Koinonia Dicembre 2019


IL CARDINAL JOHN HENRY NEWMAN E L’ESCATOLOGIA

 

Nell’epoca delle passioni tristi (così denominata prendendo a prestito un’espressione spinoziana da M. Banasayag e G. Schmit in un celebre studio del 2013), dominata dall’incertezza e dalla paura del futuro immediato, in cui il tempo quotidiano si fraziona in ore sovraffollate di impegni e le energie di ciascuno – fin dalla più tenera età - sono risucchiate dalla necessità di emergere o comunque districarsi in una società sempre più complessa, il destino che attende l’uomo dopo la morte sembra preoccupazione pressoché scomparsa o destinata a fugaci riflessioni durante le cerimonie funebri, salvo riemergere con violenza di fronte a una scomparsa improvvisa o particolarmente lacerante.

 

La stessa chiesa cattolica, che per secoli aveva incentrato la sua predicazione sul tema dei novissimi (tradizionalmente riassunti in morte, giudizio, inferno, paradiso), vive da decenni una crisi epocale e sembra paradossalmente non saper più cosa dire in proposito: anche le gerarchie, prendendo atto della crisi, parlano a questo proposito di una vera e propria “penombra teologica” (per esempio in La Chiesa e l’aldilà. Nota pastorale della Conferenza Episcopale dell’Emilia Romagna, EDB, Bologna 2000, p. 2). L’escatologia insomma, quella parte della riflessione dedicata al destino ultimo dell’uomo e del mondo, sembra caduta nell’oblio, in attesa di una revisione radicale del messaggio e del linguaggio con cui è stato veicolata finora.

 

Vale la pena, a questo proposito, riandare alla visione di John Henry Newman, teologo di straordinaria finezza di cui tutti i papi, da Leone XIII che lo nominò cardinale a papa Francesco che lo ha appena canonizzato, hanno apprezzato la levatura come quella di un dottore della chiesa e le cui intuizioni hanno preceduto di un secolo il Concilio Vaticano II (J. Guitton riporta il pensiero in merito di Paolo VI secondo il quale il Vaticano II era tutto Newman, che a suo parere si trovava “invisibile al centro del Vaticano II”). Il santo, nato a Londra nel 1801 e morto a Birmingham nel 1890, tanto popolare nei paesi anglosassoni quanto ignorato da noi, spese infatti parole bellissime sulla ragionevolezza della fede, sul primato della coscienza (da lui definita “primo vicario di Cristo”), sulla dignità dei laici, che voleva colti e capaci di rendere ragione della loro fede, ed anche sui temi escatologici maturò una visione particolarmente moderna, in linea con le riflessioni dei padri dell’escatologia novecentesca, soprattutto con quelle di von Balthasar.

 

Nel mio Il destino dell’anima. Il sogno di Geronzio e altri scritti escatologici, in uscita per Le Lettere nel 2020, pubblico, insieme ad alcune poesie e sermoni e a un brano dal romanzo Callista, la traduzione di un poemetto piuttosto celebre anche perché messo in musica da E. Elgar nel 1900, Il sogno di Geronzio: è un originale viaggio nell’aldilà, una meditazione in versi sul destino dell’anima e in particolare sul purgatorio, affidata al genere letterario del sogno per mantenere inequivocabile all’opera il valore di mera anticipazione fantastica riguardo a una condizione che rimane comunque inconoscibile anche alla più solida e profonda teologia.

 

Il poemetto raccoglie interessanti riflessioni sulla morte, dissoluzione completa agli occhi terreni che si rivela a Geronzio – una volta varcata la soglia – piuttosto la fine degli aspetti caduchi della creatura, di tutto ciò che lo rendeva sì parte dell’universo sensibile, ma anche lo disperdeva nella molteplicità. La perdita del corpo pone l’uomo in una condizione innaturale, privandolo di elementi costitutivi, ma in qualche modo lo mette per la prima volta in grado di ritrovare la pienezza, libero da ogni dispersione; dunque la morte è una trasformazione che consente il pieno compimento delle potenzialità umane, impossibile durante la vita terrena; è il distacco che prelude e prepara al cielo, all’incontro e alla comunione piena con Dio.

 

La parte più affascinante del poema è però quella riguardante il purgatorio, tema su cui Newman aveva riflettuto lungo tutta la sua lunga vita di teologo, pastore e poi sacerdote – da anglicano infatti era divenuto cattolico durante i suoi studi sui Padri della Chiesa - e a cui dedicò alcuni sermoni e diverse poesie, materiale che non era mai stato raccolto prima in un’antologia sistematicamente dedicata ai temi escatologici.

