Koinonia Aprile 2019


1941-1945: IL CONSTRUCTIVE PROGRAMME NEL SUO CONTESTO STORICO (II)

 

A metà del XIX secolo, il consolidarsi della dominazione britannica sull’India, con il passaggio del controllo del territorio dalle compagnie commerciali alle istituzioni coloniali e con la fondazione dell’Impero, segnarono una netta accelerazione ed estensione nel processo di trasformazione delle tradizionali strutture produttive, già in atto da alcune decadi.

Nelle aree dell’entroterra tali strutture tradizionali erano costituite prevalentemente da sistemi agro-pastorali, dove, a seconda della natura dei suoli e anche di elementi culturali o religiosi, prevaleva maggiormente la componente di coltivazione della terra o quella dell’allevamento. La quasi totalità della popolazione si concentrava in villaggi rurali, dove, inquadrati nel sistema delle caste, braccianti, piccoli e medi proprietari vivevano in un regime di autoconsumo. Nelle aree costiere, stimolati dalla presenza degli insediamenti europei - portoghesi, francesi, olandesi e inglesi - e anche in questo caso in dipendenza da componenti di natura religiosa - la presenza delle maggiori comunità cristiane ed ebraiche - si era sviluppata una rete di avamposti commerciali che convogliavano la produzione delle materie prime pregiate, come le spezie, e delle manifatture artigianali, soprattutto nel settore della lavorazione dei tessuti e dei metalli, verso altre piazze asiatiche, europee e, attraverso la triangolazione con le Filippine, anche verso l’America spagnola.

Il massiccio contatto con il capitalismo britannico, ormai nella fase di piena maturità della rivoluzione industriale, ebbe un effetto di totale disarticolazione del tradizionale sistema produttivo indiano. Da una parte, gli inglesi promossero la diffusione della monocultura di materie prime agricole necessarie per lo sviluppo delle industrie della madrepatria, primo tra esse naturalmente il cotone: non vi è alcun dubbio che l’abbondante disponibilità del cotone indiano abbia costituito una delle grandi risorse a sostegno lo straordinario sviluppo dell’industria tessile inglese. La diffusione delle monoculture fu ottenuta anche introducendo vincoli sul libero utilizzo delle superfici coltivabili: a uno di questi casi fa esplicito riferimento Gandhi nel Constructive programme, quando ricorda l’obbligo per gli agricoltori della regione del Bihar di coltivare i 3/20 della superfice delle loro terre ad indaco, materia prima fondamentale per l’industria tessile inglese. La grande convenienza dell’approvvigionamento di materie prime dall’India risiedeva non solo nei bassi costi della manodopera ma anche nell’assenza di concorrenza. Gli altri potenziali acquirenti delle materie prime indiane non poterono più operare direttamente ma furono costretti ad avvalersi di intermediari inglesi o a passare attraverso la borsa valori delle materie prime istituita a Londra. In questo modo la Gran Bretagna realizzò un regime di monopsomio, cioè un sistema economico nel quale gli operatori inglesi si comportavano rispetto ai produttori indiani come un solo compratore, che poteva stabilire unilateralmente il prezzo dei beni, in assenza di concorrenza da parte di altri possibili acquirenti e con un forte potere coercitivo, fissandolo ovviamente al livello più basso possibile.

Allo stesso modo, dal punto di vista della produzione e vendita dei beni finiti, la Gran Bretagna agì nei confronti dell’India da monopolista, stabilendo cioè una serie di monopoli su prodotti industriali e non industriali, e obbligando quindi gli indiani al consumo di beni che o non potevano essere prodotti liberamente in loco ma dovevano essere importati dalla madrepatria, ovvero che erano prodotti in India ma da imprenditori inglesi o da imprenditori locali sottoposti però al regime del monopolio; quest’ultimo aspetto spiega anche come sia stato possibile che il processo di industrializzazione, indiscutibilmente avvenuto in India nel secolo di dominazione inglese, non abbia realmente portato alla nascita di un’industria nazionale, quanto piuttosto a un insieme di insediamenti produttivi complementari all’industria britannica.

