Koinonia Giugno 2019


Una lettera del P.Dalmazio Mongillo a don Sirio Politi*

 

Esistenza teologica da inventare

 

Caro Sirio,

non posso eludere una risposta alla tua del settembre scorso. Tutte le volte che ci incontriamo parliamo del problema di Dio e tutte le volte ci sembra di essere d’accordo, decidiamo di non fermarci nel cammino.

C’è, però, sempre un «ma» che non ci lascia soddisfatti e ci induce a riprendere l’argomento. La ricerca di uno stile di vita in cui Dio sia la presenza accolta, amata, donata, condivisa, caratterizza nel fondo le aspirazioni più autentiche delle nostre povere vite e oggi diventa tormento perché il Dio che ci ha fatto incontrare sembra che ci divida e rischia di non unirci più.

A pensarci bene, però, constato sempre più chiaramente che non è Dio che ci divide ma una rappresentazione del rapporto interumano che attribuiamo a Lui. Sono convinto che per incontrarci in Dio abbiamo bisogno di incontrarci nell’uomo nel quale Egli si è rivelato, abbiamo bisogno di riconciliarci con l’uomo, Da un po’ vado riflettendo sulla struttura dell’Alleanza. È Dio, l’Invisibile, l’Ineffabile, che la fa, ma la fa con gli uomini che accettano di essere in comunione con Colui nel quale Egli si compiace. I due pezzi che Egli unisce nel fuoco e nel sangue sono omogenei, sono due pezzi di una medesima realtà ed è questa che Egli trasforma con la sua presenza. La convinzione fondamentale della fede ebraica ritiene che Dio, proprio in ragione della sua identità, non può essere incontrato faccia a faccia. Il N.T. ribadisce che nessuno mai l’ha visto e che solo Suo Figlio ce lo può rivelare. A Dio perveniamo seguendo la traccia che Egli ci ha lasciato di sé, nell’Uomo nuovo nel quale si è compiaciuto e cioè in Colui che nella sua vita ha abbattuto le barriere e ha riconciliato, convertito, nell’unità i dispersi e gli antagonisti.

Non ti svelo una novità; vorrei esporti una riflessione su cui spesso mi soffermo. È necessario recuperare esistenzialmente, non a parole, un consenso operativo sull’immagine di donna e uomo che ispira la nostra presenza nella storia e, per conseguenza, il nostro riferirci a Dio. Mi pare di intuire qualcosa su questo punto e te la manifesto così come la sento.

Abbiamo pensato i rapporti interumani (anche quando in concreto, per quell’incoerenza che è la fonte della grandezza e della miseria del vissuto, ci siamo comportati diversamente) si strutturassero sul principio della gerarchia e della subordinazione. Tutta la realtà personale, interpersonale, sociale, era ordinata e pensata come centrata nel capo che garantiva tanto più se stesso e gli altri se capace di servirsi di tutti e di armonizzare l’apporto di tutti verso le mete che si costituiva. Nell’interno della persona il capo, sarà stato la ragione o la volontà, era certo una facoltà spirituale che affermava se stessa quando riusciva a tenere a bada la sensibilità e il corpo. Nel rapporto interpersonale, soprattutto in quello uomo-donna, l’armonia dipendeva dal prestigio che l’uomo riusciva a sprigionare e dalla sicurezza che con la sua autorità e presenza riusciva a conferire a tutti coloro che a lui erano subordinati e che erano tanto più gratificati e protetti quanto più erano sottomessi al capo. Sul piano sociale (civile e religioso) l’ordine era garantito dalla presenza di un capo imparziale, che mirava al bene di tutti senza riguardo a nessuno e che doveva difendere e garantire il suo prestigio dalle insidie e dagli assalti di rivali e competitori.

Noi siamo stati educati in questa visione della vita e nella sua luce abbiamo pensato la presenza nella società e nella Chiesa e l’ascesi personale e comunitaria.

Oggi il criterio della gerarchia e della subordinazione è contestato a livelli sempre più ampi e con convinzione sempre più profonda, dall’attesa per rapporti di partecipazione e compromissione, ispirati dal riconoscimento della dignità e responsabilità di tutti, orientati a un consenso che si costruisce non in ordine a ciò che il capo decide ma alla comunione piena tra tutti coloro che concorrono a strutturare l’unità.

