Koinonia Giugno 2019


Caro Alberto,

pensando all’incontro di Firenze dei prossimi giorni, ho ripreso in mano questa intervista che rilasciai a un amico poeta genovese, sveglio, una decina di anni fa, poi uscita su un suo blog personale con diffusione minima.

Parlo anche del mio rapporto con Quinzio negli anni in cui stava a Isola del Piano e a me ancora giovanissimo, trasmetteva cose molto preziose.

Te la propongo: vedi tu se potrebbe servire per Koinonia, altrimenti buttala che ti mando altro. Un abbraccio,

Daniele

 

CONVERSAZIONE DI GIANNI PRIANO CON DANIELE GAROTA (6/12/2008)

SU QUINZIO E ALTRO ANCORA

 

 

1) Daniele, nel tuo libro “La fuga dei giorni” ci ricordi che,nei Vangeli, “Gesù non ride”. Cominciamo da qui? Vorrei chiederti qual è il tuo rapporto con l’umorismo di origine ebraica, un umorismo che si pone come difesa-attesa, come speranza e apertura nella disperazione cupa e tragica della storia.

        

È vero, nei Vangeli troviamo scritto ogni tanto che Gesù grida, scoppia a piangere forte, prova angoscia, suda sangue. E mai che scoppi in una gran risata, come magari potrebbero avere fatto, immaginiamo, un Erode o un Pilato. Non escludo, anche se non c’è scritto, che si divertisse molto coi bambini per esempio, che amasse giocare con loro a nascondino. Certamente, e questo lo si trova scritto, amava mangiare e bere in compagnia, anche allegra forse, stare a tavola con gli amici, ma anche con gente poco ben vista, emarginata. Tutt’altro tipo rispetto al Battista, amante d’ascesi e deserto.

Insomma, Gesù amava la prostituta, si faceva accarezzare dalle sue mani, scandalizzava i benpensanti per questo, ma non è immaginabile che si lasciasse andare con leggerezza, piuttosto percepisci in lui la pena per quella donna, tenerezza, dolcezza, agàpe, non eros. Dunque qualcosa di molto lontano da ciò che ora intendiamo con la risata sguaiata, divertita, invasi come siamo da valanghe quotidiane di volgarità d’ogni genere. Ricordo una battuta di Dostoevskij: se vuoi capire a fondo qualcuno giudicalo dal modo con cui ride.

 

2) E Moni Ovadia? Woody Allen? Segui i loro lavori?

 

Hai ragione a ricordarmi questi due, che apprezzo e ammiro come posso. Ricordo che proprio Woody Allen, in una intervista di diversi anni fa, ebbe a dire come sia difficile guardare in faccia la verità, starci a contatto, al punto che se non ci si distacca, potrebbe persino distruggerci. E allora distaccarsi e ridere in questo caso è una forma di resistenza per non lasciarsi schiacciare dal male e dal dolore. Ma un esempio significativo in questo senso ci viene anche da La vita è bella di Benigni. Che un padre, proprio nel luogo dell’orrore faccia di tutto per rendere felice il suo bambino, per dirgli con tutte le forze e con la mimica, fino a un minuto prima di essere ammazzato: non ti arrendere mai, la vita è comunque bella; mi ha molto colpito, ed è significativo che molti ebrei abbiano apprezzato quel film.

E questo ostinarsi a vedere il bene, la traccia del bene, ovunque si può, strappando brandelli di luce anche dalla più fitta tenebra, è molto ebraico. L’ebreo vuol vivere, vuole godere, vuole la pienezza della vita fin dentro ogni cellula della propria carne. È incontentabile. Sebbene il suo cuore sia sempre disposto alla gratitudine per quel che ha già, come nel canto del Dayenu a Pasqua, in cui per ogni dono ricevuto dice: grazie, ma anche se non ce l’avessi dato già tutto ciò che ci avevi regalato prima ci sarebbe bastato. E questo perché Israele percepisce tutto il prezzo che Dio paga quando ci offre qualcosa.

