Koinonia Giugno 2019


Una lettera di Ezio Dolfi

dopo l’incontro con Rita Fulco del 1 giugno su

“Attesa del Regno e responsabilità per il mondo in Sergio Quinzio”

 

 

Carissimo P. Alberto,

vorrei scriverti due righe sull’incontro di sabato scorso. Lo faccio con la massima sincerità, come richiede il rapporto di fraternità che ci lega. Indubbiamente la relazione di Rita è stata davvero molto interessante ed ha toccato con competenza e sensibilità temi profondi del pensiero di Quinzio. Ma le mie perplessità, che già in passato ti avevo accennato, non sono diminuite e alcune affermazioni della relatrice le hanno accresciute.

Seguo l’ordine dei miei appunti presi durante la conferenza. Intanto un richiamo al titolo, che tu, opportunamente, hai voluto orientare nella direzione della responsabilità, ovvero della traduzione in ‘opere’ del nostro essere cristiani nel tempo dell’ attesa.

 

Rita ha usato l’espressione “prassi del tempo intermedio”, facendo riferimento a Tronti e istituendo un parallelo interessante tra la posizione di lui e Quinzio: il fallimento della promessa del Regno vs. il fallimento del comunismo;

la non accettazione di un partito riformista, in nome di un purismo rivoluzionario vs. critica di Quinzio nei cfr. di un impegno “nel mondo”;

l’arrivo, quasi paradossale, ad una sorta di coincidenza tra la ‘politica del tanto peggio, tanto meglio’ e la denuncia quinziana del rischio che l’impegno dei cristiani nel mondo, ritardando di fatto o comunque ‘ostacolando’ l’opera del katechon, non favorisca la fine dei tempi e prolunghi il tempo dell’attesa.

 

Aggiungo anche la considerazione che l’arrivo di Dio sarebbe comunque troppo tardi per sanare le ferite e il dolore di chi ha vissuto (invano) nell’ attesa. Considerazioni simili, mi pare opportuno ricordarlo, le fece a suo tempo Adorno a proposito del comunismo che, se (e quando) realizzato  non porterebbe una giustizia assoluta in quanto da essa sarebbero esclusi tutti quelli morti prima della sua realizzazione.

 

Rita, che si dice fedele al pensiero di Quinzio, ha definito agnostica la propria posizione. E credo che la definizione sia calzante. Lo dico in tutta sincerità: mi pare molto difficile conciliare la ‘spiritualità irrisolta’ di Quinzio, il suo approdo ad una fede disperata e disperante, con qualche tratto ‘sofocleo’, col fervore rivoluzionario che ha animato il tuo scritto di quaranta anni fa e anima tutt’ora la tua esperienza di cristiano.

Rita ha chiarito particolari della biografia di Quinzio che non conoscevo e che hanno contribuito a spiegare la genesi di tanti passaggi del suo pensiero, ma il rispetto per la vicenda umana, la comprensione per il dolore profondo della perdita, non possono, a mio avviso, fare da schermo ai punti deboli, alle cadute del pensiero di Quinzio.

Resto ancora convinto di ciò che ti avevo scritto in proposito dopo le prime letture di Quinzio:“Indubbiamente la trasmissione orale del suo pensiero può risultare suggestiva, ma la capacità di comunicare e di trasmettere sensazioni non va confusa con la profondità del ragionamento: mi pare che la riflessione che stiamo portando avanti da qualche tempo sia più intensa e impegnativa.

Il pensiero di Quinzio è alla fine aporistico: il progetto salvifico di Dio è fallito, il non ritorno del Messia segna la non conclusione del progetto: siamo costretti a credere perché non abbiamo altro, (“Tu solo hai parole di vita eterna”), ma si tratta di una fede “disperata, unica alternativa alla disperazione del cinismo e del nulla” (Silenzio di Dio, p. 124). Mi pare che il discorso che abbiamo impostato a suo tempo prevedeva un itinerario diverso.

Il progetto salvifico non è fallito, semplicemente perché non ha potuto dispiegarsi, in quanto subito fin dall’inizio, deviato, distorto (?) verso la costruzione di una ‘Chiesa’ che si è subito configurata come altro rispetto alla predicazione di Gesù.

Pertanto la realizzazione del progetto di salvezza non può che ripartire dal messaggio originario che, ancorché sfociare in una fede disperante, si deve attuare in una fede militante, possibilmente gioiosa, perché la Buona Novella, è liberazione e militanza, è chiamata alla mobilitazione per la costruzione della Nuova Gerusalemme.

Tutto questo detto con tutto l’affetto e il rispetto per il fratello Quinzio, ma anche con la consapevolezza che non possiamo e non dobbiamo rassegnarci al Silenzio di Dio, alla Solitudine di Dio;  c’è tanto da fare, per trasformare in canto quell’apparente silenzio, e questo è forse un compito di noi uomini. Con i nostri enormi limiti.”

 

Aggiungo che le mie perplessità sono state ulteriormente confermate dalla difficoltà di Rita ad entrare in sintonia con la domanda rivoltale da Maurizio Valleri, dalla sua considerazione sulla comunità come dimensione consolatoria e protetta (sembrava quasi compiangere la fede semplice e ingenua dei presenti non turbati dalle sue inquietudini agnostiche)… da alcuni commenti di partecipanti che, è stata la mia impressione, hanno sentito come mortificato e svilito il loro impegno attivo.

Certo non è questo il pensiero di Quinzio, però ci sono delle rigidità che non aiutano. Lo dico senza piaggeria: il p. Alberto che io conosco mi pare molto più avanti nella realizzazione del Regno, che è forse il compito che ci è stato affidato, più che la ‘semplice’ attesa. Era questa la parola che avrei speso volentieri, ma per ragioni oggettive, è mancato il tempo: forse sta proprio a noi costruire il Nuovo, piuttosto che macerarsi nel dolore deluso e deludente di un’attesa non inveratasi.

È Lui che sta aspettando la realizzazione della promessa e allora toccherà a noi, quando avverrà, inchinarci e lavargli i piedi, scusandoci per aver tardato tanto a capire quello che col Suo esempio ci aveva indicato.

 

Ezio Dolfi

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