Koinonia Novembre 2019


LA POTENZA DI UN DIO CHE È  MORTO

 

Se Dio è “il Vivente” (Ap 1,18), è necessario mettersi in ascolto e parlargli, come ci si mette in ascolto di un padre, come si rivolge la parola a un amico: con timore e tremore tuttavia, perché è Dio. Il fatto però che si sia costretti a parlare di lui anziché a lui, che si sia cioè costretti a fare teologia, è già porsi in uno stato in cui Dio lo percepiamo assente e silenzioso, lontano.

Ma perché è assente e silenzioso Dio? Forse perché, come dicono alcuni, non esiste. Oppure è esistito ma poi è morto di vecchiaia oppure, come dice il folle nietzschiano, assassinato da tutti noi. O è invece, come altri ancora dicono, assente e silenzioso perché si è ritirato e allontanato da noi, quasi non ne potesse più di vedere e sentire tutto ciò che di male accade nel nostro mondo e nella nostra storia? Ecco, forse oggi per restare davvero credenti si deve prendere più che mai sul serio questo dramma del silenzio e della morte di Dio.

C’è intanto un silenzio di Dio che bisogna accettare con tutto il suo bagaglio di skandàlon, d’insidiosa pietra d’inciampo, senza attutirne l’impatto tirando in ballo il solito escamotage secondo il quale Dio parla e siamo semplicemente noi che non l’ascoltiamo. Ma soprattutto c’è una morte di Dio da accogliere come tale fino in fondo, senza ricorrere, anche qui, a ingenui e facili rammendi spiritualistici soltanto perché non si riesce a portarne il peso. Un peso enorme di cui ha parlato un credente come pochi, Dostoevskij, prendendo spunto dal Cristo morto dipinto da Hans Holbein a grandezza naturale. Le sue impressioni le ha messe in bocca a Ippolit ne L’idiota: “Se tutti coloro che credevano in lui e l’adoravano videro un simile cadavere (e in realtà doveva essere esattamente identico a quello che aveva rappresentato l’artista), come poterono conservare la fede che quel martire sarebbe risuscitato?... E se il Maestro stesso, alla vigilia del supplizio, avesse potuto vedere la propria immagine, chissà se sarebbe salito sulla croce e se vi sarebbe morto come morì?”. Sono domande che il credente non può non porsi, rasentando l’incredulità, aggrappandosi incessantemente all’aiuto di Dio così come del resto vi si aggrappò il Cristo prima di morire.

Ma il Dio morto incarnato da Gesù Cristo, dice la fede, è più potente del più vivo degli uomini. Egli, come il serpente di bronzo di Mosè, è proprio quando viene issato sul palo che attira tutti a sé, è quando mostra le piaghe aperte a Tommaso che rivela il suo essere vero Dio e vero uomo: Dio che vince la morte morendo così come annienta la superbia dei potenti svuotandosi, “assumendo una condizione di servo” (Fil 2, 7-8). Il Dio che vince la morte è un uomo che muore soffrendo pene indicibili, un Dio che non dovrà vergognarsi di fronte alla gran moltitudine di innocenti che hanno dovuto soffrire fino a morire e che tuttora attendono da lui liberazione e riscatto.

Mai gli uomini hanno potuto parlare a un Dio come alcuni un giorno poterono parlare con quel falegname galileo. Persino Abramo aveva sperato di incontrarlo in quel modo e non ci riuscì. E mai gli uomini hanno potuto udire una promessa più grande di quella pronunciata dalle labbra di Gesù: “Questa è la volontà del Padre mio, che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato ma lo risusciti nell’ultimo giorno” (Gv 6,39). Mai Dio era caduto così in basso e mai Dio aveva promesso cose così alte, inimmaginabili. Egli farà cose impossibili. Sì, noi crediamo in un Dio impazzito d’amore: prendere o lasciare. Qui sta e cade la fede.  

I discepoli di Emmaus lungo la via parlavano di lui credendolo sepolto per sempre nella tomba. Avevano sperato in lui in molti e invece… fallimento su tutta la linea: amici che lo rinnegavano e fuggivano, capi che si fregavano le mani sghignazzando, folla inferocita che non vedeva l’ora di farlo fuori. Ma all’improvviso eccolo ad un tratto lì che cammina accanto a loro, e si metteranno allora a parlare di lui a lui senza sapere chi fosse, credendolo uno straniero ignaro di tutto. E sarà solo mentre egli spezza il pane che di colpo lo riconoscono come altrettanto di colpo, scomparirà dalla loro vista. E che fecero allora? Si rimisero a parlare di lui, senza di lui questa volta, e però con una grande speranza addosso, perché lo avevano visto vivente, pochi istanti prima proprio lì in casa loro. Colui che si pensava morto e sepolto si è cominciato così a crederlo di nuovo vivo. E pure oggi, anche se non è più tra noi da troppo tempo, anche se non è ancora con noi, egli continua a essere “il Primo e l’Ultimo, che era morto ed è tornato alla vita” (Ap 2,8).

