Koinonia Ottobre 2019
HO RITEGNO A NOMINARE DIO. SONO ATEO?
Da “ L’erba e le pietre” (pagg. 13-16)
Le antiche fiabe iniziavano con il classico “c’era una volta” e terminavano con un consolatorio “e vissero felici e contenti”. Martino gioca su di un parallelismo fra le fiabe e la religione di un tempo iniziando con il classico “c’era una volta” ma terminando con un finale del tutto diverso “tutto era semplice e scontato”. Nel mondo religioso del passato dominavano “tranquille certezze e chiare demarcazioni fra il bianco e il nero”. Martino sottolinea e mette in rilievo un cambiamento rispetto al passato: “ormai la ricerca domina sul possesso di una solida verità da conservare e trasmettere intatta e immutata”. A riprova di quanto afferma cita un numero della rivista Concilium del 1994, che problematizza la stessa teologia e il tema della verità.
Secondo Martino l’interrogativo teologico sembra raggiungere il cielo, la stessa immagine di Dio. “Dio è invitato a lasciare le definizioni ontologiche (su chi è) e ad emigrare verso l’ignoto, la sua incontrollabile e sorprendente presenza nel divenire umano”. Per Martino il rapporto con Dio non è più “tutto semplice e scontato”. Aggiunge di aver sperimentato, in proposito, atteggiamenti diversi. Prima di tutto l’invito a tacere su Dio “posizione che mi calamita quasi senza volerlo”. Cita D.Tracy: “Dobbiamo imparare, nella presenza assente di Dio, a rimanere silenziosi”. Vi sono però dei rischi: “chi tace Dio è ateo o sospettabile di ateismo ( ma è un rischio sopportabile)”. Meno sopportabile per Martino è la delusione di non pochi “poveri” che equivocano il tacere su Dio con la sottrazione delle loro attese del Dio speranza, dignità, riscatto, giustizia.
Martino sembra delineare una seconda prospettiva, più avvincente e stimolante: passare dal silenzio su Dio al parlare bene di e su Dio. “E’ una sfida. Richiede supplemento di creatività, di fantasia. E di altre sensibilità”. In questa prospettiva sembra dare particolare fiducia e importanza alle donne capaci di un linguaggio diverso e di ricerche originali, citando fra l’altro le parole di Katharina Hesse che condivide totalmente: “Per dire Dio oggi i bambini, con la loro presenza concreta, ci sono veramente d’aiuto. Per dire Dio oggi dobbiamo travalicare i nostri preconcetti. Per dire Dio bisogna uscire dai nostri ritmi stressanti e riscoprire il suo tempo. Credo che Dio vada soprattutto scoperto fra di noi più che detto e definito dall’alto”.
Forse può apparire semplicistico e riduttivo parlare di Martino partendo esclusivamente dalla lettura di una delle sue lettere ai nipoti. Ma sono convinta che un dettaglio, una parte anche piccola, possa rivelarci qualcosa di molto importante se ci accostiamo e la leggiamo con apertura, attenzione, quasi con occhi nuovi che riescano a scoprire il nascosto. Forse Martino è stato l’uomo “dell’oltre” come si può cogliere nella lettera quando invita ad andare oltre “gli sbadigli del ripetitivo, del ri-dire, del ri-fare.” In questa sua ricerca quotidiana sapeva cogliere “l’oltre” anche in ciò che non era del tutto consolidato, non ancora perfettamente evidente.
Martino, se così posso dire, era un uomo “attento ai germogli” sia sul piano teologico biblico che sul piano sociale, dei movimenti, dei cambiamenti, dei segni dei tempi. Lo conferma la sua lettera in cui parla di ricerche avanzate e coraggiose nell’ambito della teologia (citando gli articoli di Concilium) ma anche del movimento delle donne che proprio allora stavano elaborando significativi mutamenti nel linguaggio religioso, quasi prefigurando un nuovo paradigma.
Martino è stato inoltre un uomo appassionato della “teologia narrativa”. Allora, vent’anni fa, comprendevo poco in che cosa consistesse e quale cambiamento mentale ed esistenziale comportasse. Una frase della sua lettera mi sembra illuminante in proposito. Parlando di Dio allude “alla sua incontrollabile e sorprendente presenza nel divenire umano”, citando poi, verso la fine, una frase di Katharina Hesse: “Credo che Dio vada soprattutto scoperto fra di noi più che detto o definito dall’alto”. Si tratta quindi di un invito a passare da una presenza-assenza di un Dio non definibile, alla ricerca del suo volto nel volto di ogni essere umano, della sua presenza negli avvenimenti della nostra quotidianità e in ogni manifestazione di vita.
Martino ha ricercato sempre questa presenza con attenzione particolare verso quei poveri che non voleva scandalizzare, non voleva che per loro “il tacere su Dio” fosse equivocato come “la sottrazione alle loro attese del Dio speranza, dignità, riscatto, giustizia”.
L’ultima frase che Martino cita: “per dire Dio oggi i bambini, con la loro presenza concreta, ci sono veramente d’aiuto” mi fa pensare a Francesca, la bimba di Pina e Stefano, agli incontri settimanali che Martino aveva con lei, pieni di sorrisi, di gioia, di festa. Per me un esempio bello e significativo di teologia narrativa.
Carla Ermoli