Koinonia Settembre 2019
Da
Lettere in bottiglia. Ai nuovi nati questo vostro Duemila di
Raniero La
Valle (vedi Koinonia 7/8)
IL DOMANI DELLA FEDE
È una domanda drammatica quella sul domani della fede; vogliamo chiederci infatti se la religione e la fede siano destinate a sopravvivere, se ci sarà questa eredità nel mondo di domani. Mi pare che nel nostro tempo si sia mostrata come particolarmente profetica la parola di Gesù: «Il figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?» (Lc 18,8). Infatti è il fenomeno religioso stesso che oggi è messo in discussione, e c’è l’idea sempre più diffusa che esso non possa sopravvivere al soffio della modernità. (...).
L’età della secolarizzazione
Ci sarà questa eredità? La nostra generazione ha rischiato di essere la generazione testimone e forse artefice di un’interruzione nella trasmissione della fede cristiana da un secolo all’altro, da un millennio all’altro, almeno qui in Occidente. Il Novecento sotto questo profilo è stato drammatico, è stato il secolo della crisi. Abbiamo dovuto prendere atto che tutto il nostro cristianesimo – cattolico, riformato e ortodosso – quale si era andato svolgendo per secoli, alla fine ha prodotto Imperi e colonie, regimi totalitari – pagani, clericali od atei –, due guerre mondiali, la Shoà e la bomba atomica, a cominciare da Hiroshima. La seconda metà del secolo è stata l’età della secolarizzazione. Neanche le teologie più lungimiranti hanno potuto arginarla, da Bonhoeffer a Rahner a Barth a Teilhard de Chardin a Panikkar. Le cose non andavano bene; il cristianesimo sembrava non più praticabile, si consumava l’apostasia delle masse, se ne andavano dalla Chiesa la classe operaia, gli scienziati, le donne; e nonostante il colpo di reni del Concilio Vaticano II la crisi si aggravava dopo il Concilio; i conser vatori ne attribuivano proprio al Concilio la colpa, papa Wojtyla tentava una restaurazione papale, soprattutto mediatica, ma intanto le chiese si svuotavano, le comunità di base, staccate dalla grande Chiesa, perdevano il loro carisma originario, non animavano più il rinnovamento ecclesiale, i giovani non si sposavano più in chiesa e non battezzavano i figli; certo c’erano delle felici eccezioni, e non mancavano segnali contraddittori, mentre i sociologi della religione discutevano se si dovesse parlare di una fine o di un ritorno del sacro, e non ci si rendeva conto che il vero problema era la presenza o l’assenza di Dio.
Io ho vissuto dall’interno questa lunga crisi storica passando attraverso momenti di grande fervore, come nella prima educazione cattolica ricevuta nell’infanzia e fino alla FUCI, poi vivendo momenti di grandi speranze, come il Concilio, e infine giungendo a momenti di grande dolore dalla restaurazione montiniana fino alla tetraggine della CEI di Ruini. Certo, potrei dire con 2Tim 4,7: «Ho terminato la corsa, ho conservato la fede»; però molti nodi si sono stretti e ingarbugliati lungo il percorso: molti nodi che solo ora, dopo il 13 marzo 2013, si stanno sciogliendo; mi sembra infatti che ora sia venuto davvero per la Chiesa il momento di passare il Capo di Buona Speranza.
I nodi della vita cristiana
I nodi di cui parlo non sono nodi personali, sono i nodi, le contraddizioni dello statuto pubblico della fede cristiana, come l’abbiamo vissuta in Italia; sono i nodi dell’esperienza di fede, di molte delle sue modalità e delle sue dottrine, accumulatesi nei secoli e portate fino a noi da una Tradizione vissuta come insindacabile e perciò priva di discernimento. Alcuni di questi nodi li ho sperimentati da vicino, li ho vissuti a contatto di persone a me carissime, veri maestri di vita cristiana; ma più questi avevano fede, più si vedevano e apparivano stretti questi nodi. Prendiamo ad esempio don Benedetto Calati, un uomo di Dio che è stato definito il più grande monaco del Novecento. Padre Benedetto era il generale dei monaci eremiti camaldolesi, e dunque il priore dell’eremo di Camaldoli; ma gli pareva priva di senso e di sapienza divina una vita di assoluta solitudine, un’ascesi di isolamento in una cella monastica; e quando all’eremo di Camaldoli morì l’ultimo recluso, di eremiti sottratti ad ogni rapporto umano non ne volle più e anche l’eremo divenne un cenobio.
