Koinonia Maggio 2019


A margine di un Convegno

QUELLO CHE STAVO PER DIRE

 

Il “ritorno a Sergio Quinzio” è frutto in superficie di circostanze, e precisamente del Convegno di studio a Firenze del 3-4 maggio, che però non ha fatto altro che risvegliare un richiamo interiore a lui sempre presente, senza peraltro farne un “guru” ma un affidabile compagno di strada. E questo grazie anche al momento che stiamo vivendo, alla ricerca di un presente ispirato al futuro piuttosto che di un futuro modellato sul presente, verso un punto di rottura e di svolta nel lungo processo evolutivo nato dalla rivoluzione copernicana del Vaticano II, mentre assistiamo piuttosto a fenomeni involutivi.

Quella rivoluzione - pensata anche come fine dell’era costantiniana - avrebbe dovuto portare a quello che oggi chiamiamo “cambiamento d’epoca”, con riferimento all’epoca della chiesa tridentina, verso una chiesa evangelica o “dei poveri”; ma in realtà sembra ci sia un ripiegamento su tutta la linea, da una parte come autocompiacimento del “già fatto” – un Concilio compiuto – e dall’altra  come  abbandono silenzioso di chi crede che non ci sia più niente da fare – un Concilio  tramontato.

Due facce della stessa medaglia rispettivamente rilevanti, a danno però della stessa medaglia che è solo fittizia e simbolica, perché le sue due facce di fatto si annullano a vicenda, pur partendo da premesse diverse: sia il “già fatto” come il “niente da fare” in effetti chiudono il discorso in un’antinomia senza sbocchi, e noi ci ritroviamo chiusi in una bolla in cui tutto diventa allusivo, tautologico, nominalista, seconda intenzione, ingannevole, aleatorio, parolaio, senza verità, se non quella della violenza o suggestione verbale 

Di qui, l’urgenza di recuperare la medaglia reale, le cui  due facce rappresentino qualcosa di significativo di ciò che essa è, e non siano solo insieme di significati di cui circondarla: qualcosa di reale prima che di pensato,  qualcosa di sostanziale prima che di essenziale, qualcosa di personale prima che di soggettivo, qualcosa di sperimentato prima che di interpretato, qualcosa di vissuto prima che di detto ecc… C’è insomma, anche nella vita della chiesa,  l’esigenza di una presa diretta con l’esperienza reale della fede prima di ogni altra considerazione ed elaborazione ideale!

Sollecitato da questo evento fiorentino del Convegno, vado a rovistare i diversi libri di Sergio Quinzio per sintonizzarmi su di lui, e la scelta del momento cade su “Religione e futuro” (Adelphi, 2001), di cui leggo tutta la prima parte, che termina appunto con un paragrafo che porta lo stesso titolo: parole nelle quali mi sono ritrovato e sentito confortato, tanto da ritenere utile di proporle ad una “lettura” collettiva, per la semplice ragione che ci riportano sul binario  del cammino che stiamo facendo per vocazione più che per programmazione.

Siamo messi davanti ad una visione evolutiva della storia, in cui potrebbero trionfare “tutte le belle parole con l’iniziale maiuscola” per un futuro roseo, se non fosse che “il futuro è il degno figlio del passato”. “Nella successione della vicenda temporale non c’è che un lento ripiegamento verso speranze sempre meno ardue” e siamo portati sempre più a volere l’uovo oggi piuttosto che la gallina domani: c’è una rinuncia alla ricerca della felicità per affidarsi “all’ideale del benessere e della prosperità”, tanto che “la stessa  parola «ideale» è venuta scivolando fino ad acquistare il senso di irreale”.

In questo clima irreale di non speranza, è chiaro che una “religione” non trova posto, in quanto “essa propone una meta risolutiva, perfetta, una speranza troppo più grande di quella che può essere accettata dalla nostra delusa stanchezza”. A meno che anche quanto va sotto il nome di “religione” non subisca lo stesso processo di svuotamento. Sta di fatto che Sergio Quinzio ce la lascia pensare in maniera forte come ricerca e speranza della “gloria di Dio che riempie gli abissi del mare, il trionfo perfetto della giustizia e dell’amore, le nostre lacrime asciugate per l’eternità”.  Per chiedersi e chiederci: “In questa condizione, quale può essere il futuro della religione?”. Potremmo anche chiederci: quale pienezza nel vuoto che ci avvolge?

Per la verità, ha poco senso parlare di futuro della religione in senso evolutivo, quando questa “si pone come la negazione di tutto ciò che, nelle premesse come nelle conseguenze costituisce la realtà di cui abbiamo esperienza, il cerchio chiuso dove ci agitiamo; si pone, oggi quanto allora, come negazione della storia”. Nel suo senso più intenso essa si pone invece al punto di rottura della stessa vicenda umana e storica indipendentemente da premesse e conseguenze, quasi come necessità e chance insieme, qualcosa sottratto a manipolazioni e contraffazioni!