Queste trasformazioni ebbero delle pesanti ricadute sulle condizioni di vita della popolazione. La diffusione della monocultura rese i contadini indiani più esposti agli effetti delle carestie rispetto ai tradizionali sistemi policulturali, nei quali la diversificazione delle produzioni permetteva di compensare le situazioni di scarsità relativa di un bene, garantendo maggiore resistenza e migliori capacità di capacità di tenuta in caso di carestia. Gli effetti delle carestie che si succedettero con regolare frequenza a partire dalla metà del XIX secolo, spinsero una parte della popolazione ad abbandonare i villaggi rurali e ad avvicinarsi ai centri urbani, il cui sviluppo fu promosso dagli inglesi, in funzione sia della realizzazione degli insediamenti industriali, sia della creazione di una rete di nodi dove concentrare i servizi dell’amministrazione coloniale. Completò il quadro di generale riorganizzazione del sistema economico indiano la creazione di un sistema fiscale prevalentemente basato sulle imposte indirette - dazi doganali e imposte sulla produzione e sul consumo - e almeno fino alle riforme introdotte con i Government of India Acts del 1919 e del 1935, centralizzato, che contribuì a ridurre ulteriormente il reddito disponibile delle classi più povere.

Il modello economico delineato da Gandhi nel Constructive programme non sarebbe potuto essere più lontano da quello realizzato dagli inglesi in India e si può anzi dire che la sua proposta nascesse da un radicale rifiuto di esso, come effetto di una diretta conoscenza dei catastrofici effetti del capitalismo britannico. È altresì noto che tra i collaboratori di Gandhi vi fosse l’economista Joseph Chelladurai Kumarappa che contribuì notevolmente alla formulazione del pensiero gandhiano in campo economico e alla sua trasformazione e articolazione in una compiuta teoria dello sviluppo rurale[1]. In particolare, tre punti del Constructive programme dedicati esclusivamente alla trattazione di temi economici: il quarto punto, a proposito della tessitura a mano del Khadi, il quinto, sulle altre attività produttive dei villaggi diverse dalla tessitura, il sesto sull’uguaglianza economica.

Alla base di tutto il pensiero economico di Gandhi vi sono due concetti fondamentali, il superamento della separazione tra capitale e lavoro e la ricostruzione di un sistema di economia comunitaria, incentrata sui villaggi rurali e sulla solidarietà tra i vari gruppi formanti la società indiana. Nel contesto indiano, era stata l’introduzione del modello del capitalismo inglese a spezzare l’unione tra capitale e lavoro tipica delle società preindustriali, in cui indissolubile appare il legame tra il contadino e la terra da cui trae il sostentamento per sé e per la sua famiglia, con pochi strumenti e animali da lavoro, o tra l’artigiano, la materia prima che trasforma e gli scarsi utensili che impiega.

Gandhi intende restaurare per quanto possibile la capacità delle comunità rurali di essere autosufficienti, mediante un ritorno alla policultura e a una stretta integrazione tra agricoltura e allevamento. Alla base di questa scelta vi è chiaramente la coscienza delle conseguenze devastanti provocate dalla diffusione della monocultura ad opera degli inglesi sul sistema dei villaggi rurali, descritti da Gandhi come miserrimi, vulnerabili, non più animati dalle attività produttive in essi tradizionalmente svolte. Allo stesso tempo, però, Gandhi annette a questo obiettivo un’importanza che va ben al di là del suo significato puramente economico: il recupero delle attività tradizionali, nella visione gandhiana, serve in primo luogo a restituire dignità e, soprattutto, a garantire indipendenza alle popolazioni dei villaggi.