L’ebreo quando s’arrabbia arriva a prendere Dio per il bavero davanti al troppo dolore, perché lo sente alto nella maestà dei cieli, al di sopra di tutto. Ma poi si ferma un attimo e finisce per percepire Dio al suo fianco, nella stessa sofferenza, nella stessa pena. Ed è lì che trova allora forze per mettersi a ballare, per consolare Dio, perché alla fine, pensa, solo Dio è solo, nessuno ha bisogno quanto lui di consolazione.

Pare che anche il Poverello d’Assisi, che invitava i suoi frati al sorriso perenne sul volto, avesse momenti di terribile sconforto al pensiero delle pene del suo Signore crocifisso, e allora scoppiava a piangere, magari di nascosto, fino a rimanere cieco per le troppe lacrime versate, si dice.

Dunque a questo punto la differenza non è tanto tra ridere e piangere ma tra il come e il perché si ride e si piange.

 

3) Sergio Quinzio che è stato - per te - amico, maestro e perfino vicino di casa aveva il gusto della battuta tagliente, vero?

 

Era un uomo straordinario: schiacciato anche lui dal giogo del dolore aveva sempre, quando lo incontravi, un sorriso dolce di bambino che gli illuminava il volto. Amava ascoltare e non mettere mai a disagio l’interlocutore. Ma al tempo stesso percepivi in lui una fermezza, che a tratti diventava ostinazione. In lui percepivi, dice Ceronetti, sempre la stessa cornata per abbattere la stessa porta. Difficile trovarlo distratto: era uno che sapeva guardare la morte negli occhi, che sapeva sfidarla.

Se ti vedeva alzare un po’ troppo la testa te l’abbassava, ma se ti vedeva abbattuto sapeva rialzartela come pochi, e faceva questo soprattutto con battute improvvise e taglienti, semplici. Dagli ebrei aveva imparato ad amare la vita e questo mi comunicava. Conoscendolo pian piano capivo che soltanto chi ha capacità di cogliere il dolore degli altri è anche capace di indicare piste per trovare la vera gioia; che soltanto chi conosce la disperazione è capace di speranza grande. L’unico Dio credibile rimasto al vaglio della modernità, credo sia quello rivelato dal Cristo, un ebreo morto crocifisso e abbandonato da tutti.

Le battute di Quinzio? Ne ricordo una. Mentre con lui mi stavo lamentando degli impegni quotidiani e familiari che mi distoglievano dalla spiritualità e dallo studio mi interruppe con un: ricordati che la testa Dio te l’ha data anche per quello. Un pugno nello stomaco che non ho più dimenticato. Sergio mi ha spiegato che per un ebreo che ama Dio - e così dovrebbe essere anche per un cristiano - non c’è poi tanta differenza tra il pregare e il tagliarsi le unghie.



4) A proposito di Quinzio, come fu accolto ad Isola del Piano? Lui scrisse di avere incontrato molte difficoltà. Andarono davvero così le cose?

 

Sì, a Isola del Piano trovò la vita dura. Tutta gente tranquilla per carità, ma cupa, taciturna, soprattutto con uno come Sergio. Insomma non riuscivano a capire chi era, men che meno il parroco. Lui salutava tutti per primo naturalmente, e con delicatezza, ma tra quelli c’era chi gli bucava le gomme della macchina semplicemente perché la sera prima l’aveva parcheggiata nel modo sbagliato.

Vi abitò per oltre dieci anni , ma chi era davvero Sergio la gente del posto se ne accorse vagamente il giorno in cui al telegiornale diedero notizia della sua morte.

 

5) Ma la campagna, questo ibrido di natura e contronatura, di odore di erba e di benzina, di grano ed internet quale futuro ha, secondo te? Come sarà Isola del Piano tra cinquant’anni? Un mare di capannoni? Una periferia? O cos’altro?