Sarebbe dovuto tornare subito, è vero, la promessa era infatti: “Sì, verrò presto!” (Ap 22,20) mentre altri duemila anni sono passati. Ma se una qualche briciola di fede non ha ancora smesso di vibrarci dentro, anche a noi è data in qualche povero modo la possibilità di essere come quei due discepoli, sia pure con un macigno d’inciampo in più sulla via: noi il Risorto non lo abbiamo mai ancora visto. La fede è un ponte che aiuta ad attraversare l’abisso tra il non più e il non ancora, tra le cose prime e le ultime, un abisso in cui non si vede più e non si vede ancora ciò che si crede, un ponte che da un momento all’altro potrebbe anche crollare facendoci precipitare nella negazione o nell’abbandono di Dio.

Martin Buber ha individuato due fondamentali maniere di credere: quella di chi nutre “fiducia in qualcuno” e quella di chi riconosce “per vero qualcosa”. Chi crede nel Dio biblico sceglie la prima: Dio è una persona, qualcuno che possiede un certo carattere, che è capace di appassionarsi, di gioire, piangere e soffrire, di creare mondi e di tremare di paura. Le Scritture sacre non sono un trattato di metafisica, ma la rivelazione di un Dio vivente.

Dio è uno di cui abbiamo un infinito bisogno, ma anche uno che ha infinitamente bisogno di noi, uno che ci ha fatto capire senza mezzi termini questo: o mi salvo con voi oppure per me la salvezza non ha senso. Gesù ci ha insegnato a pregare chiedendo prima di tutto qualcosa di cui ha bisogno Dio: la santificazione del suo nome, il compimento della sua volontà, la venuta del suo regno, tre cose che egli, lungi dal solo pensare a sé, non può che volere insieme a noi e per noi.

Dio è qualcuno con cui l’uomo di fede è entrato in qualche modo in contatto, come quando qualcuno ci sfiora appena incrociandoci con uno sguardo che non riusciamo a dimenticare, uno sguardo sufficiente a donare a entrambi tenerezza e luce, desiderio di rivedersi presto. Fede non può esserci se non si è in qualche modo fatta esperienza di un simile incontro con Dio.

La rivelazione cristiana dice che Dio è morto per salvarci tutti. E non è davvero il caso di precipitarsi subito a dire: sì è morto, ma ora vive per sempre e ha “potere sopra la morte e sopra gli inferi” (Ap 1,18). Aspettiamo un poco prima di dire questo. La passione del Signore, la sua tremenda agonia, la dovremmo fare nostra fino a riempircene le viscere, fino a piangere percorrendo “senza vergogna tutto il mondo” se potessimo, come disse il Poverello d’Assisi (Fonti francescane, 1790). Altrimenti l’annuncio di resurrezione diventa per noi la pezza con cui troppo in fretta ricopriamo l’orrore, lo scandalo della croce. Non possiamo amare Dio con tutte le forze e cogliere la misura del suo amore se non ci immergiamo fino in fondo all’inestricabile paradosso di tutto ciò che di terribile è accaduto e sta ancora accadendo nel mondo. Karl Barth ha ragione: se togliamo lo scandalo dalla vicenda evangelica noi rischiamo di diventare bestemmiatori.

La risurrezione di Gesù è un miracolo che diventerà inoppugnabile e concreto soltanto quando ogni tomba sulla terra sarà svuotata. Se la morte non è vinta, se i morti non risorgeranno, nemmeno Cristo è risorto: san Paolo ha detto cose chiarissime su questo preciso punto. La fede è un anelito rivolto a ciò che deve ancora accadere prima di tutto, un anelito che può avere origine soltanto se si fa esperienza di qualcosa che già c’è, certo, ma che non avrebbe senso se insieme non percepissimo il vuoto e il peso di ciò che ancora non c’è. La fede è un vuoto, un grido, come quello di Gesù crocifisso, una voragine che aspetta di essere colmata. La fede è “fondamento” (Eb 11,1) quando con santa insistenza grida la sua domanda a Dio, come la povera “vedova” davanti al “giudice disonesto”, magari senza più fiato in gola (Lc 18,1-8). Anche i morti gridano “a gran voce: ‘Fino a quando?’” dal silenzio delle loro tombe (Ap 6,9-10).

