Koinonia Ottobre 2019
L’”Osservatore romano” del 26 settembre ricorda Renzo Rossi
Girò il mondo per stare con i poveri
Non si faceva certo notare per l’imponenza della statura don Renzo Rossi. «Piccino e spepero», secondo la definizione di don Milani che gli fu amico, vestiva un clergyman consunto e si faceva notare per gli occhi vispi e le pacche che distribuiva con sorriso sbarazzino a chiunque gli capitava a tiro. Spesso mi son chiesto se tirava le pacche anche al cardinal Elia Dalla Costa di cui era devotissimo.
Lo incontrai quando, già avanti negli anni, venne a propormi di tradurre in italiano un libro sulla sua attività nelle carceri brasiliane scritto dal giornalista Emiliano José che a sua volta aveva conosciuto le nefandezze di quelle prigioni. Non era un vanitoso don Renzo, la pubblicazione voleva essere un gesto di riconoscenza ai tanti, brasiliani e italiani, che lo avevano aiutato a lenire le sofferenze dei detenuti politici al tempo della dittatura negli anni dal 1975 al 1980.
Padre socialista e madre fervente cattolica, Renzo entrò in seminario alla vigilia della seconda guerra mondiale. In seminario fu compagno di don Lorenzo Milani, di lui avanti di un anno, e ne divenne amico e confidente. Ricordava don Rossi: una sera, quando era già buio, stavo in archivio a Calenzano dove in precedenza era stato don Milani prima di essere trasferito a Barbiana. Improvvisamente arrivano un gruppo di giovani che gli invadono la canonica. Interrogati, dissero che erano venuti per salutare e ringraziare. «Di che?», chiese don Renzo. E i giovani: «Lei è un amico di Lorenzo. Ce lo ha detto lui. Ci ha detto che lei è un amico sicuro di Lorenzo!». Commentava poi don Rossi: «Non mi dimenticherò mai questo gesto di delicatezza. Pur nel dolore di aver lasciato Calenzano pensò di mandare i suoi ragazzi da me!».
Ma non era solo di cortesia la loro amicizia. Don Renzo seguì da vicino la crescita di Esperienze pastorali e soprattutto cercò di metterne in pratica i suggerimenti. Curato nella parrocchia di Vicchio nel Mugello, decise, nello stesso tempo, di entrare all’Italgas come cappellano di una fabbrica che all’epoca contava circa 500 operai. L’accoglienza non fu certo trionfale. I commenti più benevoli: «Non vogliamo preti qui... Siamo comunisti. Non abbiamo bisogno di preti». Capì allora che l’avvicinamento doveva essere lento. Paziente, si limitò ad essere una presenza umana, con un saluto ripetuto, con le sue pacche distribuite senza stancarsi. Pian piano alcuni rapporti si stabilirono, qualcuno lo invitava a mangiare alla mensa e così si creavano legami, cadevano pregiudizi. Si scherzava anche. Una volta gli verniciarono le scarpe di rosso. A un capo comunista che lo criticava perché parlava troppo con un prete, un operaio rispose: «Posso essere comunista anche se sono amico di un prete!».
Poi per Capodanno del 1956 Renzo compì un gesto che conquistò anche i più lontani. Sapeva che i forni non potevano essere spenti, che nella fabbrica vi erano degli operai che lavoravano mentre tutti brindavano al nuovo anno. E allora prende la bici e con un dolce sotto il braccio e un fiasco nell’altra mano si reca alla fabbrica. Gli chiedono: «Come mai è qui?». Risponde: «Voglio stare con i miei amici». Quella notte anche gli operai più duri avevano negli occhi lacrime di gratitudine.
