Koinonia Giugno 2019


“Questione teologica”  alla prova

 

“FOSSERO TUTTI PROFETI NEL POPOLO DEL SIGNORE

E VOLESSE IL SIGNORE DARE LORO IL SUO SPIRITO!”

(Num 11,29)

 

L’incontro di sabato 18/5 a san Domenico di Fiesole con Carmine Di Sante, dedicato alla “teologia alternativa” di Armido Rizzi, ha portato in primo piano quella “questione teologica” a cui abbiamo fatto spesso cenno, pur sapendo che è del tutto inattuale e non appassiona nessuno: per i professionisti della teologia non si pone per ragioni di mestiere; per i non teologi si tratta di un mondo a sé del tutto lontano ed estraneo, salvo che per qualche affiliato.

Nonostante questo, continuo a pensare da tempo, ma ora provo a dirlo, che a fare difetto in tutte le esperienze ecclesiali dopo il Concilio è proprio un pensiero teologico unitario che facesse da catalizzatore e da filtro critico di tante effervescenze innovative. Siamo un po’ tutti fautori e fruitori della teologia della liberazione, ma tanto per capirci mi chiedo: se questa è stata il frutto e l’offerta della esperienza ecclesiale dell’America Latina, quale teologia di riferimento ha prodotto la nostra vicenda di chiesa in questi anni, per poterci traghettare verso il futuro e magari uscire dalla sabbie mobili in cui ci dibattiamo?

Tornando al nostro incontro, vorrei limitarmi a due semplici costatazioni, per dirci quale è la base di partenza e quale lo sviluppo - la materia e la forma -– di una funzione teologica dentro l’esperienza cristiana e la vita della chiesa. C’è prima di tutto il fatto che eravamo un piccolo nucleo, ma la composizione del gruppo era variegata e di provenienze molteplici: come dire che non importa fare massa omogenea ma essere organismo diversificato e solidale. C’era infatti la sensazione che a contare non dovesse essere solo quel piccolo corpo visibile, se non come rinvio al corpo invisibile di cui sentirsi parte in una co-spirazione - secondo l’espressione della Dei Verbum - nel senso di ispirazione d’insieme.

Senza nulla togliere alle forme classiche di aggregazione e di appartenenza, a prevalere era la percezione di una fraternità carsica come dono dello Spirito, prima che come sentimento psicologico o configurazione sociologica. Quella che chiamiamo “comunione” deve essere vissuta e valorizzata nella sua natura di grazia come condizione nuova in Cristo, e cioè come figli di Dio prima ancora che come umana solidarietà. In fondo è quello che si presuppone e si dichiara tranquillamente, senza che ci preoccupiamo di verificarlo e soprattutto di valorizzarlo!

Ho voluto dare rilievo a questa dimensione, perché è quella che si dà per scontata in maniera convenzionale, mentre è questo il terreno su cui muoversi e da coltivare: in cui far maturare una fede che pensa, un pensare provocato e generato dalla fede. Non più tardi di qualche giorno fa papa Francesco è tornato a richiamare l’episcopato italiano alla sinodalità dicendo che “non si può fare un grande sinodo senza andare alla base”. Ora, per base si può intendere quella già costituita entro i quadri esistenti, come sembra faccia capire il papa; ma per base forse è ancora più giusto intendere quella che si costituisce attraverso la “porta della fede”, come ci viene fatto capire in Atti 14,27: “Non appena furono arrivati, [Paolo e Barnaba] riunirono la comunità e riferirono tutto quello che Dio aveva compiuto per mezzo loro e come aveva aperto ai pagani la porta della fede”. Se questa porta rimane chiusa, si va verso una chiesa ridotta a sale che ha perso il suo sapore ed è inutilizzabile per il mondo.

Di qui la seconda costatazione scaturita invece dai contenuti dell’incontro a sfondo teologico: il fatto di parlare della ricerca e del pensiero di Armido Rizzi come “teologia alternativa” ha dato modo di mettere sul tavolo quella che più di una volta abbiamo evocato appunto come “questione teologica”, nel senso di una dimensione portante della esistenza cristiana nel mondo, alquanto deficitaria o frammentaria nella esperienza complessiva del Popolo di Dio. Di fatto è successo che ci siamo battuti per ogni tipo di “riappropriazione” di tante prerogative ecclesiali - della Bibbia, della partecipazione liturgica, della libertà di parola nelle assemblee - mentre è stata sottovalutata e deprezzata - se non disprezzata - la necessaria dimensione teologica di base, lasciandola agli specialisti come dominio esclusivo e additandola come motivo di rischio.

Si potrebbero ricordare pronunciamenti poco favorevoli di personalità importanti del rinnovamento conciliare, che gettavano discredito sulla teologia, così come si potrebbe rivisitare “La morte dell’ultimo teologo” di P.Turoldo. E del resto, il fatto che Armido Rizzi abbia pensato ad una teologia alternativa sta a dire sì che qualcuno si è posto il problema, ma al tempo stesso testimonia una presa di distanza da una teologia sotto accusa: altrimenti perché “alternativa”?

