Koinonia Aprile 2019


La  parola a Daniele Garota

CRISTINA CAMPO

Liturgia della perfezione

 

Tutt’altro che improvvisata la scelta di Vittoria Guerrini di chiamarsi Cristina Campo. Cristina, come si sa, sta per “portatrice di Cristo” e Campo - come ebbe a scrivere lei stessa in una lettera a un amico - sta per campi di concentramento, quei “campi di dolore creati dagli uomini” che durante gli anni della sua vita hanno visto sterminare decine di milioni di creature umane innocenti nel cuore della nostra civilissima Europa. In lei la sete di perfezione e bellezza prorompeva dalla partecipazione appassionata al dolore degli altri, e a pensarla a fondo a venire in mente è un pensiero formulato da Kierkegaard: “Che cos’è un poeta? Un uomo infelice che nasconde gravi pene nel suo cuore, ma le cui labbra sono conformate in tal modo che il sospiro e il grido all’uscirne le rende squillanti come una bella musica” (Diapsalmata).

C’è chi ha detto che durante la sua vita abbia persino finito di trattare se stessa come poesia, rendendosi così difficile e segreta, tutta da decifrare, interpretare in quel suo afflato rivolto a perfezione. Se difficilissimo è corrispondere all’invito evangelico di essere noi perfetti come lo è il Padre celeste, si può dire che Cristina ci abbia almeno provato, per una vita intera. A due cose pare tenesse in particolare: l’ ascolto e l’attenzione da volgere a ciò che è essenziale, e la ricerca incessante di perfezione e bellezza nello stile del vivere e dell’esprimersi.

Scomparsa ad appena 54 anni la Campo ha scritto pagine davvero significative. Non molte, è vero, e tuttavia sappiamo che le sarebbe piaciuto scrivere ancora meno. La perfezione per lei consisteva nel togliere più che nell’aggiungere, nella brevità dei pensieri, nell’acutezza del colpo d’occhio, nella parola asciutta che nasce da molto ascolto e silenzio. Guido Ceronetti l’ha definita “trappista della perfezione”, “ la più misteriosa delle scrittrici italiane”. E Roberto Calasso (sarà l’Adelphi a pubblicare le sue opere) parlò di lei nel giorno della sua morte, era il 1977, come di una “scrittrice che ha lasciato una traccia di poche pagine imperdonabilmente perfette”. Sì, perché i più non riescono a perdonare la perfezione quand’è raggiunta, sia essa vissuta dai santi o dai poeti.

Non aveva pressoché frequentato scuole, rimanendo così immune da quei pregiudizi e irrigidimenti che i luoghi istituzionali alla fine impongono. Libera e leggera Cristina ha camminato ai margini e nel nascondimento, rispondendo solamente al richiamo di assoluto che le veniva da dentro. Portatrice fin dalla nascita di una malformazione cardiaca che l’inchiodò a letto per lunghi periodi, conobbe la prova del silenzio e dell’attendere soli, l’esperienza che suggerisce quel che davvero conta nella vita.

Alla forte necessità di raccogliersi in solitudine alternava una poderosa ricerca di anime sensibili e attente con cui comunicare. Carattere difficile il suo, autoritario e fragile insieme, tanto da renderla esigentissima con chi incontrava, non meno che con se stessa.

Incontrò diverse figure di riferimento e tra queste va certamente ricordata Simone Weil, anche lei scomparsa in giovane età, sola, in un letto d’ospedale a Londra a trentaquattro anni nel 1943, anche lei abitata da sentimenti di solidarietà verso i sofferenti e i poveri della terra, anche lei assetata di perfezione e d’ascolto, come testimoniano le sue pagine poderose, le sue esperienze in carne e ossa, dalla condizione d’operaia in fabbrica alla Renault, alla partecipazione volontaria alla guerra civile in Spagna. Dalla Weil Cristina ha certamente appreso molto per formulare un pensiero come questo che stiamo per citare, pensiero che tanto bene farebbe se fosse almeno un poco appreso da noi oggi, schiavi senza rimedio di superficiali chiacchiere, internet e telefonini: “Chiedere a un uomo di non distrarsi mai, di sottrarre senza riposo all’equivoco dell’immaginazione alla pigrizia dell’abitudine, all’ipnosi del costume, la sua facoltà di attenzione, è chiedergli di attuare la sua massima forma. È chiedergli qualcosa di molto prossimo alla santità in un tempo che sembra perseguire soltanto, con cieca furia e agghiacciante successo, il divorzio totale della mente umana dalla propria facoltà di attenzione”.