Fondamentale è la croce ma in essa colui che era la quintessenza della fede e della salvezza ha gridato a Dio perché lo avesse abbandonato, attendendo risposta con una urgenza pari a quella che si ha quando si è a due passi dalla morte. Una risposta mai ottenuta. Perché? Vi era lì forse il mistero di Dio che invocava Dio, che invocava se stesso? E perché no, non ha anche Dio in qualche modo fede da quando ha iniziato a camminare insieme a noi nelle difficoltà della storia, non è cioè anch’egli costretto a sperare e attendere insieme a noi ciò che ancora “non si vede” (Eb 11,1)?

Il Regno è un incontro tra ciò che spera Dio e ciò che sperano gli uomini. Dio non può essere il Vivente se non fosse Dio dei vivi, se i morti non dovessero un giorno risorgere com’egli è risorto. E nel frattempo, lungi da ogni presuntuoso possesso di verità, all’uomo di fede non resta ogni volta che il paziente accusare il colpo condividendo la pena con Dio.

Davanti all’eccessivo male, al grido inascoltato della bambina seviziata dal mostro, davanti allo scandalo dei terremoti e di un creato che geme e soffre, la bontà e la comprensibilità di Dio si tengono per noi insieme soltanto se accanto a esse percepiamo la sofferenza e l’impotenza di Dio. Di questo – dopo Auschwitz, dopo l’indebolimento della teodicea – si è cominciato a prendere coscienza negli uomini più attenti e pensosi, in coloro che non si sono ancora addormentati del tutto, credenti o non credenti che siano.

Ma là dove questa coscienza non venga a sua volta rimossa dai compiacimenti estetici e dalla fredda chiacchiera teologica, un’altra domanda angosciante ci si para subito davanti: potrà salvare anche noi, oltre alla propria faccia, un Dio così ridotto all’impotenza e alla sconfitta? Potrà salvare il mondo, potrà fare nuovi cieli e terra, potrà spaccare le tombe e far uscire vivi i morti? Potrà venire nell’ultimo giorno a giudicare la terra? Potrà asciugare le lacrime di coloro che piangono e servirli a tavola così come ha promesso?

La fede dice sì, lo può. Anzi, dice che è l’unico Dio a poterlo fare nell’ultimo giorno: mai Dio è stato così potente come quando all’inizio ha rinunciato alla sua potenza, per amore, per non restare solo, per renderci liberi, per consolarci nelle nostre debolezze fino a farsi debole con noi e come noi, per donarci gioia eterna, gioia di vederlo faccia a faccia. Mai si era saputo prima che Dio avesse così tanto bisogno degli uomini, fino a mettersi nelle loro mani, fino a farsi ammazzare. Mai un Dio si è rivelato così potente come quando è stato in grado di farsi “obbediente fino alla morte e alla morte di croce” (Fil 2,8). E sarà la potenza di questo Dio morto per amore a salvare il mondo, ad annientare e per sempre “l’ultimo nemico: la morte” (1Cor 15,26).

Ma due cose ancora ci si fissano nella mente se leggiamo fino in fondo i Vangeli. La prima: fede è una invocazione, un grido appeso a una promessa così lontana che Gesù stesso dubita di trovarne nel giorno del suo ritorno tra noi sulla terra. La seconda: salvezza è passare attraverso una porta così stretta che a stento qualcuno riuscirà a trovarla, a superarne la soglia.

Ecco, sarà potentissimo, inimmaginabile il gesto col quale Dio redimerà il mondo e la storia, ma “pochi” potrebbero essere quelli che si salvano (Lc 13,23-24). A noi spetta di desiderare la salvezza di tutti, della “pecora” perduta e lontana soprattutto: il Padre celeste è uno che con pazienza somma fa piovere e splendere il sole su ognuno “non volendo che alcuno perisca” (2Pt 3,9). Ma se la salvezza dovesse essere povera, un brandello strappato dalle grinfie di un “mondo perverso” (Gal 1,4), questo non accadrebbe certo a causa di un Dio che non è stato capace di amarci “fino alla fine” (Gv 13,1).

 

Daniele Garota

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