Koinonia Settembre 2019


IL RITORNO DELL’APOCALITTICA

 

Ci sono un paio di pensieri di Elias Canetti che possono aiutarci a capire il rapporto tra la violenza e la bontà di Dio alla luce della testimonianza biblica. Il primo dice così: “Qualche volta credo che non appena io ammettessi la morte, il mondo si dissolverebbe nel nulla”. E il secondo: “È strano: di fronte a quel che accade oggi solo la Bibbia ha una forza adeguata, ed è proprio la sua terribilità a consolarci” (La provincia dell’uomo).

Perché non si deve accettare la morte e perché è proprio ciò che di terribile racconta la Bibbia a dare consolazione? Era pazzo l’ebreo Canetti? Oppure traeva linfa il suo lucido pensare dalle radici ebraiche della fede? La fede che ci viene dalla testimonianza di Israele, e del cristianesimo che da lì è scaturito, parla di novità assoluta che d’improvviso piomberà in mezzo alla tragedia. Parla di un inizio che c’è stato e di un nuovo inizio che ci sarà, alla fine, ed è così che ha portato il senso della storia nel mondo. Il mondo moderno prende vita dalle radici ebraiche, la spinta del progresso che noi conosciamo prende avvio dall’attesa di redenzione che la speranza ebraico-cristiana ci ha trasmesso e tra queste, in particolare modo, la speranza di non morire. Il mondo moderno non arriva a credere nella risurrezione dei morti, ma a una vita lunga, più lunga che si può e in pienezza di salute, sì.

Per la speranza ebraico-cristiana ammettere la normalità della morte è tradire il fondamento della creazione e della vita, è tradire il Dio vivente. Gesù che dice all’uomo di annunciare il regno di Dio subito, in fretta, lasciando lì persino il cadavere del proprio padre, senza nemmeno il pio rito della sepoltura, testimonia una cosa soltanto: la vita, la speranza di non morire, la risurrezione dei morti. Il resto? Di fronte a tale urgenza e speranza non conta nulla. Perché? Perché “se i morti non risorgono, mangiamo e beviamo perché domani moriremo” (1Cor 15,32), perché se il regno di Dio non viene il mondo altro non resta che un brulicare di morti che seppelliscono morti (Mt 8,21-22).

Ecco perché è moderna la Bibbia, perché regge il peso enorme di tutto quello che di assolutamente nuovo e inquietante ci accade davanti agli occhi: regge Auschwitz, Hiroshima, la realtà virtuale, la velocità del tempo, il senso della catastrofe che incombe e della fine del mondo. Si trovi altrove una tale capacità di previsione, di resistenza, di apertura d’occhi e d’orecchie di fronte alle realtà più terribili. E regge, la Bibbia, perché in essa troviamo il diluvio universale, il pentimento di Dio, la crocifissione di Dio e, al tempo stesso, la vittoria sulla morte, la salvezza universale, la redenzione del mondo, la speranza di essere un giorno faccia a faccia con Dio.

Ecco perché Canetti dice che è proprio la sua terribilità a consolarci, perché proprio non nascondendo nulla fa diventare a noi credibile l’incredibile. Mentre non fanno ciò le tante prediche consolatorie di chi è lì ogni volta a dirci, praticando la menzogna: “‘Pace, pace!’, ma pace non c’è” (Ger 6,14). La Bibbia consola perché lascia arrivare la luce senza nascondere il buio, lascia vivere la speranza senza nascondere la disperazione. La più grande speranza religiosa che sia mai giunta nella storia umana viene da un crocifisso che grida disperato, da un Dio che non ci abbandona nella morte, che ci ama fino a morire, dandoci persino il suo corpo da mangiare, quale pegno di vita del nostro corpo, che farà risorgere, come ha promesso, nell’ultimo giorno.

L’idea della vittoria definitiva sulla morte nasce con l’apocalittica ebraica, il cristianesimo sorge da lì. I nostri giorni sono più che mai legati a quell’idea, e se non riusciamo più a vederli come apocalittici è perché non riusciamo più a vivere le vibrazioni più specifiche e autentiche della fede cristiana, la perseveranza della vedova che patisce ingiustizia e invoca l’intervento del giudice. Questa non altra è del resto la fede più dura da reggere, quella che il Cristo teme di non trovare più sulla terra nel giorno del suo ritorno (Lc 18,1-8). Se non siamo più apocalittici è perché non siamo più credenti, se per credenti intendiamo gente che attende il ritorno del Signore, la risurrezione dei morti, il giudizio ultimo, la nuova creazione.

La speranza ebraico-cristiana è apocalittica non perché impaurisce col catastrofismo, ma perché rompe gli schemi delle necessità naturali e delle evidenze, attende l’impossibile, e lo attende per qui e ora non per i tempi cosmici dell’evoluzione e delle galassie. La speranza ebraico-cristiana è apocalittica perché la novità che annuncia è totale, assoluta, sebbene come riscatto del passato sulla base della memoria. La salvezza viene dal Dio vivente che non dimentica i morti, che consola le vittime, che riempie di beni i poveri, che sfama gli affamati. Il banchetto messianico sarà pieno di gente povera non di ricchi sazi di beni e di anni che finiscono la loro vita sprofondati nella noia e nel grasso. Il ricco epulone probabilmente non era un uomo cattivo e il povero Lazzaro non è detto da nessuna parte che fosse un sant’uomo: il metro di misura della redenzione non è attestato sulla morale, ma sulla giustizia. La fede chiama a soffrire con chi soffre, ad attendere liberazione, risurrezione, redenzione del creato, riscatto di tutte le vittime della storia. E tutto ciò non può essere dato a chi non lo desidera condividendone l’attesa coi poveri e con Dio: la redenzione va desiderata prima di tutto per Dio, che nel Cristo si è manifestato come il povero da avere molto a cuore (Mt 26,11).