Il senso della religione sta infatti “nell’uscire dal cerchio vuoto della nostra vecchia vita e della nostra vecchia morte”, mentre “ciò che è graduale non può essere che conforme, omogeneo, fatto della stessa pasta, che è la pasta della storia di cui abbiamo esperienza; soltanto il capovolgimento, il salto, è religione”.  Potremmo dire che in senso pieno - prima ancora di altre specificazioni - religione è la linea della storia che si spezza e il cerchio della vicenda umana che si chiude, dove appunto gli estremi si toccano: è la reciproca implicazione degli opposti, è la risoluzione interna di ogni reale situazione in vista di un compimento finale di un “Dio tutto in tutti”.

Ma proprio perché la speranza è o più difficile o meno possibile, essa si rivela più necessaria.  Così come “oggi l’incapacità di credere rende il credere urgente e indispensabile”. Ecco allora il punto critico che merita d’essere riportato alla lettera, perché si tratta di parole profetiche e illuminanti: lasciano capire come un “cambiamento d’epoca” della fede nel mondo possa e debba avvenire non per via lineare evolutiva e perfettiva, quanto piuttosto attraverso una kenosi o scomparsa della religione stessa: solo una neutralizzazione o messa tra parentesi di una religione storicizzata può provocare la rinascita di una fede che vinca il mondo e non più mondanizzata. Una fede che sia fede, perché una fede integrata è come sale senza più sapore!

Suddivido il paragrafo in questione in due affermazioni: “Il nostro tempo non può più consentire la vita di una religione storicizzata e ridotta a continuazione del passato, svuotata e svirilizzata, compromessa ed equivoca. La necessità di una religione autentica rende impossibile oggi il perdurare di religioni impotenti e agonizzanti. Se qualche centinaio d’anni fa le feste cristiane, i riti, i sacramenti potevano essere surrogati plausibili del regno, della realtà perfetta, non possono più esserlo oggi che del regno c’è assoluto spasmodico bisogno”.

E ancora: “I segni di questo bisogno vanno crescendo con la scomparsa sempre più totale della religione dal mondo. La religione è tanto più difficile oggi quanto più è necessario che sia la religione perfetta e ultima, la vera e definitiva redenzione e trasformazione del mondo. Del mondo e della sua storia siamo infinitamente stanchi. Questo non è ancora religione, ma è lo spazio vuoto che deve essere colmato dalla religione”.

“Religione” altro non sarebbe, quindi, che questa necessità e invocazione di salvezza, secondo l’esortazione di Pietro a Pentecoste: “Salvatevi da questa generazione perversa” (Atti 2.40). Con questa precisa distinzione da fare: che “la necessità di una religione autentica rende impossibile oggi il perdurare di religioni impotenti e agonizzanti”. C’è insomma una distinzione reale interna alla religione, ed è qui che si rileva necessaria quella rottura ad intra, che riporta al cuore del credere o alla fede del cuore. È qui insomma che c’è da uscire da ogni ambiguità. Quello che sta a cuore a Quinzio è ritrovare la religione autentica, la fede sepolta, grazie anche alla consumazione storica di questa: il suo non è un intervento correttivo esterno ma di rigenerazione dall’interno, anche se una lotta nei confronti dell’esistente ne consegue. Sempre in “Religione e futuro” trovo questa dichiarazione: “Così, una lotta attuale per noi oggi è una lotta combattuta insieme contro i residui della tradizione religiosa del passato e contro il ‘mondo moderno’ che domina il presente” (p.71).

Volendo fare qualche rapida osservazione sull’andamento del Convegno del 3-4 maggio, mi sembra sia stata dominante l’attenzione e la preoccupazione di dare rilievo al “Quinzio cattolico” e alla sua cattolicità, quasi a voler rivendicare la sua ortodossia e fedeltà alla chiesa cattolica, in continuità con la tradizione. Tutto più che giusto, salvo la necessità di qualche più netta divaricazione tra il “deposito della fede” (a cui è stato fatto cenno) e la sua testimonianza profetica! Mi chiedo infatti: non è proprio qui il suo carisma come dono per la chiesa, e cioè nella differenza radicale in cui la sua comunione nella fede “cattolica” viene vissuta e pensata? 

Rimanendo aperti ad ogni risposta, c’è da dire che una indicazione di chiarimento è venuta significativamente dall’intervento di Salvatore Natoli, quando parla di una dicotomia tra “il Cristo eterno” - Verbo fatto carne e Figlio dell’uomo alla destra del Padre - e il “Cristo-carità”  predicato di preferenza dalla chiesa e condiviso anche da non credenti: tra una fede cristocentrica e un Cristo ecclesiocentrico; tra il “mistero della croce” e la pratica della misericordia.

Si potrebbe parlare anche di una distinzione tra l’opera salvifica di Dio e le opere dell’uomo credente.  Per dire come Quinzio si muova nel primo versante, lasciando che il resto ne consegua, mentre l’orientamento prevalente del momento sembra portare la chiesa verso le opere, la presenza, l’efficienza, in cui gioca tutta la sua credibilità storica ma forse a danno della fede.

L’interrogativo finale con cui chiudo queste considerazioni è: se sia possibile una traduzione pastorale di quanto Sergio Quinzio testimonia e insegna da uomo di fede e di pensiero. E ancora: se la “conversione pastorale” invocata da Papa Francesco sia praticabile come inversione di tendenza verso la “Parola della croce” (1Cor 1,18) per una rinnovata predicazione. Chi può rispondere?

 

Alberto Bruno Simoni op

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