Koinonia Ottobre 2019
Il sogno di Martini,
dissenso cattolico e coscienza critica
“La Chiesa è rimasta indietro di 200 anni”: questa affermazione del cardinale Martini, in una intervista pubblicata dopo la sua morte, è rimasta scolpita nella mente di molti. La Chiesa cattolica, a giudizio del cardinale, si mostra stanca, abituata in Europa e negli Stati Uniti ai privilegi del benessere, incapace di farsi ascoltare sui temi della sessualità e della famiglia, sconvolta dai casi di pedofilia. Lo stesso cardinale Martini, nell’ottobre del 1999, aveva parlato, in una riunione del Sinodo dei Vescovi per l’Europa, del suo sogno di un nuovo Concilio, a quarant’anni dal Vaticano II.
“Siamo indotti a interrogarci - diceva Martini - se [...] non stia a poco a poco maturando, per il prossimo decennio, la coscienza dell’utilità e quasi della necessità di un confronto collegiale e autorevole tra tutti i vescovi su alcuni temi nodali emersi in questo quarantennio”.
I temi erano la carenza dei ministri ordinati, la posizione della donna nella società e nella Chiesa, la partecipazione dei laici ad alcune responsabilità ministeriali, la sessualità, la disciplina del matrimonio, la prassi della penitenza, i rapporti con le Chiese dell’ortodossia e più in generale la necessità di rilanciare la speranza ecumenica.
Accanto a essi, c’erano sfide relative alla presenza della Chiesa cattolica nella società contemporanea, come il rapporto tra democrazia e valori, leggi civili e legge morale.
Sono problemi irrisolti divenuti oggi ancora più urgenti. La Chiesa opera nel mondo in contesti profondamente diversi per sviluppo, culture, linguaggi, pluralismo di etnie e religioni. Il Concilio Vaticano II, come si è visto, resta in parte non attuato e non sempre memoria viva per la maggioranza dei cattolici.
Esponenti di primo piano della teologia di frontiera si sono mossi lungo quello stesso sentiero. Leonardo Boff, ex francescano, tra i protagonisti della Teologia della Liberazione, ha chiesto nel 2013, a cinquant’anni dalla morte di Giovanni’ XXIII, un nuovo Concilio, perché le categorie del Vaticano II non sarebbero più sufficienti per muoversi nel terzo millennio.
Per Boff dovrebbe essere un Concilio di tutta la cristianità e dovrebbe avere al suo centro il contributo dei credenti per realizzare una nuova coscienza del rispetto, della venerazione, della cura degli ecosistemi.
Di un nuovo Concilio si è parlato più volte nel mondo cattolico, da punti di vista e prospettive di segno opposto.
Nel 1977 i teologi della rivista Concilium, tra cui Hans Küng, Edward Schillebeeckx, Giuseppe Alberigo, fissarono gli obiettivi da porre al Vaticano III: dimissioni del Papa a settantacinque anni, Sinodo dei Vescovi deliberativo, abolizione dell’obbligo del celibato dei preti, parità di ruolo per la donna nella Chiesa, compreso il sacerdozio.
Nei primi anni Novanta la proposta di un Concilio venne avanzata da settori cattolici moderato-conservatori, per primo dallo storico inglese Paul Johnson sul mensile statunitense Catholic World Report, poi da Rocco Buttiglione, con il sostegno di vescovi come l’austriaco Kurt Kren. L’obiettivo era quello di una restaurazione del centralismo gerarchico, frenando l’assunzione di competenze da parte delle Conferenze episcopali.
Il cardinale Ratzinger, allora Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, bloccò l’iniziativa definendola prematura e precisando che i Concili rappresentano un grande impegno, che blocca per una fase non breve la vita della Chiesa. Va evitato di farli troppo di frequente.
La presa di posizione del futuro Papa Benedetto XVI resta al momento la linea che ha prevalso. Nel cattolicesimo tuttavia, alla base come ai vertici, si sono polarizzate impostazioni contrastanti, a volte incapaci di dialogo e di conseguenza paralizzanti, tra chi ritiene necessario andare oltre gli esiti del Concilio Vaticano II e chi è persuaso che quel Concilio abbia costituito una rottura della tradizione cattolica, da ricondurre a continuità con il passato, attraverso la definitiva normalizzazione.
Forse il rischio maggiore è proprio la convinzione di una verità unilateralmente posseduta o l’affidarsi a soluzioni imposte attraverso l’autorità gerarchica, senza la capacità di coinvolgere l’insieme dei credenti.
Tensioni e incomprensioni si manifestarono già negli anni immediatamente successivi al Concilio Vaticano II. Restano memorabili nel corso del 1968 due interventi di Paolo VI sul fenomeno del dissenso cattolico (Allocuzioni dell’ 11 e del 18 settembre 1968).