Prendiamo Arturo Paoli, il piccolo fratello di Gesù, morto a cento anni dopo aver mirabilmente predicato il Vangelo della mitezza e dei poveri. Ma a Lucca, nel 1948, sul giornale diocesano, aveva guidato la crociata per le elezioni politiche e celebrato la vittoria della Democrazia Cristiana come vittoria di Dio e della Chiesa. Per sciogliere quel nodo di religione e potere aveva poi combattuto contro “i giorni dell’onnipotenza” della Gioventù Cattolica di Gedda e dei “baschi verdi” di Carlo Carretto, era passato nel deserto e poi era andato a vivere una teologia di liberazione in America Latina.
E poi c’è il paradosso cristiano di Dossetti, uno dei grandi protagonisti del rinnovamento novecentesco, che più di tutti ha portato alla luce la contraddizione della vita ecclesiale in Italia, senza poterla togliere. Egli ha vissuto come un conflitto la sua doppia fedeltà a Dio e agli uomini. Si prendano i dieci anni cruciali della vita pubblica di Dossetti, tra i suoi trentacinque e quarantacinque anni: sono gli anni in cui fa la Resistenza, guida la lotta armata senza usare violenza, va alla Costituente, fa la Costituzione facendo prevalere un progetto di democrazia sostanziale, si inventa il dossettismo, lotta per un partito e uno Stato che realizzino la giustizia; cioè fa le cose più importanti per il mondo e per noi; ma dopo dieci anni nei suoi scritti spirituali dice che sono stati dieci anni perduti, perché si è occupato del mondo e non si è occupato abbastanza di Dio. C’è un nodo per cui è sentito come tolto a Dio ciò che si dà agli uomini.
(...) La contraddizione non tolta nella visione dossettiana della fede era dunque tra azione degli uomini e azione di Dio. Non so se il termine “pelagiano” fosse appropriato per definire la sua critica; forse Pelagio non c’entrava, ma quel nome antico era usato per attaccare un attivismo tutto moderno nella pratica cristiana. In ogni caso se questo era il nodo della fede dinanzi a cui Dossetti si trovava, si può capire come tutta la sua vita sia stata poi rivolta ad affermare il primato se non addirittura il privilegio assoluto della preghiera; si può capire come, al contrario di padre Benedetto, vedesse nell’eremita la massima realizzazione del modello cristiano; si può capire come una volta si sia lasciato sfuggire in un convegno a Reggio Emilia nel 1953: «Se si trattasse di andare tutti (piaccia o non piaccia a fidanzati e coniugati) a fare gli eremiti, questo sarebbe (contro le apparenze) un atto profondamente conforme alla situazione storica di oggi». E poco dopo commentava: «È un po’ ingenua quell’osservazione che se tutti si facessero contemplativi il mondo finirebbe; certamente finirebbe ma finirebbe bene». Dopo più di quarant’anni, alla fine della vita, il nodo del conflitto irrisolto tra regno di Dio e mondo degli uomini, tra preghiera e impegno storico è ancora dominante in Dossetti. Egli vive e prega a Monte Sole con la sua comunità, e nello stesso tempo gira per tutta l’Italia in difesa della Costituzione. Alle sue monache, il 5 maggio 1993, detta le sue ultime conclusioni. Dopo una lucidissima analisi della crisi, dice che bisogna concentrarsi sull’unicum del cristiano, cioè soprattutto pregare, e «pregare perché il Signore ritorni, anzitutto, presto, e ponga fine alla storia degli uomini». Però questo pregare non deve mettersi fuori della storia, non deve separarsi in un certo angelismo, in una certa ignoranza della situazione, astraendosi dal cammino terrestre, dai compagni di viaggio, che sono poi tutti gli uomini. Pregare, dice Dossetti, ma nella storia, pregare ma conservando la consapevolezza della storia degli uomini, creature di Dio. Questo è il mandato. E ai preti venuti a trovarlo a Monte Sole, pochi mesi prima della morte, ripete che bisogna immergersi nella storia, conoscerla profondamente perché – ammette – «il mondo c’è, non è certo il regno di Dio, non è neanche il regno di Dio in mysterio, come la Chiesa, però è una componente essenziale dell’opera del creatore e del redentore». E la risposta è la preghiera.
