Koinonia Maggio 2019


La parola a Daniele Garota

LA FEDE COME DOMANDA

 

Spesso la fede viene intesa come una risposta in più alle inquietudini umane. Beato te che hai la fede, si dice a chi è credente davanti a qualche grande, insolubile male. Essendo la fede rivolta a cose invisibili e indimostrabili, la possiamo riempire di tutto, attraverso di essa possiamo credere in qualsiasi cosa. Perciò ci sono anche quelli che hanno parlato della fede come una sorta di illusione. L’uomo crederebbe in qualcosa che non c’è perché incapace di reggere il peso della realtà. Quando il duro peso degli eventi si fa difficile da sopportare, l’uomo ricorrerebbe ingenuamente a delle verità di fede in cui trovare consolazione e affidamento. Già Leopardi nello Zibaldone diceva che “l’uomo non vive d’altro che di religione o d’illusioni, tolta la religione e le illusioni radicalmente, ogni uomo si ucciderebbe infallibilmente di propria mano”.

Nel mondo contemporaneo diffusamente secolarizzato che naviga in un caos mai visto, noi vediamo e ascoltiamo ormai tutto e il contrario di tutto, anche in ambito religioso. Ognuno sembra essere religioso a modo suo, ognuno si sente in diritto di credere in ciò che gli pare attingendo notizie qua e là secondo i propri gusti. Qualcuno ha parlato di un vero e proprio supermercato del sacro. Non essendoci più un sicuro gruppo di appartenenza, una chiesa, una comunità dentro la quale poter credere le stesse cose insieme ad altri, nessuno sa più bene in cosa deve credere, così come quelli che non credono non sanno poi bene cosa in fondo rifiutano o il motivo del loro rifiuto.

Ma c’è anche una grande delusione ad affliggerci: la società secolarizzata nasce dalle macerie di un mondo molto religioso, di un mondo in cui difficilmente ci si poteva dire non cristiani, un mondo da cui si è voluti uscire alla svelta. La religione ha deluso troppo, per troppo tempo si è creduto invano che un Dio salvasse il mondo, e in troppi hanno usato la croce come una spada e i testi sacri per massacrare. Le parole: Dio, fede, religione, a molti fanno venire in mente qualcosa di poco edificante da abbandonare al più presto: una società libera, civilizzata e moderna - si dice - può benissimo farne a meno.

Agisce perciò su di noi anche una sorta di pregiudizio, per cui tutti pensano in fondo di sapere cos’è il Vangelo e chi è il Dio che lì si rivela, ma in realtà solo pochissimi lo sanno. Così il sentimento che ne viene fuori è qualcosa che sta tra la pigrizia, il pregiudizio e l’indifferenza: che Dio ci sia o non ci sia, che ci attenda oppure no una vita dopo la morte, poco ormai interessa. E se un qualche sentimento di fede dovesse qua e là ancora emergere, lo si tollera, questo sì, purché non esca dalla stretta sfera del privato, come quando uno decidesse di allevare una tigre nel proprio giardino: ognuno creda ciò che vuole, ma a casa sua, e non venga a importunarci oltre.

E tuttavia negli abissi nascosti dell’indifferenza e della nevrosi moderna ormai orfana di Dio, una qualche domanda di senso, magari muta e inconsapevole, rimane. “Dio è morto!”, grida il folle nietzschiano, ma non stiamo forse ora “vagando come attraverso un infinito nulla?”. Ed è proprio in questi abissi, in queste mute e inconsapevoli domande, che può forse attecchire ed essere in qualche modo riconosciuta la fede come domanda, la fede che chiede anziché rispondere, che inquieta anziché rasserenare. E sebbene emarginata, perché difficile da sostenere e poco adattabile ad un tipo di religiosità potente e civile ben inserita nelle strutture del mondo, è forse questa la vera fede, l’essenza, il cuore dell’esperienza ebraico-cristiana.

Non era uomo capace di grandi interrogazioni Abramo? E Giobbe? Nei Salmi non abbiamo forse domande di un’angoscia così disperata da rasentare la bestemmia? E non erano forse i cristiani “quei tali che mettono il mondo in agitazione” (At 17,6)? E come potrebbe del resto essere altrimenti una fede che si fa carico del dolore degli uomini, degli animali, delle creature tutte, di una fede che crede in un Dio crocifisso? E non è proprio il grido dell’ora nona, quello che ha oscurato i cieli, scosso la terra, squarciato il velo del tempio, spaccato rocce e risuscitato morti (Mt 27,46-53), il simbolo più efficace della fede a cui le Scritture ebraico-cristiane ci chiamano?

E non è proprio questa fede, come hanno detto in tanti ormai, la radice della nostra moderna sete di progresso, di riscatto dalle ingiustizie sociali, dalla malattia e dalla morte? Noi che viviamo in un Paese tradizionalmente cattolico passiamo indifferenti vicino a una chiesa dove dentro arde una fiammella accanto al tabernacolo, ma diventiamo attentissimi passando nei pressi di una vetrina con l’ultimo modello di telefonino o di fronte ai miracoli della tecnica. E non è solo idolatria, è sete di novità, una sete che viene tutta da una domanda di fede ebraico-cristiana; stravolta, secolarizzata, anticristica quanto ci pare, ma fatta degli stessi esigentissimi fremiti. E la smania di progresso ha contagiato tutti ormai, i profughi che sbarcano a Lampedusa come la gente che passeggia annoiata la sera lungo i ricchissimi viali delle nostre città. Al gran raduno sulle rive del Gange i guru parlavano al telefonino e nei cieli sono apparse mongolfiere con i nomi  delle grandi multinazionali. È vero, abbiamo messo l’io al posto di Dio, la pillola che ci rende potenti per una scappatella da vecchi al posto del banchetto messianico, ma sotto le nostre ansie ardono domande rubate alla fede ebraico-cristiana.

