Koinonia Dicembre 2019


“CONVERTITEVI!” (I)

 

Parte prima: La straordinaria conversione di Paolo

 

Quando “Saulo” (Paolo) spirava ancora “minacce e stragi” contro di essi, i primi credenti in Cristo Gesù erano chiamati “gli appartenenti a questa Via” (At 9,1-2). Soltanto dopo,  ad Antiochia, là dove lo stesso Paolo, ormai convertito sulla via di Damasco, rimase insieme a Barnaba “un anno intero” per istruire “molta gente”, saranno “per la prima volta … chiamati cristiani”  (At 11,25-26). La fede cristiana è un cammino spedito di vita, con nel cuore la salvezza di tutti e della creazione intera. In questo senso Gesù stesso dice di essere “la via” (Gv 14,6).

Giungendo a Tessalonica, e discutendo coi giudei suoi fratelli in sinagoga “sulla base delle Scritture”, Paolo convinse “un grande numero” tra essi ad aderire al suo annuncio, ma c’era anche chi reagì contro, additando lui e gli altri come “quei tali che mettono il mondo in agitazione” (At 17,1-7). L’istituzione, politica o religiosa che sia, da sempre teme chi mette agitazione. La fede cristiana ha occhi costantemente rivolti al futuro e il cuore colmo di domanda, attesa. La fede non è mai un punto di arrivo e di quiete ma di partenza, Una vera e propria “corsa” (2Tm 4,7) a seguito di un vero e proprio “salto” direbbe Kierkegaard. Di qui la sua difficoltà a reggere nel tempo che passa. Ne sappiamo qualcosa noi poveri e fragili credenti, “vergini” più o meno addormentate con lampade spente nella notte in attesa dello “sposo” che, soprattutto dopo l’enorme ritardo che sperimentiamo oggi, potrebbe arrivare da un momento all’altro (Mt 25,1-13). La salvezza è soprattutto quando “indugia” che bisogna con tutte le forze continuare ad attenderla, “perché certo verrà e non tarderà” (Ab 2,3).

Quella di Paolo fu una conversione davvero straordinaria, senza di essa il cristianesimo non sarebbe certo lo stesso che conosciamo e che ha così fortemente segnato la nostra storia. Fu una vera e propria bastonata quella con cui Dio lo colpì scaraventandolo a terra, accecandolo con la sua luce (At 9,3-7). Gesù era stato ucciso da pochissimo, l’avventura cristiana era ancora in germe e Paolo aveva già cominciato a dargli addosso. Ce lo racconta egli stesso: “Perseguitavo ferocemente la Chiesa di Dio, la devastavo” (Gal 1,14). Si dice che tra la crocifissione di Gesù e la più antica delle lettere di Paolo, siano trascorsi meno di vent’anni, un arco di tempo brevissimo in cui, per le fondamenta e la coscienza di quel che crediamo, è forse accaduto più che in tutti i successivi venti secoli di storia. Non è cosa di poco conto il fatto che lì la potenza dello Spirito soffiava rendendo Parola di Dio quel che alcuni andavano vivendo (nel bene e nel male) e scrivendo, prendendo presto coscienza che in Gesù di Nazareth si era manifestato il farsi “carne” di Dio, colui “per mezzo” del quale “il mondo è stato fatto” (Gv 1,1.10).

Pensiamo anche soltanto alla conversione di Paolo: come poteva dire di avere “veduto Gesù, Signore nostro” (1Cor 9,1) se non lo aveva mai incontrato in vita? Con quale potenza di rivelazione, con quale “voce” agì su di lui il Risorto, quel Gesù i cui seguaci egli accanitamente andava perseguitando proprio per il loro credere che fosse risorto? Con quale potenza Dio lo colpì, fino a stravolgere radicalmente e in un attimo le sue più profonde convinzioni? Lì Paolo – dice Romano Guardini – “esperimenta la realtà di Cristo; colui che i potenti considerano morto ed eliminato, in misteriosa maniera vive; Egli è stato confermato da Dio, ha potere e maestà. A Paolo si manifesta questa rivelazione e crede … In Cristo gli si è avvicinato il Dio vivente e lo ha accolto nel raggio della sua azione. Ora Paolo sta in una relazione di vita interamente nuova, quello che egli più tardi esprimerà nelle parole che sempre ritornano: ‘Io in Cristo, Cristo in me’”(Libertà, grazia, destino). “Sono stato crocifisso con Cristo, e non vivo più io, ma Cristo vive in me” (Gal 2,19-20). “Per me infatti il vivere è Cristo e il morire un guadagno” (Fil 1,21).