 

Fortemente critico da anglicano della dottrina cattolica sul purgatorio - trovava “prospettiva assai deprimente” quella di una “prigione chiamata Purgatorio, dove le anime sono tenute nel fuoco o in altri tormenti”  – cambiò idea dopo essere entrato nella chiesa di Roma ed aver studiato le formule magisteriali dedicate al tema e aver letto alcuni autori cattolici, in particolare San Francesco di Sales. Assimilata la dottrina e rilettala alla luce del tratto elegante e sensibile che fu suo peculiare, Newman, attraverso le parole pronunciate dall’angelo che guida Geronzio dopo la morte, si premura di rassicurare il lettore a proposito della condizione delle anime purganti: è una condizione lieta, perché sono anime salve e la purificazione necessaria per renderle atte a godere davvero la beatitudine eterna a cui sono destinate la accettano di buon grado, ormai in piena sintonia come sono con la volontà di Dio. L’intuizione più profonda, però, è quella di presentare l’ ignis purgatorius di cui parlava sant’Agostino come niente altro che lo sguardo d’amore incondizionato del Dio Uno e Trino il quale, all’incontro post-mortem, trafiggerà sì e brucerà l’anima, consapevole di non meritarlo, ma otterrà anche di renderla passiva, ovvero completamente disponibile a fare la volontà di Dio, e vivificarla. La purificazione di Geronzio, il suo purgatorio, infatti, comincia con l’elemento tradizionale del fuoco, che è fuoco d’amore però: non ha niente a che vedere con il tormento infernale, essendo piuttosto simile a quello di cui parlano i mistici, che nel loro cammino di unificazione con Dio ne sperimentano la potenza catartica e liberante via via che sentono la propria volontà estinguersi - la passività in cui entra anche l’anima di Geronzio - e adeguarsi a quella di Dio. Amore che brucia, dunque, non per punire ma per purificare e assimilare tra loro gli amanti.

 

E’ evidente come la visione newmaniana annulli d’un balzo tutto un folto repertorio tradizionale, compreso quello pur splendido di Dante, che voleva il purgatorio un “luogo” popolato di anime sofferenti, una sorta di piccolo inferno insomma, e sulla scia piuttosto di Caterina da Genova e Francesco di Sales, presenti il purgatorio come un tempo di preparazione e di allenamento alla visione beatifica, più simile a quella toeletta nuziale di cui parlano alcuni teologi ortodossi che alla visione semi-infernale trasmessa da secoli di predicazione cattolica.

 

Già da anglicano, Newman predicava che dopo la morte “dovremo stare dinnanzi alla Sua giusta Presenza, e questo a uno a uno. Uno a uno dovremo sopportare il suo occhio santo e penetrante”, che sarà simile a “fiamme di fuoco”, e lo sguardo di Dio metterà in luce la verità tutta intera di ciascuno, quella che nemmeno l’indagine più minuziosa di sé può vantare di aver mai raggiunto; “tutti noi dovremo subire la spietata e terrificante visione del nostro vero io, ultima rovente prova dell’anima prima di essere ammessa in cielo”: dunque l’incontro intimo e profondo con Dio, nel quale consiste il giudizio, sarà una sofferenza bruciante, una durissima prova, che anche i salvati dovranno sopportare.

 

C’è necessaria purificazione nell’incontro con Dio, ma nessun luogo mitologico: presentato così, con finezza psicologica e teologica insieme e con la sobrietà attestata tra l’altro dallo stesso magistero (che afferma l’esistenza del purgatorio, ma senza addentrarsi in alcun tipo di descrizione), è qualcosa di molto diverso dalla vulgata costruita dai predicatori che Lutero un giorno aveva ascoltato e che sulla paura della prigione semi-infernale avevano costruito una dottrina tutta stravolta delle indulgenze, da cui si scatenò, come sappiamo, la cosiddetta Riforma, di cui almeno in parte anche gli anglicani sono figli. Non c’è un luogo per la purificazione, così come non c’è un “paradiso”, né un inferno: l’unica realtà è Dio, scrive e predica Newman, in Lui si vive la beatitudine eterna se si è salvi, e sempre il Lui si vive la dannazione eterna, qualora nella vita si siano rifiutati i valori che lo descrivono. Il peccatore impenitente si troverà come tutti gli altri per sempre nelle Sue braccia e per lui sarà un inferno se, per tutta la vita, avrà praticato valori contrari da quelli divini. Così avevano già ragionato gli antichi teologi, come Massimo il Confessore o Giovanni Damasceno, quando avevano ritenuto l’inferno consistere nell’impossibilità soggettiva di partecipare alla comunione con Dio, che da parte sua invece abbraccia tutti senza esclusione.

 

Furono proprio la confidenza e la contemporaneità elettiva con gli “antichi luminari della Chiesa”, i Padri da lui tanto amati, la fonte dell’estrema libertà che permise a Newman di rimanere immune dall’aridità di tanta teologia neoscolastica del suo tempo e diradare la nebbia che le vicende storiche avevano finito per accumulare sulle questioni escatologiche, attingendo invece alle fonti originarie del cristianesimo, quelle precedenti alle tragiche divisioni successive. Questo respiro patristico è probabilmente il tratto che rende Newman così vicino alle intuizioni della teologia novecentesca e del Concilio Vaticano II, anch’essi profondamente animati dall’attenzione alle origini del cristianesimo.

 

“Dio è il cielo per chi lo guadagna, l’inferno per chi lo perde, il giudizio per chi è esaminato da Lui, il purgatorio per chi è purificato da Lui”, scriverà esattamente un secolo dopo Il sogno di Geronzio, il grande von Balthasar superando finalmente la vetusta teologia dei novissimi, ma sono parole che potremmo opportunamente attribuire allo stesso Newman, in sintonia con l’affermazione paolina della regalità di Dio, per cui alla fine dei tempi Dio sarà tutto in tutti.

 

Beatrice Iacopini

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