Koinonia Settembre 2019


Uno sguardo di Sergio Quinzio

 

SUL CLIMA CATTOLICO ATTUALMENTE DOMINANTE

 

La mia convinzione è che il credente debba finalmente farsi carico di tutto ciò che lungo venti secoli, nella vita dei singoli e nella storia del mondo, ha contraddetto e contraddice gli annunci neotestamentari e le aspettative delle prime generazioni cristiane, con essi coerenti. Lo sforzo che dobbiamo’ fare non è quello di ridissolvere l’originalità, l’unicità, la paradossalità del messaggio cristiano (Paolo parla addirittura di «follia del messaggio», I Cor 1,21) in atteggiamenti spirituali vagamente religiosi o morali, in modo che il messaggio possa essere da tutti riconosciuto e accettato, ma solo in quanto privato dei suoi contenuti più profondi; all’opposto, la difficile strada che s’impone oggi alla fede che rifiuti elusive conciliazioni è di dar conto di se stessa (I Pt 3,15), e proprio di ciò che la rende più difficilmente credibile, al limite addirittura impossibile a credersi, per l’uomo contemporaneo.

<…> Da quanto ho detto fin qui risulta implicitamente ma chiaramente, credo, la mia valutazione del clima cattolico attualmente dominante. La mia impressione è che, appunto per effetto di una serie bimillenaria di letture mediatrici fra diverse culture, il cattolicesimo sia oggi più che mai vissuto come un coacervo, in cui gli elementi unificanti sono fiacchi e confusi, di troppe cose disparate. Conosco cattolici attratti dalle filosofie religiose dell’India e dell’Estremo Oriente fino al punto di non essere più distinguibili da un induista o da un buddista. E conosco, all’estremo opposto, cattolici il cui esclusivo impegno sociale e politico non si distingue più in nulla da quello di chi non professa la fede cristiana. E mi pare di vedere che, spesso, là dove sarebbero necessarie risposte teologiche per mettere un minimo di chiarezza in questa confusione, si sia tentati piuttosto di sostituirle con slogan ad effetto, nell’illusione che l’entusiasmo possa bastare per rilanciare la fede cattolica nella storia.

Ma insufficienze analoghe mi sembra di cogliere anche nelle altre chiese cristiane, come pure nello stesso movimento ecumenico, che non di rado mi appare tentato di risolvere problemi secolari semplicemente dichiarandoli inesistenti. Quella che dovrebbe essere la predicazione del vangelo, a giudicare almeno da quanto ascolto nelle omelie domenicali, è una generica esortazione alla buona volontà, l’invito a una solidarietà morale spesso tinteggiata con i colori dell’idillio, che è infinitamente lontana dal poter rispondere alle gravi ragioni della de-cristianizzazione del mondo. Si pensa invece a una ri-cristianizzazione, come se si trattasse semplicemente per il mondo moderno di riconoscere la sua sostanziale erroneità e conseguentemente di rientrare nel vecchio alveo: atteggiamento nel quale vedo una mancanza di consapevolezza storica, ma anche una mancanza di carità verso i fratelli non credenti.

Proprio in relazione a questo attuale clima vedo incombere la prospettiva di una fede che può forse tornare a essere largamente accettata, ma non per quello che è, bensì per quello che non è e che non dovrebbe essere: e cioè come una specie di rifugio o di alibi psicologico, come una specie di divagazione che liberi dal peso della complicata e deludente vita nelle società moderne, ovunque appesantite e ingrigite dalla loro struttura tecnica e burocratica. L’uomo ha psicologicamente bisogno di respirare un’aria diversa, di sentirsi attratto da qualcosa di «superiore», e la Chiesa può offrirgli oggi un capo carismatico. Ma la fede cristiana ha poco a che vedere con cose come queste. Folle intercontinentali si accalcano per applaudire il Papa, ma in che cosa consiste la loro adesione a lui se non nel puro fatto di accalcarsi e di applaudire? Se lo circondassero soltanto quelli che sono disposti, per esempio, a mettere in pratica la morale sessuale che il Papa insegna, non ci sarebbe davvero gran folla. Non parliamo poi del deserto che si creerebbe se accorressero a lui solo quelli che credono nella tomba vuota di Cristo e nella resurrezione dei morti l’ultimo giorno.

La strada giusta è, a mio giudizio, tutt’altra. Non va in direzione dei trionfi storici che si spera di ricominciare a celebrare, non va verso l’orgogliosa sicurezza di chi possiede formule risolutive. Il medioevo l’abbiamo alle spalle, e in ogni caso non sarebbe auspicabile il suo ritorno. Ci è necessaria una fede postmoderna, non una fede pre-moderna, nostalgica di un passato ordinato e stabile che non conosceva l’esperienza spesso tragica che ha fatto l’uomo contemporaneo. Esperienza di dubbio, d’incertezza, d’angoscia, di solitudine, ovunque, in modi diversi, sotto ogni cielo. Il vero incontro della fede con questo uomo, con l’uomo che noi siamo e non possiamo non essere, avviene sul terreno di una profonda consapevolezza della storia grande e infelice che abbiamo vissuto. Il Dio che possiamo ancora riconoscere, nel fondo del nostro cuore, è il paradossale Dio onnipotente e crocifisso. Ma la teologia, adottati, si può dire da sempre, gli strumenti razionali della filosofia greca, questo Dio non è mai stata in grado di conoscerlo. Solo adesso che quegli strumenti sono caduti dalle mani stesse dei filosofi, la teologia può o definitivamente cadere con loro (come sembra indicare la sua impressionante paralisi in questi ultimi anni) o trovare il coraggio di disseppellire le sconcertanti «categorie» della rivelazione biblica.

 

Sergio Quinzio

In La speranza nell’apocalisse (1984),  pp. 19-20; 22-25

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