Quest’aspirazione che non è più astratta, di pochi, tenta di sconvolgere l’assetto precedente e scatena forti resistenze al cambiamento. Viviamo in una situazione di conflitto nella quale non ci intendiamo più anche quando usiamo gli stessi termini; le parole si comprendono nella luce del vissuto di chi le dice.

Né si può presumere di risolvere il problema ricorrendo a piccoli-grandi ricatti affettivi, richiamandoci a rapporti precedenti, a sacrifici compiuti ecc. il mutamento nel criterio che ispira la vita è come la conversione: opera uno stacco dal mondo precedente che, anche quando non viene giudicato o condannato, è abbandonato. È tipico il caso di Abramo. La persona vede e fa tutto secondo l’immagine amata che ha di sé, quella che, di fatto, l’ispira; quella incarnata nel corpo e nel sangue non quella pensata o immaginata. Il vero io è chi di fatto la persona è, non chi dice o suppone di essere. Tutti i rapporti sono fondamentalmente vissuti dall’io vero che elabora la relazione con Dio sulla base della sua identità profonda. È l’io che crede, ama, spera, lavora; dalla persona scaturiscono tanti atteggiamenti, ma la qualificano quelli che hanno l’origine nel «cuore» e nell’orientamento che lo dirige.

Codesto criterio di comunione mette in discussione tutti gli assetti attuali: il rapporto tra psiche e corpo nell’interno della persona, le relazioni interpersonali e specialmente quella donna-uomo, l’assetto socio-culturale; la relazione con Dio. Non sappiamo ove sfocerà codesto processo di trasformazione. Conosciamo solo il costo di sacrificio, dolore, delusioni, frustrazioni, somatizzazioni che esso sprigiona.

In questa situazione un ricorso troppo rapido a Dio finisce con l’apparire mistificante. Il tempo è tempo; la realtà ha la sua struttura e anche quando i mutamenti avvengono rapidamente non sono veri finché tutta la realtà non ha vissuto il processo che la rende trasformata. Anche la conversione Dio la fa in noi ma non senza noi.

Prendere posizione per Dio significa perciò decidere l’ottica nella quale vivere e situarsi quando ci rapportiamo a Lui e cioè decidere se continuare a ispirarsi a rapporti di subordinazione o di comunione. La fedeltà a Dio non va confusa con la fedeltà al modello con cui abbiamo pensato Lui e noi stessi. Quando questo modello cambia e ci convinciamo che il cambiamento non sia falso, diventa stile di fedeltà assecondare la trasformazione e diventare capaci di esserne promotori. Per evitare che questo processo si banalizzi in un semplice trasferimento o che si blocchi in un corto circuito, è necessario viverlo con gli imprevisti e le incertezze che comporta, superando le paure che paralizzano e impediscono di raggiungere le zone della luce per non attraversare il cunicolo oscuro che ad esse immette.

Non so dirti che cosa ciò significhi. Per noi educati a essere soli, a pensare l’unità della persona in ottica di solitudine, se non di isolamento, dover far i conti con altri, cominciare a condividere le responsabilità sia nell’interno della persona in un nuovo rapporto tra spirito e corpo, sia in un altro stile di relazione con la donna, sia ovunque, è certo un passaggio che traumatizza. Di questa capacità di meraviglia e di quale allargamento di personalità, abbiamo bisogno per permettere che la sensibilità lodi Dio anch’essa insieme alla ragione e non attraverso la sua mediazione; per accogliere come strutturale e non solo come permesso l’apporto della donna alla costruzione della vita; per accettare che anche il più piccolo dica e porti avanti la sua ecc. Se non decideremo quale persona essere nell’incontro con Dio, non Lo incontreremo. A volte mi pare di non essere uno, ma moltitudine. Non so se sono colui che mi trovo ad essere quando ho l’alta o la bassa marea, quando sono nel flusso o nel riflusso dell’onda.

E così anche il colloquio con Dio è dissociato. Una volta lo interpella l’uomo della speranza, della riconciliazione, dell’affidamento; altre quello delle difese, delle paure, delle resistenze. E poiché vogliamo parlare non del Dio dei libri ma di quello incontrato nel dialogo personale, ci si tro-va, volta a volta, o a parlare di un Dio che libera per andare o di un Dio che frena; o di un Dio garantito dalle leggi e dalle consuetudini o di un Dio che viene e fa nuove le cose; o del Dio incontrato nei riti, nei sacramenti, nell’annunzio dei sacerdoti, o di quello sperimentato nel sacrario della coscienza dove ci si trova soli a soli, cuore a cuore, ecc. E questa dissociazione non aiuta le creature che faticosamente cercano di autenticare il cammino e che possono sentirsi indotte a rifiutare quel Dio che contrasta con quanto sentono di più autentico e vero, con la stella che hanno visto nel cielo prima che si coprisse di nuvole.

