Koinonia Settembre 2019
SE IL VANGELO PORTA ALLA FEDE
NON SEMPRE LA FEDE PORTA AL VANGELO
Non è una tesi da provare, ma un criterio di discernimento da adottare; nasce dentro le situazioni ecclesiali vissute e da cui in qualche modo venir fuori, sapendo che, se anche noi siamo impastoiati in tante questioni e difficoltà, “la parola di Dio non è incatenata!” (2Tm 2,9). Questo sta a dire che la Parola di Dio è di Dio: libera e incondizionata, indipendentemente da presupposti, premesse, precomprensioni, ma anche da interpretazioni, spiegazioni e applicazioni varie. È quella che può farci “entrare nella gloriosa libertà dei figli di Dio” (Rm 8,21). D’altra parte, per avvalorarla, non vale neanche fare ricorso ad organismi previ o mirare a formazioni comunitarie. Sarebbe come voler dare sapore al sale che lo ha perso!
Forse può apparire semplicistico dirlo, ma tutta la Parola di Dio si riduce ad essere “chiamati a libertà” (Gal 5,13). Se poi ci chiediamo qual è l’itinerario da seguire per arrivarci, ancora una volta possiamo fare ricorso alle parole di Gesù: “Se rimanete nella mia parola, siete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi” (Gv 8,29). Dare ascolto alla sua parola, diventare suoi discepoli, riconoscerlo come narrazione viva della verità del Padre. È ciò che ci rende liberi, figli e non più schiavi: “Quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente!” (1Gv 3,1).
Detto in poche parole, si tratta di credere al vangelo del Regno, che è vicino: questo vuol dire che tutto il vangelo porta alla fede e alla salvezza, che si avvera nella invocazione del nome del Signore: “Infatti chiunque avrà invocato il nome del Signore sarà salvato”. Ma a questo è necessario arrivare: “Ora, come potranno invocarlo senza aver prima creduto in lui? E come potranno credere, senza averne sentito parlare? E come potranno sentirne parlare senza uno che lo annunzi? E come lo annunzieranno, senza essere prima inviati? Come sta scritto: Quanto son belli i piedi di coloro che recano un lieto annunzio di bene! Ma non tutti hanno obbedito al vangelo. Lo dice Isaia: Signore, chi ha creduto alla nostra predicazione? La fede dipende dunque dalla predicazione e la predicazione a sua volta si attua per la parola di Cristo” (Rm 10,14-16).
Se poi ci chiediamo a cosa mirava e di che cosa si rallegrava Gesù in tutto il suo “operare e insegnare”, dobbiamo riconoscere che guardava prima di tutto alla fede come apertura e disponibilità al Regno di Dio e alla sua giustizia: pensiamo alla cananea, all’emorroissa, al centurione… E se i vangeli sinottici si aprono con la predicazione del Regno e l’invito a convertirsi per credere, Giovanni nel suo prologo ci prepara all’affermazione più sconcertante - “e il verbo si è fatto carne” - con queste parole: “La vera luce che illumina ogni uomo stava venendo nel mondo. Egli era nel mondo, e il mondo fu fatto per mezzo di lui, ma il mondo non l’ha conosciuto. È venuto in casa sua e i suoi non l’hanno ricevuto; ma a tutti quelli che l’hanno ricevuto egli ha dato il diritto di diventare figli di Dio, a quelli cioè che credono nel suo nome, i quali non sono nati da sangue, né da volontà di carne, né da volontà d’uomo, ma sono nati da Dio” (Gv 1,9-13)
Si aprono così in interfaccia due prospettive, una diacronica e l’altra sincronica: la prima considera l’origine e lo sviluppo del credere nel tempo, qualcosa che può quindi ripetersi nella sostanza, con tutte le variazioni del caso, nei diversi contesti storici; la seconda consente una visione concentrica tra il nucleo compiuto della fede evangelica e lo stato materiale della fede nel mondo. Di qui il possibile confronto tra la sostanza della fede e le sue concretizzazioni, tra il suo contenuto vivo e la sua pratica, tra “il mistero della fede” e una “fede realizzata”! Nasce allora l’interrogativo: se questa fede realizzata porti sempre e di suo al vangelo, o non possa invece rappresentare uno spazio religioso neutro o persino un ostacolo al credere al vangelo. Qui bisognerebbe essere in grado di cogliere l’incidenza o la funzione effettiva che il vangelo creduto ha sulla concezione, sulla tradizione e sulla pratica religiosa, originata sì dalla fede della chiesa ma forse ormai avulsa da essa, e forse anche in contraddizione con essa!