Perché questo primo obiettivo possa essere raggiunto, è condizione indispensabile che si realizzi anche il secondo, e cioè che il villaggio, cellula di base e nucleo fondante della società indiana, sia retto da uno spirito comunitario, cioè dalla massima solidarietà e identità di intenzioni tra tutti i componenti la sua popolazione, senza che nessuno anteponga il proprio interesse a quello della comunità nel suo insieme. Proprio per postulare la solidarietà come elemento fondante della sua visione economica, Gandhi fu spesso oggetto di critiche da parte di pensatori di formazione marxiana: nella sua visione non trovava spazio il conflitto di interessi di classe e la conseguente lotta, che, del resto, era risolta a priori dal superamento della separazione tra capitale e lavoro.

In luogo della contesa violenta tra proletariato e capitalisti per l’appropriazione del plus-valore, costitutiva della lotta di classe marxiana, Gandhi propose la formazione di un fondo fiduciario, trusteeship, nel quale i ceti più abbienti concentrassero spontaneamente una parte delle loro ricchezze a favore dei ceti più poveri. Gandhi credeva infatti nella possibilità che i detentori di grandi ricchezze potessero essere convinti che i loro beni non fossero una proprietà esclusiva ma che appartenessero alla comunità e dovessero essere quindi utilizzati a beneficio di essa, tranne per ciò che fosse necessario a garantire una esistenza decorosa. Inizialmente Gandhi riteneva che l’adesione al fondo fiduciario dovesse essere del tutto spontanea ma successivamente si convinse che le leggi dello Stato potevano svolgere un ruolo importante per favorire la creazione di un fondo fiduciario, senza per questo teorizzare mai il suo carattere coercitivo[2].

Nella visione gandhiana, lo stesso spirito comunitario che ispira le relazioni tra ricchi e poveri, deve istaurarsi anche nei rapporti tra villaggi rurali e città: la produzione agricola dei villaggi provvede all’approvvigionamento alimentare delle popolazioni urbane attraverso il commercio, non con finalità di speculazione, ma appunto secondo un vincolo di reciproca solidarietà e collaborazione. Senza la guida di uno spirito comunitario, non è possibile raggiungere né nei villaggi né nelle città, e quindi nell’intera società indiana, alcun tipo di sviluppo economico e sociale stabile e duraturo, così come il permanere di ampi squilibri tra ricchi e poveri costituisce un ostacolo insormontabile alla costruzione di un sistema di pacifica convivenza. Più in generale, se si integrano le parti dedicate solo a temi economici con tutto il contenuto del Constructive programme, la complessiva visione gandhiana del modello di economia cui aspirare si basa non solo su un forte decentramento, come già ricordato per l’enfasi data ai villaggi rurali, ma anche su uno sviluppo sostenibile e rispettoso dell’ambiente, sul miglioramento e la diffusione della formazione, sulla promozione del ruolo delle donne, sul superamento della divisione in caste.

Com’è ben noto, Gandhi riserva particolare attenzione a una specifica attività tessile, quella della produzione del Khadi, tema che da solo riassume e semplifica tutta la visione di Gandhi sull’economia. Al Khadi, tessuto di cotone tradizionalmente prodotto dalle famiglie indiane per il proprio uso, Gandhi associa molto presto l’azione di disobbedienza civile contro la dominazione inglese, esortando ogni indiano a dedicare quotidianamente del tempo alla filatura artigianale del cotone - attività per la quale indica anche un preciso tipo di arcolaio - e alla tessitura. Molteplici e non solo economiche sono le finalità per cui Gandhi promuove il Khadi: rendere gli indiani indipendenti dall’importazione dei tessuti di cotone lavorati nelle manifatture inglesi; colpire gli interessi economici della madrepatria; promuovere il decentramento, contro le grandi concentrazioni industriali promosse dagli inglesi, a favore della ripresa delle tradizionali attività dei villaggi; riaffermare l’autosufficienza, e quindi la dignità e indipendenza, del popolo indiano; educare lo spirito attraverso una pratica di lavoro manuale; abbattere le barriere sociali e di casta mediante una pratica che accomuna ogni indiano. Inoltre, per Gandhi, la promozione del Kadhi avrebbe comportato anche la rinascita delle altre manifatture artigianali tradizionalmente praticate nei villaggi rurali.