Aprendo l’incontro di sabato 18, mi sono permesso di dire che se anche Armido ha risolto il problema all’interno della teologia come disciplina, sia pure con ricadute ecclesiali significative, ha lasciato scoperta la questione della funzione teologica all’interno del processo di riforma nato col Concilio. Non  più professione-teologo per cattedratici, ma servizio teologico dentro la vita del Popolo di Dio.

Uno sguardo al quadro della riforma ci presenta una chiesa a macchia d’olio, in cui troviamo, oltre alle attività di catechesi sacramentale, gruppi biblici e liturgici, scuole di preghiera e di spiritualità, equipe di ecumenismo ed operatori “Caritas”. Per la verità non mancano “scuole di teologia”, ma queste sono più per la promozione di laici allo stato clericale che per l’animazione e strutturazione del corpo ecclesiale e dell’azione pastorale: servono più a creare esperti e docenti che a formare una mentalità e una cultura di base per una coscienza evangelica diffusa.

Ma è possibile poi tutto questo? È possibile raggiungere quella organicità dinamica che caratterizza, ad esempio, la chiesa tridentina, o dobbiamo contentarci di coltivare ciascuno il proprio orticello, magari pensando che sia tutta la vigna, mentre bisognerebbe prima di tutto avere passione e cura della vigna perché ogni tralcio porti frutto? Frutto di soli buoni sentimenti e di opere buone, o frutto anche di verità e di pensiero?  Sento ripetere spesso le parole del Card. Martini, secondo cui il discrimine è non tra credenti e non credenti, ma tra persone pensanti e persone non pensanti. E questo anche all’interno del mondo della fede, per cui verrebbe spontaneo parafrasare l’auspicio di Mosè in Num 11,29: “Fossero tutti teologi nel popolo del Signore e volesse il Signore dare loro il suo spirito!”.

E se essere profeti è dire le cose di Dio in nome di Dio, ciò equivale ad essere “teologi”, con in più un discernimento critico a carattere “scientifico”, nel senso di validità “obiettiva” e condivisa di pensiero, tale da fare cultura e non solo spiritualità, pietà, devozione, emozione, suggestione a sfondo “soggettivo”, là dove risiede e deve emergere la verità vissuta dalla chiesa, il deposito della fede. È la dimensione del “sensus fidei” da valorizzare come base di partenza per ogni altra sinodalità. Non avrebbe senso, infatti, contrapporre vissuto e pensato, esperienza e riflessione, azione e teoria, che sono invece le coordinate della razionalità etica. Così come non ha senso risolvere questioni pratiche in chiave di pensiero o ridurre il pensiero puramente a prassi: le due sfere hanno una loro specificità da rispettare e da valorizzare, anche per l’integrità della fede che è verità prima che diventi misericordia, pietà, devozione!

Quando si dice, ad esempio, che “teologia” è “pensare la fede” o “fede pensata”, c’è sì da considerare il vino della fede, ma c’è da fare attenzione anche agli otri della intelligenza: c’è da cogliere dalla Scrittura e dal “deposito della fede” il quid o la sostanza del credere, ma c’è da prendere il “pensare” nella sua specificità e molteplicità di significati, nelle sue variazioni storiche. Tutti inevitabilmente pensiamo, ma non tutti siamo “pensanti” e ancor meno “pensatori”.

E quando si tratta di “pensare la fede”, dobbiamo dirci quale senso, quale ampiezza, quale apertura e quale finalità noi diamo al “pensare” in quanto tale: se è un pensare a partire da qualche a-priori, presupposto, precomprensione, pregiudizio restrittivo o è tendenzialmente un pensare aperto e critico, allo stato puro come “tabula rasa”, per consentire alle cose di rivelarsi per quello che sono nel loro proprio genere ed essere inscritte nel registro del “sapere”. Ciò che assicura la comunicabilità, il confronto, la convergenza, il consenso, altrimenti andiamo incontro a fideismi, fondamentalismi, assolutismi, contrapposizioni da muro contro muro.

Se non si ritrova uno zoccolo duro del nostro inevitabile pensare in genere e del pensare la fede in specie - un metro di misura condiviso, un principio unitario di discernimento - tutte le nostre alchimie e velleità universalistiche vengono risucchiate come in un mulinello e noi ci ritroviamo confinati come monadi felici nel proprio piccolo mondo. Ci vuole del metodo, insomma, perché la fede vada vissuta nella sua intensità di cuore  ma anche nella sua ampiezza di pensiero! E quando si ripete che teologia altro non è che “intelligenza della fede” (intellectus fidei), forse è bene intenderla come intelligenza che nasce dalla fede, prima che comprensione oggettiva della fede stessa.

 

ABS

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