Questo è il nodo che il cristianesimo – e non solo italiano – non aveva sciolto: il nodo tra mondo, Chiesa e regno di Dio, il nodo che Dossetti aveva vissuto con la massima consapevolezza e che è restato non sciolto dopo di lui. E c’erano pure altri nodi, e non si possono nominare tutti. Per esempio il nodo della libertà di coscienza, che il magistero dell’‘800 aveva così fieramente negato, era rimasto anche dopo il Concilio.
Io l’ho sperimentato scoprendo come fosse un valore da contendere l’effettivo esercizio di una pari libertà di tutte le coscienze. Mi è capitato quando Paolo VI mi disse che dovevo cambiare la linea dell’Avvenire d’Italia che condannava i bombardamenti americani sul Vietnam, ammessi invece dai vescovi americani. Io risposi che non potevo cambiare linea perché sentivo di doverla seguire per obbligo di coscienza. Il notturno messaggero papale replicò che anche il papa aveva la sua coscienza. Dunque c’era un nodo, un conflitto tra due coscienze, una era la mia, l’altra del papa. Solo che a dirigere il giornale bolognese non era il papa, ero io. Lui, con la sua coscienza, dirigeva la Chiesa. Ma io, con la mia coscienza, dovevo dirigere il giornale. Poi il giornale fu chiuso. E, sullo sfondo, c’era un conflitto più grande: perché poco dopo, nel gennaio 1968, anche l’episcopato bolognese del cardinale Lercaro fu chiuso. Aveva appena detto, in cattedrale, che dovevano cessare i bombardamenti americani sul Vietnam del Nord, e che la Chiesa doveva dare questo giudizio, perché essa non può essere neutrale, di fronte al male da qualunque parte venga: la sua via non è la neutralità, ma la profezia.
L’altro nodo era quello del rapporto fra fede e politica. È diventato stringente quando, con la destra al potere, la Chiesa ha cercato di stabilire un rapporto diretto col potere politico. Ma anche a livello di base sembra tutt’altro che risolto se, quando per il referendum costituzionale sulla riforma renziana abbiamo lanciato i “Cattolici del NO” con una motivazione così cristiana come difendere la Costituzione democratica, si è scatenato un intransigentismo cattolico minoritario di base (e di sinistra!) che in nome del dogma della laicità ha negato che si potesse chiamare in causa la fede quando c’è di mezzo la politica. In tal modo l’essere cristiani invece che manifestarsi come un incentivo all’impegno storico diverrebbe un impedimento e un complesso da rimuovere.
Naturalmente ci sono molti altri nodi da cui è stata legata la fede cristiana che il Concilio aveva cominciato a sciogliere: qui ne ho citato solo alcuni di cui ho fatto diretta esperienza.
Il vento di papa Francesco
Ed ecco che rispetto a questi nodi, ha fatto irruzione la novità di papa Francesco che ha usato le chiavi di Pietro per aprire le porte e non per tenere i discepoli chiusi nel cenacolo per paura del mondo; e il vento dello Spirito ha ripreso ad andare dove vuole, ha caricato le vele, ha agitato le acque, e hanno cominciato a sciogliersi i nodi. E che i nodi cominciassero a sciogliersi si è visto fin dalla scelta del nome, Francesco, fin dal documento programmatico del pontificato, la Evangelii Gaudium.
Per tre anni ci siamo interrogati su che cosa fosse veramente questo papa, quale fosse la risposta alla domanda cruciale: «Chi sono io Francesco?», ci siamo chiesti che cosa si nascondesse dietro quel formidabile indizio che era la misericordia al centro di tutto, varco di ogni porta: la misericordia chiamata ad aprire le porte delle chiese come le porte delle celle, le porte delle frontiere chiuse alla vita ma non al denaro, come le porte del mare e della morte a Lesbo e a Lampedusa.
