiesa» sono tutti gli incorporati a Cristo nella misura in cui, in forza del battesimo, costituiscono col Crsto un solo corpo. Per questo tutti i battezzati son chiamati alla realizzazione della santità della Chiesa. È la conclusione più stringente di tutta la dottrina ecclesiologica. E il Concilio l’afferma con chiarezza palmare: «Tutti nella Chiesa, appartengano alla gerarchia o siano da essa guidati, sono chiamati alla santità, secondo la parola dell’Apostolo: Questa è la volontà di Dio, la vostra santificazione» (1 Tess. 4, 3; Cost. sulla Chiesa, n. 39).

È sempre il rispetto della legge di vita che spinge alla fioritura e maturazione il germe di santità che «lo Spirito ha diffuso nei nostri cuori» (Rm. 5, 5). Per cui «è evidente che tutti i fedeli, di qualsivoglia stato od ordine di vita, sono chiamati alla pienezza e alla perfezione della carità» (Cost. sulla Chiesa, n. 40).

È la santità stessa del Padre che abbiamo vista rivelata nel Signore Gesù: «Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste» (Mt. 5, 48). Per questo, nella diversità delle membra e delle funzioni, il Corpo di Cristo è vivificato da «un’unica santità»: la santità degli adoratori dell’unico Padre, sotto l’azione dell’unico Spirito, sulle orme dell’umiltà e della povertà dell’unico Signore Gesù (Cost. sulla Chiesa, n. 41).

Unica santità nella molteplicità dei ministeri.

I Pastori realizzeranno la loro santità nell’umile e fedele continuazione dell’ufficio Sacerdotale, Pastorale ed Episcopale di Gesù. Nell’esercizio del ministero pastorale, dell’offerta del sacrificio, dell’annuncio della Parola, faranno la propria santità e quella dei fedeli.

I Presbiteri e i Diaconi, coadiutori del Vescovo, eserciteranno presso i fedeli la funzione della mediazione salvifica del Sacerdozio del Cristo, al servizio della Chiesa e dei battezzati. E lì, si farà la loro santità.

I Coniugi e i Genitori cristiani troveranno nella famiglia il luogo naturale della loro santificazione. Faranno esercizio di continua donazione d’amore nella comunità familiare, nelle angustie e ristrettezze economiche, nelle preoccupazioni e problemi familiari, nella procreazione ed educazione dei figli; quasi «testimoni e cooperatori della fecondità della Chiesa, in segno e partecipazione dell’amore con cui Cristo amò la Chiesa sua Sposa» (ibid., n. 41).

Simile posto di attività santificante in seno alla Chiesa è riservato anche alle persone vedove o non sposate. La Chiesa è capace di dare senso e positività ad ogni forma e condizione di vita umana, anche a quelle che il mondo ritiene fallimenti.

Coloro poi che operano nella società, soprattutto in lavori umili e duri, si sentano collaboratori di Dio nella ricostruzione di un ordine temporale che sia un preludio alla ricapitolazione di ogni cosa nel Cristo e alla sacralità del Regno di Dio. E lì, nel mondo, nel cuore delle realtà profane, attraverso la presenza e la testimonianza cristiana, mentre dimostrano che niente è irrimediabilmente estraneo alla grazia, realizzeranno la loro santità, la santità dei cittadini del Regno di Dio.

Non ultimo posto occupano nella costruzione della santità della Chiesa coloro che trovano la loro perfezione nell’unione a Cristo sofferente per il mondo. Si uniscono a lui, continuando nel tempo la mediazione salvifica del dolore, vivendo la «beatitudine di coloro che soffrono» nell’accettazione delle infermità, malattie, angustie del secolo presente, compresi l’odio e la persecuzione.

«Così ciascun fedele, nelle condizioni, mansioni e circostanze della sua vita. e per mezzo di esse, crescerà nella santità di giorno in giorno, se saprà prendere tutto con fede dalle mani del Padre celeste e collaborare alla realizzazione della Sua volontà, dando a tutti testimonianza nel servizio nelle cose temporali dell’amore con cui Dio ha amato il mondo» (ibid., n. 41).

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L’unica santità, nella molteplicità delle membra del Corpo di Cristo, è realizzata attraverso la fedeltà alle virtù evangeliche predicate e testimoniate dalla vita del Cristo.

E prima tra tutte, la carità; l’amore che rende presente Dio in noi perché Egli è appunto amore (I Giov. 4, 16); e che ci mette a servizio dei fratelli. È la pienezza della legge, il distintivo del discepolo di Gesù (Costit. sulla Chiesa, n. 42).

La castità rende il cristiano sensibile ed aperto alle cose di Dio, e, nella sua massima espressione - verginità o celibato - fa del cristiano un dono indiviso e graditissimo al Padre celeste (ibid.).

L’umiltà fa rivivere nel fedele il mistero dell’incarnazione del Verbo che «essendo ricco volle farsi povero» (2 C. 8, 9) «riducendosi a forma di schiavo,... obbediente fino alla morte» (Fil. 2, 7-8).

La povertà infine ci ridarà il senso e l’ansia della libertà di spirito che è la condizione dei veri figli di Dio (Cost. sulla Chiesa, n. 42).

Sono soltanto brevi spunti. Ma sono stimoli per un profondo e sincero esame di coscienza. È un chiaro rimando al «discorso della montagna», la «magna carta» della santità del cristiano, «i comandamenti del Nuovo Testamento». È lì che dobbiamo misurare la nostra statura di cristiani. Vi troveremo il programma per ogni vero discepolo di Gesù, i criteri unici di giudizio e di valutazione per ogni discorso o atto di Cristianesimo.

Ricostruiremo, lì, la nostra idea del «Cristiano». Una parola che significa «esemplare della santità di Dio nel Cristo», e che abbiamo svuotata di significato fino a ridurla al rango di sinonimo di «uomo». Dobbiamo rimeditare tutti, in umiltà, i capitoli 5-7 del vangelo di S. Matteo. Comprenderemo che cosa vuole Gesù dal suo credente; che cosa significa «Vangelo»; qual è l’impegno della santità nel fedele, sia esso sacerdote o laico.

Comprenderemo soprattutto che la santità cristiana non sta di casa di diritto in nessun luogo, fosse pure convento o monastero. Sta di casa - se si vuole - nel cuore di ogni battezzato nella misura in cui ogni cristiano raccoglie il soffio dell’«amore del Cristo che le Spirito ha diffuso nei nostri cuori».

 

p. Emilio Panella OP

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