Koinonia Dicembre 2019
L’ATTUALITÀ DI SERGIO QUINZIO CATTOLICO DELLO SCANDALO DI CRISTO
Nell’abbandono, il grido. Un grido che è anche invocazione. Sola fides. È quella di Sergio Quinzio. Ma può bastare? Si può ancora credere in un uomo – dato per risorto – che ha promesso di ritornare ma che, ormai da troppo tempo, latita? E intanto il dolore e la morte non sono stati affatto vinti, come promesso. E che dire del male che ampiamente dilaga?
La posizione di Quinzio è nota: la Chiesa, nel lungo arco della sua storia, ha sepolto la fede. Innanzi a un Cristo che non si è fatto più vedere, a un’umanità straziata che continua inesorabilmente a morire, la Chiesa non ha annunciato fino in fondo e come avrebbe dovuto il paradosso della resurrezione ma, al contrario, ne ha spiritualizzato il significato e ha smesso di prenderlo alla lettera: ha mutato la fede in allegoria. La Chiesa, per rendere plausibile il messaggio, ne ha avallato la demitizzazione. Si è data da fare per migliorare la vita dei vivi – le buone opere – e questo è perfettamente cristiano, ma ha reso sempre più pleonastica la resurrezione. In ciò indica e chiama a una moralità superiore e più alta: è divenuta umanissima. Ma potremmo dire nietzschianamente: umana troppo umana.
La Chiesa fallisce quando dà credito a quanti ritengono che questo mondo è suscettibile solo d’essere migliorato e che non debba invece essere rovesciato dalla potenza di Dio, trasformato radicalmente per un nuovo inizio. Quinzio non crede affatto all’altro mondo come un mondo separato, ma crede che questo possa e debba divenire totalmente altro. Rifiuta i paradisi celesti e medioevali, essi, sì, frutto primo dei processi di simbolizzazione e di spiritualizzazione, metafore del desiderio umano di beatitudine. Quinzio crede nel Regno di Dio qui su questa terra, così come è annunciato dal Vangelo e letteralmente: i malati sono sanati, una mano redentrice asciuga le lacrime sui volti degli uomini, i morti risorgono, regna la giustizia, trionfa la pace, splende l’amore. Il Regno di Dio è - ebraicamente - la terra redenta. Questo alla lettera. Chi non prende la parola del Vangelo alla lettera seppellisce la fede. Questa è la critica di fondo che Quinzio rivolge alla Chiesa. E tuttavia se ne sente parte: «Sono nato cattolico e giungo alla fine della mia vita cattolico... Sono giunto alla fi ne della mia vita e non ho udito pronunciare nel nome di Cristo le parole che speravo di udire, le parole che dovevano essere dette». E tra queste una più di tutte: «la resurrezione dei morti».
La cristianità volge alla fine inesorabilmente. E il cristianesimo? Quale il suo destino? Quale soprattutto il compito della Chiesa? La Chiesa non può, né deve accordarsi con la modernità, non deve inseguire il presente magari lungo la sua linea migliore, competendo con esso in termini di moralità. Meno che mai deve irretirsi con esso sia pure a fin di bene. Più determinatamente, la Chiesa non realizza la sua missione nel mondo se si limita a disimpegnare il compito di katechon, se cerca di ergersi a barriera per trattenere il male. Se la Chiesa interpreta in questi termini la sua missione finisce inesorabilmente per compromettersi con le potenze della terra. Il compito della Chiesa è quello di proclamare la fine del mondo, nel senso di spingere il tempo – questo tempo di dolore e di morte – verso la fine.
Coloro che accusano Quinzio d’impazienza, sostengono – e non senza ragione – che se la Chiesa non avesse accettato di compromettersi con il mondo non avrebbe potuto proseguire nella sua missione, sarebbe stata spazzata via e non avrebbe dato testimonianza al Risorto. Ma se la Chiesa, nata come comunità che attende il ritorno del Signore, si muta in organizzazione permanente dell’attesa, si snatura: sta in proroga, per conservarsi come istituzione. Se è vero che forzare la mano a Dio è nello spirito del peccato, è anche vero che la Chiesa per essere tale deve vivere nello spirito della fine, nella temperie dell’apocalisse.
Quinzio si sente parte della Chiesa, e nella specie si sente cattolico: nel contempo ne confuta la condotta, scorge il rischio della deriva. Ciò colloca Quinzio in una posizione anomala: è un cattolico antimoderno e nel contempo un personaggio ereticale. Antimoderno perché denuncia la modernizzazione del cristianesimo, ma nel momento in cui assume un atteggiamento antimoderno, lo fa per tornare alle originarie parole del Vangelo, per disseppellire la fede. Sicché l’antimodernità di Quinzio – che a prima vista potrebbe sembrare una posizione conservatrice – non tende affatto a conservare la Chiesa così com’è, ma anzi l’appella alla nudità della sua origine. L’anomalia Quinzio spiega perché abbia destato interesse presso il pensiero antimoderno e conservatore, presso il progressismo cattolico e il cosiddetto pensiero laico.
Ora, è in ragione della sua paradossalità che la fede cristiana non è stata divorata dal mondo e per questo – paradosso per paradosso – può risultare attraente perfino a chi non crede. L’ateo può non farsi persuaso di quel che il cristianesimo annuncia, soprattutto del contenuto improbabile di questa fede, ma di certo è turbato dal fatto che vi siano uomini capaci di essa. Credo quia absurdum: chi crede inquieta il non credente non per quel che annuncia, ma per il fatto che egli stesso ci crede. Si pone come un’interrogazione: allora è possibile? Eritis mihi testes: ma, a conti fatti, un testimone è credibile solo se ciò in cui crede dà buoni frutti; come dice il Vangelo: «Li potrete riconoscere dai loro frutti» (Mt 7,20). Lo si può dire di Quinzio: è stato un testimone e – come spesso capita, ai testimoni – scomodo. I testimoni danno la sveglia alla pigrizia del pensiero, sollevano questioni di verità e sono tanto più inquietanti quando quel che testimoniano decide della vita.
Salvatore Natoli
in “La Stampa” del 12 novembre 2019