Al di là della ricchezza della proposta pastorale, ci doveva essere un’idea portante, un progetto, una proposta complessiva che desse ragione della svolta. E alla fine questa proposta è apparsa con chiarezza, ed è stato quando il papa, ricevendo il premio Carlo Magno in Vaticano, ha simbolicamente restituito a Carlo Magno, e prima ancora a Teodosio e a Costantino, la loro corona: ossia ha proclamato l’uscita dalla cristianità, per far vivere il cristianesimo. Questo è un passaggio che in verità è stato avviato nel Novecento, ma ora se ne apre davvero il cantiere: esso consiste nell’uscire dal regime di cristianità e far sgorgare le fresche sorgenti del cristianesimo. Possiamo assumere, come data in cui viene formalizzata e da cui parte questa svolta (sono importanti le date come cippi del processo storico) il 6 maggio 2016, il giorno in cui i leader europei, da Angela Merkel al re di Spagna, al presidente della Commissione europea Junker, a Mario Draghi, sono scesi a Roma per portare al papa il premio Carlo Magno. Sulle prime, secondo il suo stile contrario ai fasti mondani, Francesco aveva declinato l’offerta di tale premio, già ricevuto a suo tempo da Giovanni Paolo II. Ma il cardinale Kasper aveva insistito, e del resto era quella l’occasione più calzante per ridefinire i rapporti della Chiesa con l’Europa e con il mondo, non solo nello spazio, ma nel tempo, nel corso storico, secondo l’idea che il tempo è superiore allo spazio, propria di papa Francesco. E che la svolta consistesse in questo, nel passaggio dalla cristianità al cristianesimo, come un aprirsi di nuovi spazi e come un processo da inverare nel tempo, si è potuto apprendere da due interpretazioni autentiche che dell’evento del 6 maggio sono state date.
La prima, pochi giorni dopo, il 9 maggio, è del papa stesso in un’intervista al quotidiano francese La Croix, quando Francesco ha spiegato che Chiesa ed Europa sono due entità diverse; per questo lui non parla di radici cristiane dell’Europa, perché teme il tono con cui se ne parla, che può essere trionfalista o vendicativo. Il rapporto della Chiesa con l’Europa consiste nella lavanda dei piedi, cioè nel servizio. «Il dovere del cristianesimo per l’Europa – ha detto il papa – è il servizio». E qui ha fatto una citazione che è un po’ la chiave di volta per mettere in chiaro il suo pensiero, ha citato il gesuita Erich Przyvara, “grande maestro di Romano Guardini e di Hans Urs von Balthasar”, il quale ha scritto che «l’apporto del cristianesimo a una cultura è quello di Cristo con la lavanda dei piedi, ossia il servizio e il dono della vita». Tradotto, vuol dire che l’Europa cammina nella storia e la Chiesa le lava i piedi e le dona la vita.
La seconda interpretazione autentica dell’evento del 6 maggio 2016 l’ha data La Civiltà Cattolica dell’11 giugno, attraverso un articolo del suo direttore Antonio Spadaro, e poi ché in tale articolo egli sostiene una tesi già avanzata quattro mesi prima sulla stessa rivista, dati i rapporti di questa rivista col papa deve trattarsi di una tesi attendibile. Nel suo discorso ai leader europei, scrive padre Spadaro, Francesco evoca un autore per lui importante, il grande teologo gesuita Erich Przywara e cita la «sua magnifica opera» intitolata L’idea d’Europa». Commenta padre Spadaro: «Citando L’idea d’Europa che egli ben conosce, Francesco rivela la sua convinzione, che era quella del teologo gesuita: siamo alla fine dell’era costantiniana e dell’esperimento di Carlo Magno. È interessante, dunque, che il papa citi Przywara proprio in questo contesto carolingio. La “cristianità”, cioè quel processo avviato con Costantino in cui si attua un legame organico tra cultura, politica, istituzioni e Chiesa, si va concludendo. Przywara – insieme allo storico austriaco Friedrich Heer – è convinto che l’Europa sia nata e cresciuta in rapporto e in contrapposizione con il Sacrum Imperium, che ha le proprie radici nel tentativo di Carlo Magno di organizzare l’Occidente come uno Stato totalitario». Cristianità vuol dire precisamente cristianesimo più società, cristianesimo più sovranità terrena. I due termini si congiungono, perdono la loro specifica identità, fino a diventare un termine solo. Ciò instaurava un processo che supponeva la Chiesa come la realizzazione stessa del Regno di Dio sulla terra, e quindi faceva della Chiesa la vera sovrana terrena. È in forza di questa sovranità che il papa assegnava ai re di Spagna le terre degli Indios nuovamente scoperte. Ora si chiude questa fase, ma è una fase che è durata 1700 anni.