Passarono gli anni, cambiò il Pontefice, venne indetto il concilio Vaticano II, a Firenze arrivò un nuovo vescovo. Don Renzo, sull’onda del sentire conciliare, ritenne giunto il tempo di andare verso i più poveri, per condividere la sorte dei miseri e senza tetto. Chiese, dunque, di partire missionario in Africa ma il nuovo vescovo inizialmente non ne voleva sapere. Il piccolo prete, tuttavia, sempre obbediente, non era facile da convincere quando si trattava di convinzioni fondate. Al cardinale Florit ricordò l’opzione per i poveri di cui tanto si parlava al concilio. Alla fine, proprio al ritorno da una sessione conciliare, il cardinale gli comunicò che aveva deciso di accogliere la sua richiesta. La meta, però, non era l’Africa, bensì il Brasile dove un vescovo aveva urgente bisogno di sacerdoti.
Partì don Renzo accompagnato da un grande numero di fedeli e di amici. Giunse a destinazione a Salvador, capitale dello stato di Bahia, nel nordest del Brasile nel 1965. Con lui vi è un altro sacerdote italiano, don Enzo de Marchi. Insieme devono occuparsi della parrocchia di Nostra Signora di Guadalupe nel poverissimo quartiere di Alto do Perú. Nel territorio loro affidato vi sono 60.000 abitanti, ma lavorano bene insieme. Dopo lo shock iniziale don Renzo è felice. Triste per la miseria della gente, ma preso dalla strana felicità di essere là, con i poveri, di vivere insieme con loro.
Un nuovo campo di azione si aprì nel 1975 quando don Renzo andò a visitare un giovane detenuto su richiesta della mamma. Venne così a contatto con nuove forme di sofferenza ma anche di solidarietà. Tornò a pensare a quelli che non avevano fede, cominciò a visitare le carceri riservate ai detenuti politici, alla fine quella delle carceri divenne la sua prima attività, quasi una seconda conversione. Ascolta i detenuti che raccontano delle famiglie, delle torture subite, delle speranze per il futuro. Poi torna in Italia per informare l’opinione pubblica, per sollecitare aiuti politici ed economici. Diventa amico di Enrico Berlinguer e di altri capi comunisti, ma contatta e sollecita anche esponenti di altri partiti. Diventa una specie di ambasciatore dei prigionieri brasiliani in Europa.
Ritornato in Brasile, fa ancora il giro delle carceri dove porta sostegno spirituale ed aiuti materiali. Nel 1979 si avvicinava la fine del regime dittatoriale. Si cominciava a parlare di amnistia. Proprio in quei giorni lo avvicina un giovane di nome Theodomiro che vuole fuggire perché ha paura di essere assassinato dai carcerieri prima ancora di essere liberato. Don Renzo prima lo sconsiglia, poi si convince della fondatezza dei timori del giovane detenuto e decide di aiutarlo nonostante il gesto comporti dei rischi molto seri. Si crea una piccola rete di preti e di comunisti che aiuta Theodomiro a evadere, a rifugiarsi prima nella nunziatura vaticana di Brasília, poi il prigioniero può finalmente raggiungere Parigi. Quando arriva la notizia della salvezza di Theodomiro, che per lui era come un figlio, don Renzo è felice, sente di aver portato a termine la sua missione. Sono giorni convulsi, pieni di attività, ma nello stesso tempo il sacerdote fiorentino è fermo nella decisione di tornare in Italia. E inizia la lunga serie dei saluti, dei tanti che gli vogliono esprimere la loro gratitudine. Scriveva Piedro Tierra: «Renzo è stato una specie di angelo che percorreva l’arcipelago degli spazi sbarrati del regime, un angelo-messaggero, dalle ali invisibili. Passava da uno stato all’altro, di prigione in prigione».
Don Renzo ritornerà ancora in Brasile per insegnare teologia biblica all’università Cattolica di Salvador, per rivedere i tanti amici. Morì a Firenze nel 2013. Una lettera di don Helder Câmara rendeva ragione dell’affetto che la gente provava per lui in Italia come in Brasile: «Mio caro don Renzo, come sei amato nella tua terra, a Firenze! Ho detto a tutti che, siccome a me era proibito visitare i prigionieri politici brasiliani, chi li visitava a mio nome eri tu. Hanno applaudito quando ho detto queste cose. Dio benedica sempre il tuo apostolato!».
Elio Guerriero