E non è tale potenza in qualche misterioso modo tra noi ancora oggi? C’è un già, una presenza del Signore che non ci ha lasciati del tutto “orfani” (Gv 14,18), e che gli occhi della fede ci permettono ogni tanto di vedere; sia pure ancora “in modo confuso, come in uno specchio” e non certo “faccia a faccia” (1Cor 13,12). Gesù già “siede alla destra del Padre”, diciamo nel Credo; e però ancora non regna. “Il Cristo è ormai esaltato al di sopra dei cieli – dice Agostino -, ma soffre qui in terra tutte le tribolazioni che noi sopportiamo come sue membra” (Disc. Ascensione). Solo essendo consapevoli di questo già e non ancora insieme, possiamo continuare a credere che “di nuovo verrà nella gloria a giudicare i vivi e i morti”, come diciamo ancora nel Credo.

Ma alla fine decisivo si sappia è il non ancora. Persino l’apice del già infatti, l’avvenimento cardine della fede, la risurrezione di Gesù, non sarebbe mai accaduto se il non ancora della risurrezione dei morti nell’ultimo giorno non dovesse mai accadere. Su questo Paolo è stato molto esplicito (1Cor 15,12-19). Ed è perciò bene mettersi ogni tanto in ascolto dei nostri fratelli ebrei. Non è senza significato che là, sulla via di Damasco, la voce che Paolo udì diretta a lui solo, voce che gli assegnava il compito di andare ad aprire gli “occhi” alle genti, “perché si convertano dalle tenebre alla luce e dal potere di Satana a Dio”, era “in lingua ebraica” (At 26,13-18). A parte rarissime eccezioni, Paolo “in piedi in mezzo all’Aeròpago” che parla di “risurrezione dei morti” venne liquidato con una risata (At 17,22-33). Tra Atene e Gerusalemme l’opposizione è radicale, ci ricorda Lev Šestov.

Non potremmo comprendere la conversione di Paolo senza tenere conto della sua fede tutta ebraica che continuava ad alimentare la sua vita di credente. Ciò che “‘Paolo ci dice del suo intimo mutamento, mostra il carattere della istantaneità. Fu una crisi improvvisa: nessuno l’aveva influenzato o ammaestrato; non vi fu mediatore, aiutante. Paolo si trovò solo con se stesso in questa sua visione’ (L. Baeck) … L’apostolo si vide improvvisamente in una situazione ‘post-messianica’, mentre Israele restava come prima in una situazione ‘pre-messianica’: aspettava e continua ad aspettare la venuta del Messia” (F. Mussner, Il popolo della promessa).

Questo non altro è il nodo decisivo della fede cristiana, che non può vivere senza attingere linfa dalla fede ebraica su cui resterà radicata per sempre, come ramo “selvatico” alle sue vere radici, dirà lo stesso Paolo (Rm 11,16-21). Una fede dunque che proprio contenendo entrambi gli aneliti del già e del non ancora continua a permeare di sé tutto l’agitarsi del mondo contemporaneo con le sue attese e pretese. In troppi non si riesce più a credere in Dio, è vero, ma nessuno può negare che tutto quanto continua a muoverci, in maniera sempre più accelerata, non sarebbe tale senza coloro che ci hanno creduto.

Martin Buber ritrova ad un certo punto nella memoria il momento in cui si trovò a leggere da bambino un’antica leggenda ebraica. Vi si racconta che davanti alle porte di Roma sta seduto un mendicante malato di lebbra in incessante attesa. Ed è nulla di meno che il Messia, l’atteso da Israele. “Mi recai allora da un vecchio – dice Buber – e gli domandai: ‘Che cosa aspetta?’. Ed il vecchio mi dette una risposta che io allora non capii e che ho imparato a capire più tardi. Egli mi disse: ‘Te’” (Discorsi sull’Ebraismo).

Ecco, proprio in questo passaggio possiamo trovare gli elementi fondamentali che lo stesso Gesù, in quanto ebreo, sottolineava per riuscire a credere: tornare alla capacità di domanda dei bambini, attingere dalle promesse del passato tramite la memoria, avendo alla luce di tutto ciò il coraggio della conversione e dell’attesa. Dell’attesa del Messia prima di tutto, che per noi cristiani è quella della sua seconda venuta. Ma anche dell’attesa del Messia che a sua volta attende ognuno di noi che lo aspetti. Attendendo come un mendicante, si badi, come uno che non può fare nulla per noi senza il nostro volgersi a lui, senza la nostra conversione. Un’attesa struggente di ogni giorno è quella del Signore che ci aspetta, come in agonia – direbbe Pascal – fino alla fine del mondo. “In mezzo al trono” l’“Agnello” è “in piedi”, ha vinto, ma “come immolato” (Ap 5,6); i segni della crocifissione li porta ancora tutti nel suo corpo di risorto.

 

Daniele Garota

(1.continua)

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