Neanche il Concilio aveva superato la Cristianità
Neanche il Concilio Vaticano II era riuscito a superare la condizione di cristianità. Esso aveva visto il problema, aveva dato per scontato che l’età costantiniana fosse finita, Paolo VI aveva considerato un regalo della Provvidenza che i bersaglieri fossero entrati a Porta Pia facendo venir meno il potere temporale della Chiesa: perciò il Concilio effettivamente aveva segnato una discontinuità. Però uscire dalla cristianità non vuol dire solo che la Chiesa non esercita il potere politico. Se, smarrendo la differenza di Dio essa si fa sua sostituta e vicaria pretendendo di esercitare la sovranità di Dio sulla terra, Costantino non è finito. Il limite del Concilio, che ne ha poi condizionato per cinquant’anni la ricezione, è stato questo. Come dirà don Giuseppe Dossetti alcuni decenni dopo, lo stesso Concilio non era riuscito a venir fuori dal vecchio paradigma: «Il Concilio ha avuto questo limite reale: era stato tutto pensato in regime di cristianità e supponendo sostanzialmente ancora un regime di cristianità, dal quale si è allontanato per poche cose. Quindi ha inquadrato i rapporti con il mondo, specialmente nella Gaudium et Spes, in una visione ottimistica, troppo ottimistica, e in una supposizione, non più vera, che il regime globale – sociale, culturale, politico – fosse più o meno, con differenze rilevanti tra le diverse nazioni, ancora quello ereditato dal vecchio regime di cristianità: quindi per molti aspetti si è trovato a scontrarsi con una situazione nuova, diversa, non facilmente amalgamabile. Questa potrebbe essere la ragione profonda del suo arresto, della sua stasi nell’ordine della ricezione concreta e dell’impulso reale dato al popolo di Dio e alle sue guide». (...).
Dossetti vedeva bene il problema e preparava la strada per Francesco. Ma ora forse possiamo dire che lo stesso Dossetti era rimasto incluso in una condizione di cristianità, perché i nodi rimasti non sciolti fino alla fine della sua vita sono i nodi propri di una ideologia della cristianità. Nella sua forma pura infatti la cristianità è la piena instaurazione della signoria di Dio sulla terra, ma poiché questa non può essere opera umana, l’uomo che con tutte le sue forze aspira a questa totalità divina non può che mettere tutto in Dio e considerare perduto ciò che non è “fatto” sacro, ossia riservato a Dio (e perciò tolto dal profano), e di conseguenza non ha compito altrettanto importante che la preghiera. E poiché la signoria di Dio nella sua pienezza non è realizzabile sulla terra, alla fine non può che desiderare e affrettare la fine della storia.
La Chiesa al posto di Dio
(...) Nella predicazione di papa Francesco è tornato più volte il monito, che già conosciamo, contro l’errore pelagiano, contro una sorta di incontinenza attivistica che prende varie forme nella Chiesa. Ma, per quanto l’accusa di pelagianesimo possa far torto a Pelagio (che conosciamo solo attraverso i suoi detrattori), in ogni caso nel regime di cristianità non sono tanto i fedeli operanti nel mondo che possono essere accusati di essere pelagiani, di contare su di sé e non contare su Dio, ma è la Chiesa stessa che attribuendosi la sovranità divina sulla terra, sia nella forma temporale che in quella spirituale, si mostra come pelagiana. È una tentazione del resto di tutte le religioni che si volgono a costruire un potere terreno: come a suor Maria Gallo, della comunità dossettiana, disse molti anni fa un professore sionista di ebraico a Gerusalemme: «Siccome il Messia tardava a venire, siamo venuti noi». E allora si può capire la portata della svolta che consiste nell’uscire dalla cristianità per far vivere il cristianesimo. Essa significa ristabilire la distinzione non solo tra Chiesa e mondo, ma tra Chiesa e Dio. Questo vale non solo a cambiare la Chiesa, ma a cambiare l’idea stessa di religione.