La fede che è creduta (fides quae) - vero DNA della chiesa - non fa allora che evidenziare lo scarto esistente rispetto alla fede con cui si crede: tra la realtà della fede e la “fede reale”. Paolo VI, nella Ecclesiam suam, metteva a confronto l’immagine ideale della chiesa col suo volto reale. Ebbene, volendo mettere a fuoco questo volto reale alla luce della realtà ideale o sostanziale, possiamo dire che si tratta di una fede indotta, eterodiretta, intimistica, introversa, identitaria, si direbbe centripeta e ad uso domestico! Là dove appunto il vangelo è come rimosso e surrogato da dottrina, devozione, pratiche religiose varie, o anche da pragmatismo pastorale o comportamentale.
C’è stato un tempo in cui alla pura ortodossia si è cercato di opporre come alternativa l’ortoprassi, senza tener conto che la logica di fondo rimane la stessa: e cioè la riduzione del “credere al vangelo” semplicemente ai suoi derivati, che siano formule dottrinali ad intra o scelte operative ad extra. Per cui, ad una chiesa super-efficiente e attivista non fa riscontro una presenza evangelica di richiamo, che ne farebbe una forza “politica” di contrappeso e di orientamento anche senza scendere in politica politicante.
Il vangelo non è una dottrina per bei pensieri o un codice umanitario per buoni sentimenti, anche se può essere preso in questo senso e ridotto a queste dimensioni. È prima di tutto “fede”, appello a credere all’opera di Dio nel mondo, così come si rivela e si realizza in Gesù. E questo non per un discorso confessionale discriminatorio ed esclusivista, ma per ragioni di verità; non per svuotamento ed omologazione ma per riempimento e differenziazione; non per rimozione dei contenuti specifici del credere, ma come recettività e interazione con tutto ciò che è umano.
Un criterio di discernimento in tal senso lo suggerisce Giovanni nella sua prima lettera 4,1-3: “Carissimi, non prestate fede a ogni ispirazione, ma mettete alla prova le ispirazioni, per saggiare se provengono veramente da Dio, perché molti falsi profeti sono comparsi nel mondo. Da questo potete riconoscere lo spirito di Dio: ogni spirito che riconosce che Gesù Cristo è venuto nella carne, è da Dio; ogni spirito che non riconosce Gesù, non è da Dio. Questo è lo spirito dell’anticristo che, come avete udito, viene, anzi è già nel mondo”.
Certamente parole simili sono nate dentro un contesto di chiesa messa alla prova, tanto da essere invitati a mettere “alla prova le nostre ispirazioni”. Se ora davvero vogliamo riportarle al centro di un cammino di fede e di discernimento ecclesiale, è chiaro che devono portarci a quella “conversione pastorale” tanto invocata da Papa Francesco e che punta sulla sinodalità. Ed è quello che ci proponiamo di fare ripartendo dal discorso di Firenze, e cercando di incarnare una chiesa in uscita da se stessa, ma sempre da liberare delle bende che le avvolgono mani e piedi, come quando a Lazzaro Gesù dice “Vieni fuori”, al tempo stesso però in cui ordina agli altri “Scioglietelo e lasciatelo andare”: resurrezione e libertà, quindi!
È questo il compito che abbiamo davanti. Nell’intraprenderlo, si può notare che le parole del prologo riportate sopra - “ma a tutti quelli che l’hanno ricevuto egli ha dato il diritto di diventare figli di Dio, a quelli cioè che credono nel suo nome” - sono dette immediatamente prima della grande e insondabile affermazione: “E la Parola è diventata carne e ha abitato per un tempo fra di noi, piena di grazia e di verità; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre”.
Ed è di qui che bisogna attingere, come la samaritana al pozzo di Giacobbe, per arrivare a credere in spirito e verità: “Donna, credimi; l’ora viene che né su questo monte né a Gerusalemme adorerete il Padre… l’ora viene, anzi è già venuta, che i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità; poiché il Padre cerca tali adoratori” (Gv 4,21.23). Sì, il “Padre cerca tali adoratori”: chissà se e dove li potrà trovare? Non sarebbe qui il fondamento di una vera rivoluzione pastorale?
Alberto Bruno Simoni op