Koinonia Novembre 2019


LA LEZIONE DI ATENE PER PAOLO E PER NOI...

 

Dopo i vari passaggi attraverso il Sinodo sull’Amazzonia, il rinnovato “Patto delle catacombe”, il richiamo alle Comunità di base, ero portato a cercare il filo conduttore e il motivo ispiratore di eventi e discorsi convergenti, per capire e mettere a fuoco a quali scelte vogliono orientarci, per evitare che tutto finisca senza lasciare traccia. Probabilmente non sarà così per il Sinodo sull’Amazzonia, perché in questo caso non sembra mancare un soggetto reale che se ne faccia carico.  Ma visto che esso è definito da papa Francesco un “simbolo” per la chiesa tutta, quali ricadute tra di noi?      

Di tutto questo, dunque avrei voluto dire:  senonché, all’indomani della Udienza generale del 6 novembre, Papa Francesco ha parlato di Paolo ad Atene e non ho potuto fare a meno di leggere il suo discorso: per la semplice ragione che ha toccato le corde di una “Chiesa dei gentili”, che sono sempre tese e pronte a emettere suoni, in quanto non si tratta di un’ipotesi di lavoro abbandonata, ma di un’idea guida e motivo di impegno che continua ad animare passione, azione, riflessione e comunicazione. E questo nonostante che si tratti di “ciò che è nulla” rispetto  alle “cose che sono” (1Cor 1,28).

Guarda caso è proprio quanto Paolo ha sperimentato e imparato dopo Atene, ed è la lezione riproposta anche a noi. Mi è sembrato che proprio il discorso del Papa potesse aiutarci a trovare il bandolo di quanto andiamo dicendoci. In effetti, l’urgenza che emerge e attraversa tutte le nostre indagini è quella del vangelo, che Papa Francesco evoca nel suo discorso di chiusura del Sinodo: “L’annuncio del vangelo è urgente, è urgente. Ma che sia udito, che sia assimilato, che sia compreso da quelle culture”. Per cui la parola chiave diventa “inculturazione”, che ritorna quando egli parla di Paolo ad Atene. Dove forse sarebbe più giusto parlare di “assunzione” più che di inculturazione.

Nel senso che Paolo non ha un pensiero, una dottrina, un sistema mentale o istituzionale, insomma una cultura da adattare e rendere compatibile con una cultura diversa: ha semplicemente la fede nel vangelo da annunciare che si comunica e si incarna appunto assumendo pensieri, parole e simboli della comunicazione viva con persone e ambienti così come sono. Non ha insomma una chiesa costituita e formata alle spalle, ma è in atto di ecclesiogenesi continua. Non a caso egli ha imparato dall’esperienza dell’Areopago a cambiare metodo e linguaggio, per cominciare a Corinto a predicare un vangelo “stoltezza per i greci e scandalo per i giudei”. E non a caso si ribella quando lo si vuol costringere a piegare la fede alla circoncisione.

Ecco allora il punto: se il papa ripropone l’esempio di Paolo come modello di inculturazione, forse è il caso di non dimenticare la lezione imparata da Paolo quanto alla predicazione del vangelo, che è fondante, prioritaria, non legata alla plausibilità o ragionevolezza preventiva, ma neanche condizionata da eredità, dottrine, osservanze, precetti, gerarchie, appartenenze, ritualità, tradizioni, apparati religiosi, che spesso sono la tomba o il dissolvimento della fede! È quell’insieme di situazioni che potrebbe andare sotto il nome di “clericalismo”  o ecclesiocentrismo più o meno larvato.

Ridotta ai minimi termini, la lezione complessiva di Paolo sta nel primato e nella forza del messaggio, a prescindere da strumenti di comunicazione, condizioni e modalità di annuncio, perché “la Parola di Dio non è incatenata” anche se noi siamo in catene. Detto in altri termini, la chiesa del vangalo - in forma evangelii - non si identifica con nessuna forma storica precisa, quasi fosse “chiesa realizzata”, ma è un processo aperto di ecclesiogenesi di cui rendersi interpreti.

Di fatto, Paolo ad Atene non trova terreno favorevole per “ellenizzare” la fede, salvo restando che un uomo e una donna, Dionigi e Damaris, ascoltano la sua parola e si aprono alla fede. Se proprio ne vogliamo trarre un’indicazione pastorale, il problema non è che la verità della fede si rivesta di elementi  linguistici e culturali più accessibili, ma che sia una fede capace di assumere tutti i linguaggi e tutte le culture, per confessare e invocare il nome del Signore, in cui soltanto c’è salvezza. Parafrasando Giovanni XXIII, non è il vangelo che cambia, ma siamo noi che impariamo a comunicarlo meglio.

 

ABS

.

.