Koinonia Maggio 2019


LA TENEREZZA E LA CONSOLAZIONE DEL SIGNORE:

RIFLETTENDO SULLA FEDE DI QUINZIO (I)

 

Quale Dio? Questa, è, in definitiva, la domanda che è necessario porsi di fronte al pensiero della fede di Sergio Quinzio. Posto che Dio nessuno lo ha mai visto, come ci dice Giovanni, ma posto anche che “Gesù ce ne ha fatto l’esegesi”. C’è un’espressione ebraica che spesso ci ricordava Paolo De Benedetti: “Ki – Jakhol”, come si potesse (dire)  – ki- jakhol  chi è Dio.  È sempre consigliabile operare questa premessa ad ogni discorso su Dio: necessario e impossibile.

Per noi, per Quinzio, per chi si confessa cristiano il criterio ermeneutico del divino non può che essere Cristo Gesù, nostro unico Signore. È ben vero, tuttavia, che per molti, e in particolare per Quinzio, Gesù non è un’apparizione storica senza radici; Gesù è figlio del popolo ebraico; ebreo della casa messianica di David.

È Jeoshua, Dio-salva, consapevole che la salvezza viene dai giudei; che nella storia di quel popolo Adonai si è rivelato e che Gesù è parte di quella storia. Che Maria, Pietro, Paolo sono parte di quella storia.

La polemica contro i giudei, nata fin dentro il cristianesimo primevo era, in fondo, una polemica tra giudei. Questa è la grande differenza con la tragedia infinita dell’antisemitismo, la quale ha fatto sensatamente dire che:“l’ingresso dei gentili nell’alleanza, oggi, è Jad wa-Schem, o non è”..

Quindi, prima di tutto, bando ad ogni marcionismo. E  poi, in Quinzio, c’è la scelta di una chiave ermeneutica della Scrittura che è chiara e dichiarata  nella   introduzione  al  Nuovo Testamento “ la parola crocifissa”, di “Un Commento alla Bibbia” ed è orientata nella direzione della kenosi divina e dell’attesa di una salvezza povera, che assume il volto non del trionfo ma della consolazione.

Con intelligenza (proprio nel senso etimologico) Piero Stefani. scrive: “Vi fu un frangente della sua vita in cui Quinzio pensò alla salvezza innanzi tutto come alla capacità divina di annullare il passato, di creare un novum che nulla più avesse a che vedere con le miserie della condizione presente (…). Tuttavia, con il trascorrere dei giorni, la figura perfetta della salvezza diventa la consolazione: salvare il passato equivale alla sua perenne, amorosa custodia.

Si può definire questo percorso, dal totalmente altro al totalmente oltre, nel senso di un’era messianica di redenzione, nella quale cieli e terra non scompaiono, ma diventano cieli nuovi e terra nuova, dove abiti finalmente la giustizia e ogni lacrima venga asciugata dai nostri occhi.

Per tutto ciò il Dio di Quinzio è soprattutto menachem, consolatore.

Un Dio, quindi, debole, nella linea kenotica, un Dio verso cui e di cui noi stessi dobbiamo essere responsabili.

La dimensione della tenerezza è uno dei topoi quinziani, e ciò  senza sdolcinature sentimentali, né tantomeno estetismi romantici; una tenerezza che nasce, anzi, dal dolore degli uomini e dal dolore di Dio.

“Io credo”, scrive, ”che ci sia un punto in cui dolore e speranza si confondono. Senza speranza, anche il dolore si placherebbe, come per i pagani, senza dolore, la speranza diventerebbe poco più che un’idea, come per tanti teologi”. A ottenerci la salvezza, sarà il nostro essere partecipi del grido di Gesù sulla Croce..