 

Come sai io ho amato e amo la campagna, soprattutto la mia, quella di mio padre e dello zio Giovanni, contadini veri, come quelli che anche tu hai certamente avuto modo di incontrare dalle tue parti. Ma quel mondo non c’è più. Ho lottato insieme a degli amici per conservarne il ricordo, per conservare qualcosa, per ritornare a lavorare la terra senza avvelenarla con i diserbanti e la chimica, abbiamo formato una cooperativa per questo. Fin da giovanissimo ho scelto di sporcarmi le mani e le scarpe col fango, di arare col trattore i miei campi d’estate. Da tre o quattro anni però, da quando non c’è più mio padre, col quale seminavo e chiacchieravo del più e del meno, la terra la faccio lavorare da un vicino, limitandomi all’orto, al prato, alle siepi, alle centinaia di alberi che ho piantato piccoli e visto crescere, all’ospitalità agrituristica. Ora io e la mia famiglia viviamo  soprattutto di questo: accogliendo gente. E anche grazie a internet, bisogna dirlo.

Cosa ne sarà in futuro della campagna?, non lo so. Proprio ieri sera dicevo a uno dei miei figli, di fronte alle notizie poco confortanti del telegiornale: va a finire che tocca ritornare un po’ tutti alla terra!

Ma sarà davvero difficile, forse il futuro ci riserverà l’imprevedibile, e non so quanto possa assomigliare a quell’“imprevisto” che a Montale sembrava essere l’unica speranza rimasta.

Certo è che le campagne ormai gridano di dolore per l’abbandono e per lo sfruttamento coatto. Se già da duemila anni san Paolo parlava di una creazione che gemeva e soffriva, dunque già molto prima di Leopardi, figuriamoci cosa direbbe oggi.


6) Daniele, tu fai il contadino. Nel 1977 avevi vent’anni. Molti tuoi coetanei, tanti tuoi “compagni d’anagrafe”, hanno scelto - a suo tempo - la lotta armata per accelerare i tempi del paradiso sulla terra. Sta scritto “chi non ha una spada venda il mantello e ne compri una”. Loro fecero così. Tu, invece?

 

Sì, Gesù ha detto questo. Ma ha pure detto, a un suo amico, che per difenderlo non esitò a tirare fuori la spada staccando l’orecchio al servo del sommo sacerdote: rimettila dov’era la spada, perché tutti quelli che prendono la spada di spada finiranno per morire.

 

Per quanto mi riguarda sono uno che di carattere facilmente s’indigna e urla. Quand’ero bambino mi bastava un niente per alzare le mani sui compagni. E tuttavia, molto stranamente, non ho mai sopportato di vedere uccidere nemmeno un animaletto. A mia nonna la chiusi dentro il pollaio per ore sapendo che voleva tirare il collo a una gallina e quando s’ammazzava il maiale lì, appena fuori del porcile, io scappavo via tappandomi le orecchie: quel ruggito acuto di bestia scannata che pian piano sfiatava nel rantolo me lo sento ancora risuonare dentro quando ci penso. Insomma, veder morire anche una piccola bestiola mi impressiona, e imbracciare un fucile per sparare proprio non mi riesce. Questo non vuol dire che di fronte a un bruto che sta violentando un bambino io stia fermo, forse si sprigionerebbero in me in un attimo le forze più violente del costi quel che costi, non lo so, e certamente per un amico di Dio sarebbe perfino un dovere assoluto quello di strappare la vittima dalle grinfie del suo assassino se si può, per quello che si può.

Gesù ha detto che dai giorni di Giovanni Battista il regno di Dio soffre violenza e sono i violenti a impadronirsene. Ma questo nulla toglie al fatto che non dobbiamo essere noi a togliere la zizzania di mezzo al grano, potremmo combinare un sacco di pasticci: solo Dio è capace d’impastare la violenza e l’ira con la pietà e la giustizia, noi, da soli, combineremmo soltanto guai.