Ma tra i suoi riferimenti troviamo anche Léon Bloy, che fissò, secondo lei, l’ideale di perfezione con parole come queste: “È indispensabile che la verità sieda in gloria. Lo splendore dello stile non è un lusso ma una necessità”. Anche Gesù metteva del resto in guardia dal parlare a sproposito, e Cristina lo sapeva: “È esattamente così. La parola è un tremendo pericolo, soprattutto per chi l’adopera, ed è scritto che di ciascuna dovremo render conto” (L’intervista).

E in Note sopra la liturgia, evoca pure San Francesco che dice: “Beato quell’uomo che non vuole nei suoi costumi e nel suo parlare esser veduto né conosciuto se non è in quella pura composizione e in quello adornamento semplice nel quale Iddio lo adornò e compose”. La perfezione di un gesto liturgico può sprigionare luci di testimonianza poderose, “c’è chi s’è convertito – diceva Cristina - vedendo due monaci inchinarsi insieme profondamente, prima all’altare, poi l’uno all’altro, indi ritrarsi nei penetrali del coro”. Vedeva la radice della liturgia cristiana nel vasetto di nardo prezioso che la Maddalena versò sul capo e sui piedi al Signore, uno spreco di cui il Redentore s’innamorò. Dio non è sempre con noi e quando ci passa accanto non resta a lungo, per questo vuole su di sé ogni attenzione in certi particolari momenti. E così guardandoci Dio impara pure qualcosa da noi. Ecco perché “replicò quel gesto la sera dopo, quando, precinto e inginocchiato, lavò con le Sue mani divine i piedi ai dodici Apostoli, allo stesso modo che Maddalena, scivolando tra il giaciglio e il muro, aveva lavato i Suoi. Dio, come osservò uno spirito contemplativo, si ispira volentieri a coloro che ispira”.

Frequentava Urbino Cristina, aveva amici lì, l’amore tormentato per il germanista Leone Traverso soprattutto. Visitando la città s’imbatté un giorno davanti alla Muta di Raffaello, dicendo di trovare in quell’icona non solo “il centro del Palazzo Ducale, ma di Urbino e dell’intera Marca. È una donna a forma di liuto: silenziosa come solo può esserlo uno strumento posato, abbandonato appena dalle mani”. E poi ecco il piccolo studio di Guidobaldo, dove vide “intarsiati, a stabilire il silenzio, gli oggetti più intimamente sonori. Liuti posati, clavicordi e organi aperti, fogli di musica sospesi, orologi fermi. Un silenzio abbandonato è ristagno; un silenzio affermato è pausa – puro intervallo – anche se infinito” (Qualche nota sulla pittura).

Per conoscere qualcosa delle vibrazioni che silenzio e musica provocavano nel suo cuore, si legga la memorabile pagina che dedica alla campana. Chi d’altra parte riesce a rimanere indifferente quando i suoi rintocchi giungono improvvisi a interrompere il silenzio da una lontana chiesina di campagna? È una sorta di “voce di Dio - dice Cristina - una “mediatrice tra il cielo e la terra…  È  quindi naturale che la Chiesa cattolica abbia per secoli dedicato, battezzato, consacrato la campana con cura minuziosa e solenne, come una creatura vivente”, affinché chiunque ne oda il suono “sia liberato da ogni tentazione e resti fermo nella fede cattolica” (La campana). Si racconta che Dostoevskij, dopo avere discusso per una notte intera con un ateo riguardo all’esistenza di Dio, all’udire il suono lontano di una campana sentì sorgere d’improvviso nel cuore qualcosa che lo spingeva a dire: Dio esiste!, Dio esiste!.