Dobbiamo essere i profeti di Dio ma per esserlo dobbiamo convertirci al Dio di cui essere i profeti e discernere la profezia che vuole annunziare attraverso noi. Personalmente l’accolgo nella linea del messaggio di Giovanni nell’inizio della sua prima lettera, là dove parla della comunione, della circolarità di vita. Avverto, però, tutta la resistenza opposta da una mentalità di subordinazione che non necessariamente è di dominio, di potere, perché può anche essere di rispetto, riconoscimento, assunzione, ma che non è mai tale da riconoscere che i componenti la comunione differiscono per ministero, per funzione, non per dignità e valore. Anche oggi la profezia di Dio esige segni di credibilità. E mi pare che essi si concretizzino nello stile di vita di persone e comunità le quali non pretendono di mediare l’altro ma accettano di vivere insieme in carità e stimolano non ad agire attraverso interposte persone ma a diventare persone che prendano posizione, si sentano e si vogliano soggetti nella comunione. Per noi in particolare la credibilità passa attraverso l’atteggiamento che saremo in grado di liberare nei confronti del «femmineo» in noi e attorno a noi. Mi vengono a mente alcune intuizioni che il tuo giornale portava avanti quando tu e Mariagrazia parlavate della «donna». Ogni volta chiedevo chiarimenti, mi sembrava di non capire con vostra meraviglia. Già allora Dio e l’immagine dell’uomo e della donna erano solidali. Quando saremo riusciti a far pace tra queste due realtà, si scioglierà la lingua come a Zaccaria. Se ora la parola tace, forse è perché dubitiamo di poter essere in grado di concorrere a generare il volto nuovo della donna e dell’uomo o non riusciamo ancora a vederne la fisionomia. Dobbiamo vivere la sofferenza della gestazione e non barare col tempo.

Spero che il grido che nasce dentro sia questo della vita. Anche se ci molesta aiutiamoci a non soffocarlo, a non tradirlo, a non falsarlo, come è scritto sulla mattonella che c’é sulla porta della tua camera.

 

P. Dalmazio Mongillo op

in Lotta come Amore - gennaio 1978

 

* Queste parole dell’indimenticabile P.Dalmazio Mongillo sembrano scritte apposta per fare il punto su quanto è stato scritto - e forse letto - nelle pagine precedenti: per mettere  a fuoco il senso più vivo e più vero della “questione teologica”, che altro non è se non amore di Dio con tutto il cuore, con tutta la mente e con tutte le forze. Lo dico con alcune delle sue parole: “Prendere posizione per Dio significa perciò decidere l’ottica nella quale vivere e situarsi quando ci rapportiamo a Lui e cioè decidere se continuare a ispirarsi a rapporti di subordinazione o di comunione”. Si capisce e si giustifica così il titolo che mi sono permesso di dare a questa lettera - “Esistenza teologica da inventare” -  in origine apparsa col titolo “Fedeltà a Dio” in “Lotta come Amore” del gennaio 1978.

Le circostanze che mi hanno portato a scovare questa lettera a don Sirio sono state offerte dalla visita di Beppe e Lucia  Pratesi, con i quali abbiamo ricordato amici comuni, tra i quali appunto Dalmazio, che si recava a Viareggio da don Sirio più volte l’anno, passando immancabilmente da noi a Querceto. Nel dialogo è nata la sollecitazione a visitare il sito del periodico della Darsena “Lotta come amore”, in cui ho ritrovato la lettera, che rilancio volentieri come rinnovato messaggio per tutti noi di un fatello che ci ha voluto bene e a cui va il nostro grato ricordo. Non sarebbe male che questo testo diventasse motivo di riflessione aperta e condivisa!

Siamo invitati a inventare la nostra “esistenza teologica”: “cioè il nostro legame alla Parola di Dio e la validità del nostro specifico incarico al servizio della Parola di Dio” (K.Barth). Si tratta di avere presente il “mistero della fede” nel suo insieme, di viverlo interiormente “in spirito e verità”, di comprenderlo   “secondo la pietà” (1Tim 6,3), in modo da renderlo comunicabile e condivisibile a tutti i livelli e non solo tra adepti. (ABS)

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