 

7) E la Chiesa Cattolica accelera o rallenta i tempi del Regno? Frena il Male? Lo spinge in avanti? Chi fa la volontà di Dio? La Chiesa buona e caritatevole o quella che ama il potere, gli intrighi? I santi “lavorano” perché venga il Regno o per rimandare, a colpi di bontà, l’Apocalisse?

 

Sono cattolico fin dalla nascita, è stata mia madre ad avviarmi alla fede. Poi è stato Quinzio, negli anni della mia giovinezza, a farmi capire che senza la Chiesa non si va da nessuna parte e che la fede è tale proprio perché la si vive all’interno di una catena di generazioni che se la trasmettono, dentro una comunità.

Ma la fede, anche questo fu Sergio a insegnarmelo, non si deve nemmeno confondere con la religione: possiamo incontrare persone molto religiose senza un briciolo di fede dentro, ed è molto significativo che chi ha fatto ammazzare Gesù era gente impeccabile dal punto di vista delle regole religiose, integerrima.

La fede è anelito che nasce da viscere scosse, ansia rivolta a un regno che non è di questo mondo, nostalgia profonda di rivedere un re che è partito per un lungo viaggio e che potrebbe da un momento all’altro tornare, desiderio di vedere Dio faccia a faccia finalmente, desiderio di toccarlo, di sentire la sua mano che ti asciuga le lacrime sul volto, tremore al pensiero che sarà lui a servirci alla tavola del suo regno.

La Chiesa tuttavia, per poter reggere il peso di un ritardo insopportabile di secoli, ha dovuto attrezzarsi, fino a diventare istituzione religiosa, una sorta di nuovo sinedrio, riprendendo la legge antica per trasformarla in quell’ibrido indigesto che è stato chiamato Diritto canonico. Certo, il messaggio cristiano è riuscita a portarlo fin qui, ma “sepolto”, avrebbe detto Quinzio, sotto una fitta coltre di documenti, apparati, encicliche e via dicendo: parole, parole, parole, che hanno fagocitato la Parola, l’unica che conti davvero.

Da Costantino in poi i papi hanno cominciato a vestirsi come imperatori e a comportarsi come tali. Un povero del terzo mondo che vede il papa in televisione coi potenti della terra che gli si inchinano davanti, percepiscono qualcosa che non ha proprio nulla a che fare col Vangelo. Certo, non tutta la Chiesa è potere, figure profetiche, grazie a Dio, se ne incontrano ancora oggi e quando partecipo a una liturgia, anche di quelle celebrate dal povero prete di campagna ormai tutto tremante, vi percepisco più luce che in tutti i regni di questo mondo messi assieme. Ma ciò che a me preoccupa è la mancanza di anelito verso le cose ultime, un anelito che si è finito con l’abbandonare nelle braccia del fanatismo delle sette o di certo cristianesimo conservatore di stile americano che riesce benissimo a convivere anche con la pena di morte legalizzata.

C’è ancora qualcuno tra i cattolici, mi chiedo, che aspetta la seconda venuta di Gesù, il giudizio ultimo e la risurrezione dei morti? Senza questa attesa la fede può ancora essere tale? Cristianesimo non è umanesimo che cerca di costruire un mondo migliore, cristianesimo è piuttosto sperare nel Dio che rifarà nuovi cielo e terra, che vincerà la morte per sempre.

Ecco perché, forse, la Chiesa che si compromette troppo col mondo, con le cose penultime, finisce per dimenticare le cose ultime, per abbandonare l’attesa del “padrone” che deve tornare a regnare sulla terra. E le dimentica per un motivo molto semplice, perché finisce col prenderne il posto.