Com’è noto, il modello economico che seguì l’India dopo l’indipendenza fu in realtà molto distante da quello auspicato da Gandhi. Jawaharlal Nehru, primo ministro dal 1947 al 1964, promosse l’industrializzazione dell’India, sotto la guida e con un forte controllo da parte dello Stato, mediante lo sviluppo di complessi siderurgici di notevoli dimensioni e di grandi infrastrutture, in primo luogo dighe per liberare alcune regioni dal flagello delle inondazioni e altre da quello della siccità. I principali punti di contatto tra il progetto gandhiano e le realizzazioni nell’India post-britannica furono certamente la ricerca dell’indipendenza e dell’autosufficienza dell’India dalle altre nazioni e il quadro di socialismo non marxista nel quale si mosse sostanzialmente Nehru, con l’obiettivo di ridurre le terribili sperequazioni sociali che continuarono a sussistere anche dopo la fine dell’età coloniale.

Dal principio degli anni ’90 l’India ha nuovamente mutato il modello di riferimento del suo sistema produttivo, adottando una politica di graduale liberalizzazione dell’economia e di decisa apertura commerciale e finanziaria verso l’esterno. Proprio questo ultimo passaggio nella storia dell’economia dell’India post-coloniale, tuttavia, ha confermato l’attualità del pensiero di Gandhi contenuto nel Costructive Programme. L’apertura dell’economia ha infatti avuto come conseguenza una forte penetrazione del capitale internazionale sotto forma di delocalizzazione di imprese manifatturiere occidentali - che hanno spostato una parte delle loro fabbriche in India per i minori costi della manodopera - e di presenza delle grandi multinazionali della produzione agricola. Nonostante lo sviluppo dei ceti medi urbani registrato nell’ultimo quarto di secolo anche in conseguenza di queste trasformazioni dell’economia indiana, la presenza del capitale straniero non ha migliorato le condizioni di vita né dei lavoratori industriali né di quelli agricoli e ha in generale gravemente accresciuto l’inquinamento ambientale.

In particolare, permangono molto difficili le condizioni di vita dei contadini per via della monocultura imposta in molte aree dalle grandi multinazionali agricole, una situazione che per molti versi ripete il regime coloniale. Queste compagnie infatti agiscono nei confronti dei contadini come l’unico compratore del prodotto e come l’unico venditore delle sementi, che peraltro, essendo per lo più geneticamente modificate, non danno un prodotto riutilizzabile per la semina. La situazione di esteso indebitamento che questa completa dipendenza può facilmente generare tra i piccoli produttori, anche in assenza di fenomeni di carestia - resi comunque più gravi proprio per effetto dell’adozione della monocultura - ha assunto le dimensioni di un fenomeno di massa in varie regioni rurali dell’India. Torna dunque di inquietante attualità la descrizione, fatta da Gandhi ormai oltre sette decadi fa, dello stato di abbandono e miseria dei villaggi rurali, dove ancor oggi vive la metà, o poco meno, della popolazione indiana.

 

Gaetano Sabatini

(2.continua)

 

 

 

 

 



[1] Su Joseph Chelladurai Kumarappa (1892-1960) cfr. Mark Lindley, J.C. Kumarappa. Mahatma Gandhi’s economist, Mumbai, Popular Prakashan, 2007.

 

[2] Tre le figure di riformatori sociali, vicine a Gandhi nel corso degli anni, che influirono sull’elaborazione dei contenuti economici del Constructive Programme o nel dare ad essi forma più chiara e definita, come appunto a proposito la creazione del fondo fiduciario, devono essere ricordati almeno Mohanlal Lallubhai Dantwala (1909–1998), Kishorelal Mashruwala (1890-1952) e Narhari Parikh (1891-1957).

 

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