La speranza quando è vera attinge dalla memoria e va oltre il contingente, osa forzare i confini del possibile, impedisce al credente di adattarsi, di arrendersi, fino al giorno in cui Dio porterà a compimento ciò che ha promesso. Fino a quel giorno - come dice Isaia - guai a darsi pace e guai a dare a lui pace (Is  62,1.6-7). Il contrario della speranza non è la disperazione, perché la disperazione può ancora contenere nel proprio dolore assetato scintille di speranza viva, ma l’indifferenza. Quando ogni domanda, ogni desiderio, ogni bisogno e ogni supplica sono scomparsi, non c’è più possibilità né per la speranza, né per la disperazione, semplicemente ci si è arresi, ci si è ritirati nella quiete del proprio cantuccio accontentandosi di quel che si ha. Non interessa più la via d’uscita a chi considera il carcere casa sua: la condizione va migliorata, per carità, si faccia tutto il possibile per questo, ma in carcere ci si resti. È questa mi pare la linea di movimento che propone il “neopaganesimo” o il “pensiero debole”: una riduzione delle esigenze, un limitarsi all’orizzonte etico o estetico, a un orizzonte che appaia ragionevole, umano, credibile, accessibile e persino godibile.

Ma la fede ebraico-cristiana ricorda ciò che è stato e attende eventi impossibili attraverso le vie più paradossali,  le domande più radicali: perché la creazione geme e soffre? Perché si deve morire? Perché i morti non risorgono? Perché il Signore non torna presto come aveva promesso? Queste domande rendono la vita difficile e inquieta, è vero, ma forse più autentica, più capace di pietà e compassione. Non solo per i propri simili, ma anche per Dio, perché pure Dio soffre e ha tanto bisogno di consolazione. La fede chiede più che rispondere, invoca, attende, si fa impaziente, solidale con quelli che soffrono e con coloro che sono morti, rende affamati e assetati di giustizia, rende terribilmente esigenti. “Elimina la coscienza angustiata – dice Kierkegaard – e tu puoi chiudere anche le chiese e farne delle sale da ballo. La coscienza angustiata capisce il cristianesimo, come un animale affamato, se gli metti davanti una pietra o un pezzo di pane, capisce che l’uno è da mangiare e l’altra no”. Il vero nemico della fede oggi non è più l’ateo o l’eretico o il credente di altra religione, è la prosperità che ci impedisce di comprendere, è la pigra indifferenza del tutto si equivale, il recarsi non soltanto in spiaggia, al monte o alla partita, ma anche a messa ogni domenica senza più una domanda nel cuore che ti faccia entrare almeno una sillaba di quella Parola che Dio ci ha offerto a prezzo di sangue.

Che cos’è, dunque, la fede come domanda? È la fede di chi tempesta la porta di colpi, non quella di chi dorme sonni tranquilli perché tanto quando la porta si apre qualcuno ci sarà pure a svegliarci. È la fede di coloro che “gridano giorno e notte” verso Dio e non si sono ancora stancati di aspettare. È la fede che Gesù stesso dubita di trovare ancora sulla terra nel giorno del suo arrivo (Lc 18,1-8).

È un giogo pesantissimo la fede come domanda, ma se si sta dalla parte di colui che è “mite e umile di cuore”, può diventare anche dolce e leggero, fino a dare ristoro (Mt 11,28-30). Anche quando si ha a che fare con Dio ci può essere “più gioia nel dare che nel ricevere” (At 20,35). La fede come domanda è una lotta contro il tempo, è la fede di chi “attende con amore” la manifestazione del Signore, è la “buona battaglia” da combattere fino alla fine (2Tm 4,6-8), soprattutto quando i venti dell’incredulità soffiano forte.

Dostoevskij, che ha sondato come pochi gli abissi della solitudine e della disperazione umana, mette in bocca a Zosima queste parole: “Se poi tutti ti abbandoneranno e ti scacceranno con violenza, inginocchiati, rimasto solo, sulla terra e baciala, bagnala delle tue lacrime, e la terra ne sarà fecondata, anche se nessuno ti avrà veduto, né sentito nella tua solitudine. Credi fino all’ultimo, anche se dovesse accadere che tutti sulla terra si sviassero e tu solo rimanessi fedele: anche allora reca la tua offerta a Dio e lodalo, tu, l’unico rimasto. Ma se due come te si incontrano, ecco già tutto un mondo, il mondo dell’amore vivente; abbracciatevi commossi e lodate il Signore: infatti la Sua verità si è compiuta, sia pure in voi due soli”.

La salvezza potrebbe essere povera, un resto strappato. La Bibbia ne parla spesso. Gesù ha parlato di porta stretta, di pochi che si salvano. Ma non per questo sarà meno preziosa e Dio sarà meno buono: il Signore ci servirà a tavola e le sue potentissime mani porteranno per sempre i segni dei chiodi. Non è quella di un imperatore, ma quella di un crocifisso, l’immagine di Dio che riusciamo ancora a sentire vicina dopo tutto quello che è accaduto e accade in ogni istante sulla faccia della terra.

 

Daniele Garota

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