E questo può avvenire in due modi, che cerco di semplificare come posso. Il primo, facendo opere di bene illudendosi di risolvere con esse i mali di questo mondo, tentando cioè di costruire con le proprie mani il regno di Dio. Il secondo amando il potere e gli intrighi, come tu dici.

Nel primo caso diventando quella realtà ambigua che san Paolo nella Seconda lettera ai Tessalonicesi chiamava Katechon, ciò che trattiene la manifestazione finale del Cristo e che dunque impedisce l’annientamento dell’“iniquo” o, per dirla con la teologia giovannea, dell’“anticristo”, di colui che s’innalza “fino a sedere nel tempio di Dio additando se stesso come Dio”, e cioè, in buona sostanza, di quel secondo modo di prendere il posto del “padrone” che deve tornare.

Vi è da sperare che dentro la Chiesa rimanga fino alla fine almeno un briciolo di fede che attenda la venuta del Signore, anche se egli stesso dubitò molto in cuor suo di trovare ancora quel tipo di fede lì sulla terra venendo nell’ultimo giorno.

 

8) A quale degli ultimi pontefici senti più prossimo il tuo modo di credere? Giovanni XXIII? Paolo VI? Papa Luciani? Woityla? O al papa attuale, Benedetto XVI?

 

A tutti e cinque voglio bene in qualche modo. Posso dire di voler bene a papa Roncalli per averci regalato il Concilio e dato la possibilità anche a un contadino come me di prendere in mano la Bibbia e comprenderla. Di voler bene a Paolo VI per quel suo tormento interiore, per il suo percepire “il fumo di Satana” proprio dentro la Chiesa. A papa Lucani per avere fatto appena in tempo a dire che Dio è anche Madre, non solo Padre. A papa Woityla per essere entrato per la prima volta in una sinagoga, e poi in una moschea, per avere chiamato “fratelli maggiori” gli ebrei e per avere chiesto perdono per tutte le malefatte della Chiesa. E, per ultimo, a papa Benedetto, per avere scritto il suo libro su Gesù durante il suo tempo libero e finendo col dire a chi lo legge: sappiate che non è “un atto magisteriale”, ma soltanto ciò che personalmente sento e perciò ognuno è libero di contraddirmi. Mi piacerebbe una chiacchierata faccia a faccia con Ratzinger, lo ammetto, ma di nascosto, in un luogo appartato, dove vuole lui naturalmente, all’ombra di un albero, nel suo studio, per me non farebbe differenza: un contadino poco più che analfabeta e l’eminente teologo, per me sarebbe un onore grande.

 

Certo, non mancano in me momenti di indignazione e di rabbia riguardo alla Chiesa di oggi, ho occhi aperti a sufficienza per vedere. Tuttavia preferisco astenermi dalla polemica, per due motivi almeno: perché la propria madre resta tale anche se si dovesse venire a sapere che è un po’ puttana, e perché sono ben cosciente di non essere migliore di lei, anzi.

Papi e vescovi tuttavia, sanno molto meglio di me che il Vangelo richiede coerenza di vita e che il Maestro disse: a chi fu affidato molto sarà richiesto molto di più.

Sacri palazzi, scarpette rosse e anelli da baciare non appartengono alle logiche evangeliche, questo lo sanno anche i muri ormai. Il falegname venuto da Nazaret prese la frusta e buttò per aria i tavoli del commercio sacro chiamando “razza di vipere” coloro che avevano ridotto a “spelonca di ladri” la casa del Padre. Le santissime labbra di Maria sua Madre hanno anticipato di parecchio nel loro annuncio il Manifesto del Partito Comunista di Marx ed Engels, il capitombolare dei potenti dai troni e l’innalzamento degli umili, dei miseri.

È davvero significativo che nel Vangelo di Matteo proprio a Cefa, alla pietra fondante, subito dopo averlo eletto a capo della Chiesa, Gesù abbia rivolto il terribile monito: Va’ dietro a me

Satana!

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