Nel primo il Papa, dopo aver manifestato rispetto e simpatia per la fioritura di energie, la spontaneità di pensiero e di azione in molti figli della Chiesa, sottolineava come questa spiritualità crescesse di solito al di fuori dei solchi normali e mostrasse tendenze anti-istituzionali, sopportando di mala voglia il magistero ecclesiastico.
Si era in presenza di una criticità spesso indocile e superficiale, mentre la Chiesa raccomanda che l’apostolato sia ordinato, organizzato, evitando una dispersione di forze.
Nel secondo intervento il Papa è ancora più severo. Esprime una dura critica nei confronti di quanti pensano che il Concilio sia già superato, che vorrebbero andare oltre, che del Vaticano II fanno propria soltanto la spinta riformatrice, senza un riferimento all’insieme delle decisioni che vi sono state assunte.
Per il Pontefice alcune comunità del dissenso prospettavano non riforme ma rivolgimenti, attribuendosi il potere di autorizzarli in modo autonomo e ritenendoli tanto più giusti, quanto meno fedeli alla tradizione.
Il dissenso cattolico, a volte per limiti propri, a volte per l’incapacità della Chiesa di assumerlo al suo interno, rendendolo un contributo all’attuazione del Vaticano II, ha visto scemare le sue forze, si è frammentato. Ha tuttavia saputo mantenere un ruolo di coscienza critica, che ha operato per suscitare più attenzione nella Chiesa verso la povertà e i poveri, realizzare esperienze avanzate nella comunione tra cristiani e nel dialogo tra religioni, testimoniare non violenza, rifiuto degli armamenti, centralità della sfida ecologica.
Resta legittima la domanda su quali impostazioni nel dissenso cattolico rimanessero nell’orizzonte del Concilio e quali andassero oltre.
Il Concilio Vaticano II ha valorizzato il popolo di Dio, il suo ruolo all’interno della Chiesa, ma lo ha fatto non contrapponendolo alla struttura gerarchica, che rimane un asse portante dell’istituzione.
Aree non marginali del dissenso insistevano invece su una nuova organizzazione della Chiesa, fondata su una dimensione assembleare e comunitaria. Questa caratterizzazione avrebbe dovuto dare la propria impronta alla collegialità, al ruolo dei vescovi e di tutto il clero, la cui autorità veniva riconosciuta nella misura in cui avesse rappresentato la volontà del popolo di Dio, non se avesse preteso di imporsi in modo autoritario. Il popolo di Dio doveva essere protagonista e gli organi di partecipazione nati con il Concilio, nel territorio e ai vertici, dovevano avere non poteri consultivi ma deliberanti.
Il cattolicesimo è coscienza critica e denuncia profetica dell’ingiustizia nella società. La Chiesa deve rifiutare le politiche concordatarie e, libera da ogni eredità costantiniana, difendere la dignità della persona, opponendosi all’iniquità del modello di sviluppo capitalista.
Paolo Ricca, in un lucido saggio di tanti anni fa (Il cattolicesimo del dissenso, Claudiana 1969), metteva in evidenza come il dissenso non si possa spiegare senza il Concili o Vaticano II, ma, al tempo stesso, questo riferimento non sia sufficiente per comprenderlo. La sua esperienza va oltre il discorso conciliare, facendo proprie impostazioni che non vi sono state affrontate oppure non sono state approvate dalla maggioranza dell’Assemblea.
Tra Concilio e dissenso vi è un rapporto di continuità e di superamento. Il Vaticano II -è andato oltre il cattolicesimo della controriforma senza rotture; il dissenso cattolico, viceversa, non si preoccupa di preservare un legame con la tradizione storica e teologica, ma casomai di guardare all’esperienza cristiana dei primi secoli.
Il rapporto tra fede e mondo interroga tutto il cristianesimo. Bonhoeffer scriveva che la “difficoltà delle nostre Chiese sta solo nel problema di come vivere, oggi, da veri cristiani”.
Si tratta di trovare un equilibrio tra impegno per rendere più giusta la convivenza degli uomini e tensione della fede in Dio, speranza nella promessa di salvezza che va oltre la vita terrena, non contro di essa. Il rapporto tra credente e mondo è di alterità, non di estraneità o indifferenza.
Don Lorenzo Milani, nella lettera al comunista Pipetta, esprime in modo semplice ed efficace questo stare nel mondo e andare al tempo stesso oltre, che non appartiene solo al cattolicesimo: “... Ma il giorno che avremo sfondata insieme la cancellata di qualche parco, installata insieme la casa dei poveri nella reggia del ricco, ricordatene, Pipetta, non ti fidar di me, quel giorno io ti tradirò. Quel giorno io [...] tornerò nella tua casuccia piovosa e puzzolente a pregare per te davanti al mio Signore crocifisso”.
Senza questo equilibrio la fede diventerebbe una dottrina etico-politica oppure un credo religioso lontano dalle persone.
Vannino Chiti
In Le religioni e le sfide del futuro – Per un’etica condivisa fondata sul dialogo, Guerini e Associati, 2019, pp. 61-66.