Ci sono numerosi episodi, anche concreti, della vita pratica di Sergio Quinzio che testimoniano, per supremo paradosso, la grande forza della tenerezza, che è immenso rispetto per la vita, soprattutto per le vite più esposte, per le sofferenze che ci fanno sentire colpevoli per il fatto di essere uomini, che ci tolgono il respiro. Ne cito uno, legato all’esperienza del Monastero di Montebello. Scrivendo nel 1989 al Presidente della Cooperativa Alce Nero Gino Girolomoni dice così:

“Noi, osiamo ricordarcelo? eravamo saliti sul semidiroccato Monastero di Montebello, sulle cesane di Urbino, per aspettare la fine del mondo (…). Con i miei ultimi, pochi, soldi avevo aiutato (…) a fare un gesto inutile, perfettamente improduttivo, ma che sembrava capace di esprimere la gratuità del dono della vita e la speranza nel Dio che può darla e restituirla. La cavalla grigia che avevi portato lassù era stata strappata al macellaio, e insieme a una capretta costituiva un povero, un minimo segno di testimonianza e di invocazione ad una vita liberata”.

Ecco cosa è la tenerezza: sentire la preziosa irripetibilità di ogni vita nella consapevolezza “che solo l’infinita importanza di quel che si vive fa si che si debba serbarne memoria e invocarne  redenzione”.

Altro che Quinzio disincarnato, cupo profeta di inimicizia nei confronti della realtà, avverso al mondo  e alla sua scena!

No, chi entra dentro il suo pensiero, che è anche un pregare/imprecare, secondo il comune etimo dei due termini, si accorge progressivamente che è proprio questo profondo amore alla vita che gli ha fatto avvertire l’inaccettabilità della sofferenza, soprattutto di quella innocente, e della morte. E gli ha fatto fare, proprio nella desolazione del dolore l’esperienza diretta della tenerezza di Dio.

Dio è crocifisso e patisce, e solo in questo modo è vicino a tutti quelli che sono colpiti dalla sciagura, dalla malattia che può capitare come profonda ingiustizia anche nella società più giusta, dalla banalità del male il cui spettro è così ampio e quotidiano che fa  parte delle fibre del mondo.

Contro tutto questo si erge la speranza cristiana. Sempre più difficile da vivere, da comunicare, da testimoniare. Per questo Quinzio accarezzò fino all’ultimo il sogno, in fondo semplice e poverissimo ma insieme così prezioso, di “riuscire a dare, a chi in un modo o nell’altro si avvicina a Montebello, la testimonianza di aperta spontaneità, di cordiale benevolenza, di disponibilità, direi soprattutto di dolcezza”..

Un’idea laica per praticare una esperienza cristiana nella ferialità, nella semplicità dei gesti, nella trasparenza umana dei segni. Ciò anche nella convinzione che il problema vero della fede non è interno alla Chiesa, tra fedeli e ministri ordinati, ma il problema è di tutti i cristiani nella varietà dei carismi, nei confronti del mondo. La capacità, cioè, di dare la testimonianza possibile, dell’altezza della novità che attendiamo e invochiamo e che, come Abramo, bisogna continuare, contro ogni speranza, a sperare[1].  Anche e tanto più dopo duemila anni di attesa, di quello che, stando ai primissimi scritti del Secondo Testamento, avrebbe dovuto essere un ritorno imminente.

Un tempo così lungo che rende inevitabile l’interrogativo di fondo: il Signore salva? Jeoshua (Dio salva) si o no? Perché è propria dei cristiani non tanto la fede in Dio, ma la fede in Dio che salva, un Dio che salva gli uomini nella loro integrità, fuori dall’orrore che ci siano cose spirituali separate dalla tangibile dolcezza di un sorriso di pace, di un bicchiere d’acqua per chi ha sete, di una pena scalfita, alleviata anche di poco [2].

E questo richiede un sentimento di amore e di comprensione anche verso la debolezza del Signore; avere pena del suo dolore quanto del nostro, farne memoria (questa è la memoria passionis), nella fiducia che l’ultima parola sarà una parola di vita e di redenzione.

 

Mariano Borgognoni

(1. continua)

 

 

 

 

 

 



[1] “Se non c’è oggi una ‘novità religiosa’ la verità dell’unico Dio di tenerezza e di pietà (Es 34,6; Tt 1,1) non ha più nessuna possibilità e nessun senso (e nulla allora ha più possibilità e senso). Apparati culturali, sociali, politici ed economici giganteschi, concili e terzi mondi a convegno, ecumenismi, aggiornamenti, rivestimenti non sono che battaglie di un esercito irrimediabilmente sconfitto che corre in tutte le direzioni”. CB, p. 395.

 

[2] Dalla gola del leone, p. 104.

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