Il cammino verso la fede cattolica è lento per la Campo: l’abbraccerà definitivamente soltanto dal 1965, anno in cui moriranno entrambi i genitori. Certo da tempo anelava al contatto con Dio. “Sono rimasta per 25 giorni – scrive a un conoscente - in una solitudine così completa e in un silenzio così totale come mai forse nella mia vita e Dio, trovandomi finalmente disponibile, ha cominciato a dirmi le mille cose che non gli avevo mai consentito di dirmi ed è stato, glielo assicuro, un mese di prodigi che non mi hanno lasciato il tempo per null’altro”.

Nella religione cattolica aveva colto la “meravigliosa carnalità della vita divina”. Di lì in poi la sua vita assunse una piega decisamente religiosa che la condurrà tra l’altro a prendere anche distanza da Simone Weil, alla quale rimproverava di essere rimasta per troppo tempo sulla soglia della fede cattolica senza avere avuto infine il coraggio di farsi battezzare.

Sono quelli anche i tempi delle aperture del Concilio Vaticano II, che la Campo non volle accettare. Essa avrebbe sicuramente gioito, per esempio, alla notizia del Motu Proprio con cui ai nostri giorni Benedetto XVI ha riproposto la messa in latino. Ciò che temeva era l’appiattimento, la chiusura al soprannaturale, all’evento mistico, alla Comunione dei santi: “Che altro esiste in questo mondo - diceva - se non ciò che non è di questo mondo?” (Una rosa). Con la sua sete d’assoluto rimase sempre affascinata dai riti bizantini, dalle preghiere dei monaci. “Vorrei tu potessi udire - scriveva a un’amica nell’Avvento del 1965 - queste lezioni cantate, all’Abbazia di Sant’Anselmo, la sera precedente la festa, tra le 7 e le 8… Fa molto freddo, duramente freddo in chiesa a quell’ora. Iersera non c’ero che io sola, nella navata. I monaci sono tutti in cocolla e cappuccio - e da come ciascuno rialza il suo cappuccio si comprende se sarà vero monaco, perché il vero monaco è altero del suo abito, che è l’eleganza stessa, e lo porta da re”.

Lungi dal giudicare queste posizioni secondo polemiche e fuorvianti distinzioni di facciata, a noi pare che in lei ci fosse una preoccupazione sincera e profondamente spirituale, fors’anche, a tratti, escatologica. Preoccupazione di cui tenere sicuramente conto, soprattutto durante questi nostri giorni diventati davvero duri per la fede. Ci è salutare percepire come pericolosa deriva quel mettere in armonia ormai tutto con il contrario di tutto, la Croce con le cose più mediocri, senza più nulla attendere dalle santissime mani di Dio. Temeva la religiosità che non alza più gli occhi verso il cielo, dimenticando che lo fece Cristo stesso prima di moltiplicare pani per la folla affamata, insegnandoci come sia Dio a regalare ogni cosa al mondo e noi semplici discepoli a cui spetta il solo compito dell’umile dir grazie nella condivisione con chi è più bisognoso tra noi.

Temeva insomma una cristianità capace di considerare soltanto terrestre e troppo a portata di mano la Gerusalemme che dovremmo invece attendere dal cielo, una Gerusalemme che si è finito col farla assomigliare “alla Torre di Babele alzata al centro di Sodoma o di Gomorra”. Falsi e “figli di Satana” percepiva quei monaci tutti intenti a fabbricare “piccole croci per fedeli convinti dell’inesistenza del maligno e della necessità della libera coscienza”. Aspettava di incontrare “un vero eretico” Cristina, per questionare con lui. Ma sentiva che “non ce ne sono quasi più, poiché - diceva - lo sono tutti”.

Negli ultimi due anni di vita scriverà pochissimo, come se già vivesse in una dimensione altra. Solo così forse, poté essere capace, in punto di morte, di lanciare a Elémire Zolla, suo compagno da vent’anni, “un sorriso aperto, accorato, perfetto”.

 

Daniele Garota

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