Non c’è una dinastia divina
Ora da tutta questa eredità si tratta di trarre alcune conclusioni, in prospettiva di futuro.
La Chiesa non è il cristianesimo realizzato, come il socialismo reale, ne è solo il segno e lo strumento, come dice il Concilio; non è la società umana trasformata in regno di Dio, ne è invece l’ospedale da campo, come dice Francesco, quella che le lava i piedi, quella che con la società umana non ha altro rapporto che la misericordia, perché solo nella misericordia è la verità; la Chiesa è quella che, spoglia del potere, con forza profetica dice al potere che il re è nudo, che l’economia uccide, che il denaro domina e che l’umanità per nessuna ragione, né politica, né economica, né religiosa può essere divisa in eletti e scartati.
Uscire dalla cristianità vuol dire non chiudersi nella cella sbarrata della preghiera, vuol dire non avere fretta che la storia finisca, ma anzi salvarla, perché possa durare, perché la storia è buona, e laudato si’ il Signore che ce l’ha data con tutte le sue creature. Uscire dalla cristianità vuol dire non pensare alla storia, o alla Chiesa stessa, come catastrofe, perché quella è apocalisse, non è Vangelo. Uscire dalla cristianità vuol dire prendere congedo definitivo dalle letture fondamentaliste della Bibbia che ci hanno consegnato la versione del Dio violento che, come ha detto la Commissione Teologica Internazionale del cardinale Müller, è il frutto di un fraintendimento di Dio; vuol dire uscire da dottrine ispirate all’ideologia della cristianità come quella agostiniana della “massa dannata” o quella, connessa col peccato originale, della soddisfazione sacrificale richiesta dal Padre al Figlio sulla croce; quella dottrina del sacrificio preteso da Dio che il papa emerito Benedetto XVI ha definito «in sé del tutto errata»; uscire dalla cristianità vuol dire uscire dall’iperbole per la prima volta enunciata da papa Wojtyla secondo la quale il rapporto coniugale indissolubile sarebbe la traduzione terrena dello stesso mistero trinitario. Uscire dall’ideologia della cristianità vuol dire affermare, come ha fatto la sentenza del 7 luglio 2016 del tribunale pontificio che ha assolto due giornalisti italiani accusati di aver violato dei segreti vaticani, che la libera manifestazione del pensiero e la libertà di stampa, bestia nera del magistero petrino dell’Ottocento, sono di diritto divino e stanno nell’ordinamento giuridico dello Stato della Città del Vaticano non meno di come stanno nella Costituzione italiana. Uscire dal regime di cristianità non vuol dire infatti solo che la Chiesa rinuncia al potere temporale. Comporta una penetrazione dottrinale, un balzo innanzi, come diceva Giovanni XXIII, e soprattutto una comprensione più avanzata di che cosa significhi la signoria di Dio e il regno di Dio annunciato come vicino. Perché è chiaro che uscire dal regime di cristianità per ripartire dalla sinagoga di Nazaret, dove Gesù reinterpretò Isaia, e approdare al cristianesimo, vuol dire non solo rinunziare alla clamide purpurea di Costantino, alla mozzetta rossa che papa Francesco non ha mai indossato, ma vuol dire ripensare l’idea stessa di regalità. Si tratta di una parola che ricorre spesso nel lessico cristiano. Una parola che bisogna maneggiare con cura, perché i cristiani la usano sia per celebrare Cristo re, sia per fondare la metafora del regno di Dio, come faceva Gesù; ma è stata anche la categoria su cui si è costruita la sovranità della Chiesa e si è strutturata la cristianità politicamente intesa.