Il nostro mondo può ormai essere pensato solamente in un orizzonte apocalittico, nella salvezza e nella perdizione. Apocalittico è soprattutto, nel nostro mondo, il riuscire a vivere benissimo senza fede, vivere insomma senza Dio e del tutto tranquilli, come fossimo dèi. Noi siamo dèi, perché siamo “tutti figli dell’Altissimo”, ma guai se non ci ricordassimo del morire di “ogni uomo”, della caduta dei “potenti” (Sal 82,6-7). Noi siamo dèi oggi, purtroppo, nel senso di aver avuto l’ardire di prendere il posto di Dio, di ucciderlo restando del tutto indifferenti: Nietzsche, su questo, ha colto nel segno più di quanto si creda. I potenti tra noi gozzovigliano con alle proprie spalle il crocifisso appeso alla parete, un crocifisso che sovente abbiamo persino avuto il coraggio d’usarlo come spada che uccide. Noi abbiamo obbedito alla parola del “serpente” che, additandoci “l’albero della conoscenza del bene e del male”, dice: mangiate e “non morirete affatto! Anzi, Dio sa che il giorno in cui ne mangiaste si aprirebbero i vostri occhi e sareste come Dio” (Gn 3,4-5).

Apocalittico è il nostro mondo in cui tutto muta a velocità straordinaria senza più riferimenti precisi che reggano nel tempo. E tutto questo dietro a un’apparente fiducia nei confronti di un potere tecnico-scientifico al quale ormai affidiamo tutto il nostro futuro. Apocalittica è anche la potenza della menzogna: violenza e ingiustizia covano sotto la maschera della sicurezza e della pace, della ricchezza dei pochi sfacciatamente ostentata davanti a masse di poveri mai viste prima sulla faccia della terra. Ormai anche i migliori tra gli uomini finiscono per dire senza mezzi termini: siamo noi soltanto i padroni del nostro destino, nessuno costruirà il futuro al nostro posto e guai a chi ci tocca i privilegi raggiunti. Ma per questo potrebbe essere anche il tempo in cui, come diceva Paolo, la rovina incombe proprio quando la gente dice: “C’è pace e sicurezza!” (1Ts 5,3) senza avere più a cuore la giustizia.

Lo storico delle religioni Aldo Natale Terrin ha parlato dell’importanza che ha l’apocalittica per capire quel che avviene nel nostro mondo: “La scienza - dice - osa soltanto piccole sperimentazioni interne al mondo, creando una falsa apparenza di sicurezza e di senso globale e alimentando intanto incertezze e angosce; l’apocalittica al contrario si apre sull’abisso del non-senso della storia che, giunta al suo estremo, sopporta soltanto l’invocazione e non è disposta a dare sicurezza se non dopo aver mostrato l’inferno della disperazione. Si tratta di procedimenti inversi, ma dove la trasparenza e l’autenticità è tutta dalla parte dell’apocalittica” ( Apocalittica e liturgia del compimento).

L’autentica apocalittica che viene dal cuore della fede ebraico-cristiana non è quella che spaventa e allarma senza motivo, come avviene in certo fanatismo fondamentalista. E non è nemmeno quella tendenza al pessimismo che non percepisce più la grazia e il bene che vengono dai tanti bambini che ogni giorno vengono al mondo. Il fatto è che la sua speranza tiene conto anche dei tanti bambini ai quali sono negati in ogni momento la vita, il cibo, la giustizia, la gioia. La fede che abita nel cuore dell’apocalittica è la fede di Dostoevskij, che al lucido Ivan Karamazov mette in bocca parole che non accettano la suprema armonia se dovesse avere un costo programmato anche di una sola lacrima di bambino torturato dal male. Il male l’apocalittica l’affronta con un cuore colmo di speranza proprio perché ai suoi occhi è inaccettabile. Solo un animo apocalittico ritiene scandalosa la morte e solo un apocalittico può continuare a coltivare speranza anche là dove si dovesse precipitare nella catastrofe. Una catastrofe che non sarebbe certo Dio a mandare, ma che potrebbe scoppiare in ogni momento dal male che invade il mondo, un male che Dio subisce fino alla fine, restando come in agonia, diceva il credente Pascal. Vicinissima al dramma di Cristo crocifisso è la catastrofe che l’apocalittica con timore e tremore annuncia. Come i profeti annunciavano le sofferenze che il Cristo mai avrebbe voluto patire, e di cui Pietro non voleva nemmeno sentir parlare, così è per la catastrofe ultima di cui tutto il Nuovo Testamento parla, una catastrofe che mai Dio vorrebbe e di cui noi mai vorremmo anche solo sentir parlare. Per questo può giungere l’ora, come nel Getsemani, in cui Dio potrebbe avere infinito bisogno di compagnia, bisogno che la pensiamo secondo lui e non “secondo gli uomini” (Mt 16,21-23).

In un noto midrash si racconta che quando gli egiziani affogavano nelle acque del mar Rosso, mentre Israele usciva finalmente verso la libertà, gli angeli sentirono il desiderio di cantare con gioia. Ma Dio li riprese dicendo: “I miei figli sono sommersi nel mar Rosso e voi vorreste cantare?” (Bab. Talmud, Tractate megillah 10b).

Noi veniamo al mondo mentre le nostre madri gridano di dolore e moriamo con un rantolo di sofferenza. È questa la nostra condizione. La morte è la morte e l’amore per la vita comporta una lotta impari, una lotta che non può essere sostenuta né da una speranza individualista di stampo gnostico, né da una fuga nell’aldilà delle anime, ma soltanto da una fede capace di attendere il Messia che d’improvviso verrà a far risorgere i morti.

 

Daniele Garota

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