E allora per fare chiarezza occorre tornare al pretorio, dove è in questione l’identità di Gesù, e Pilato gli chiede se egli sia re. Col procuratore romano la questione è quella del potere, è la questione di Cesare. È Pilato che introduce la questione regale, che chiede a Gesù se davvero sia il re dei Giudei. Gesù non nega, ma chiede a Pilato da dove venga la sua strana domanda. E all’insistenza del magistrato romano, nel momento stesso in cui accetta di entrare nel suo linguaggio – «tu lo dici io sono re» – nega di esserlo perché attribuisce a ciò che Pilato chiama re un contenuto impossibile. Dice infatti Gesù: «Tu lo dici, io sono re. Per questo io sono nato, e per questo sono venuto al mondo, per rendere testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce» (Gv 18,37). Questo vuol dire appunto negare di essere re, nel senso in cui si è re per Pilato, e si è re per il mondo. Infatti storicamente l’essere re non ha niente a che fare con la verità. Il potere è sfidato dalla verità, il potere e la verità non abitano su monti vicini. Per come gli uomini e le dottrine hanno costruito il potere, di cui il principe è il massimo emblema, il potere teme la verità e governa con la menzogna. (...). Se Gesù dice sono venuto per la verità, la risposta a Pilato è: no, non sono re. Usa la parola, che Pilato gli offre, per negare la cosa. L’insegnamento di Gesù è che la verità rende liberi. Il potere senza verità non rende liberi. Il popolo è libero se diventa esso stesso sovrano. Perciò, nel senso di Pilato Gesù non è re. E, pur tutto concesso alla metafora, non è un regno quello di Gesù. E perciò non può esserlo quello della Chiesa. Non solo il regno di Gesù non è di questo mondo, ma non è affatto un regno; del tutto diversi, e anzi opposti, rispetto al modo di essere di Gesù, sono i presupposti, le dottrine, i codici di un regno. Così il mondo della Chiesa non è la cristianità; se in essa è caduta, la Chiesa in uscita di papa Francesco è dal regime di cristianità che deve uscire.
Gesù dice a Pilato che il suo regno non è di questo mondo. Ma non lo dice per parlare male del mondo. Nel suo riferirsi al mondo non c’è nessun disprezzo, nessuna pronuncia di indegnità. Non dice che questo mondo è indegno, e che per questo egli non vi stabilisce il suo regno. E non dice nemmeno che, di conseguenza, il suo regno è di un altro mondo. Se avesse detto di essere lì per un altro mondo, avrebbe contraddetto tutto il suo Vangelo e la sua vita e la cristologia non sarebbe stata possibile; sarebbe stato possibile solo il teismo. Gesù non dice io sono re di un altro mondo, ma dice: in questo mondo non sono re. Dice semplicemente che il mondo non è un regno, che il suo non è un regno, e che lui non è re, anzi non ha nemmeno dove posare il capo. Per quello che significa re, il Figlio non è re, il Padre non è re e lo Spirito non è ciò che ne fa una dinastia. Non si è mai visto un regno simile a un granello di senape, a una dramma perduta, a una piaga fasciata, a una lavanda dei piedi. Perciò non è alla categoria della regalità che si può far ricorso per stabilire una continuità dal Vangelo alla cristianità alla Chiesa. La modalità non è quella del potere, comunque lo si chiami. (...).
Chiesa in uscita vuol dire allora uscire dalle contraddizioni, dai nodi e dai fraintendimenti della religione e del sacro propri di un cristianesimo inteso come cristianità, uscire dal dominio al modo dei Cesari e attingere la libertà dei figli di Dio. Ciò non vale solo per il cristianesimo, ma anche per l’Islam e ogni altra religione. Perché altrimenti si scatena – e lo vediamo – la tentazione della violenza, come via errata per la vittoria di Dio. Solo fuori dell’ipotesi di cristianità e di ogni altra fede fatta regime o “Stato totalitario”, i nodi che soffocano la religione si sciolgono, e Dio può essere riconosciuto come il Dio della misericordia.
Raniero La Valle
Tratto da: Adista Documenti n° 27 del 20/07/2019