Koinonia Marzo 2019


QUANDO SI DICE SCISMAÈ COME GRIDARE AL LUPO?

 

Con questa sua lettera a firma chiesadituttichiesadeipoveri, Raniero La Valle fa il punto sul tema “Scisma”, diventato una costante editoriale e giornalistica da quando Pietro Prini, nel 1998, diede alle stampe il suo “Scisma sommerso”, un opuscolo che denunciava i punti di rottura interni alla chiesa in rapporto alla modernità:  tra una concezione ‘aperta’ e una ‘chiusa’ verso la società; tra un atteggiamento di fiducia nel primato della coscienza individuale e uno più attento alle prescrizioni della gerarchia; tra una concezione di ‘cristianesimo adulto’ e una che tende a privilegiare l’obbedienza dei fedeli; tra un’apertura al dialogo con la modernità occidentale e una sua condanna in linea di principio; tra l’immagine di un Dio giudice, e quella  di un Dio di misericordia nella “gioia del vangelo”.

 

Ma forse non è più ammissibile che un fenomeno  così pervasivo di scismi latenti  rimanga di dominio pubblicistico o anche scandalistico, senza che nessuno se ne  faccia carico come piaga pastorale e problema teologico. Sarebbe come continuare a gridare al lupo qua e là, quando il lupo è già nel recinto delle pecore e i mercenari sono fuggiti. Mi sembra di poter dire che Raniero La Valle inviti a prendere sul serio la questione, tanto da segnalare disegni speculari di scisma e mettere in guardia da corti circuiti e false partenze.

 

Il fatto è che il dilemma Concilio non è stato mai sciolto in maniera chiara, ed anche il dramma del dopo-Concilio è stato messo tra parentesi prima possibile, per cui dentro la chiesa anime diverse hanno continuato a svilupparsi e a coesistere in maniera parallela, fino a contrapporsi con esisti alterni di egemonia e di consenso. Tutto questo nel presupposto che una tendenza dovesse prevalere sull’altra, e ad esclusione  di una possibile distinzione reale e compatibilità interna, in quanto la chiesa è “una” ma non unica. Unità non è unicità, e una chiesa ormai a dimensioni  planetarie non può ignorare le differenze che la abitano, e che altrimenti  generano tensioni contrapposte e scismi.

 

Per venire a capo di situazioni così controverse non è il caso né di lasciarle sedimentare, né di intervenire gordianamente a favore o dello status quo o di solu- zioni drastiche che lasciano il tempo che trovano. Forse ci vogliono la pazienza ed il coraggio di rivisitare e ripensare gli anni del Concilio e del dopo-Concilio in maniera unitaria, uscendo dai vicoli ciechi del pragmatismo appagante e del teologismo fine a se stesso: riportarci allo stato permanente di Concilio - o di sinodalità effettiva - al di là della lettera e della stessa storia, per rientrare in quella storia della salvezza che proprio il Vaticano II ha voluto riaprire. Più che affidarsi a proiezioni del passato c’è da proiettarsi in un futuro gravido di sorprese.

Non saprei spiegarmi perché, ma se cerco mentalmente di fotografare e decifrare la complessa situazione della chiesa del Concilio e del dopo-Concilio mi viene da pensare all’espressione figurata di uso comune “mettere il carro davanti ai buoi”: per dire che forse ci siamo contentati di cambiare carro o di modificarlo, ma lasciandolo dov’era, davanti ai buoi; abbiamo ideato un modello nuovo di chiesa sganciato da un Popolo di Dio che avrebbe dovuto farsene carico e trainarlo avanti. Ma mentre noi abbiamo cominciato a tergiversare, c’è chi ha avuto il coraggio necessario e ha detto ai suoi: “Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me” (Mt 11,29). Ci siamo attardati troppo in questioni di lana caprina e abbiamo perso di mira gli obiettivi irrinunciabili da perseguire ad ogni costo e che restano comunque davanti a noi!

 

Riconoscere di aver messo il carro davanti ai buoi, dando la promessa riforma a portata di mano, ci riporta alla responsabilità di farsi carico della svolta necessaria con convinzione e dedizione incondizionata, sia dal punto di vista mentale che pratico. Non mancano modelli da applicare, ma manca chi li incarni!  Ed è proprio qui che vien fuori l’ambiguità tra il grande dinamismo interno di chi sta sul carro e l’indifferenza nei confronti di quanti il carro vorrebbero vederlo passare o anche salirvi. Forse un discorso rigoroso e decisivo sarebbe da farsi già in partenza, a prescindere da dove voler andare e come andarci, là dove nascono dissensi e scismi. Come sappiamo,  c’è stata anche una stagione che è andata sotto il nome di “dissenso”: tutta da buttar via e lasciare così che il dissenso sia sommerso?

 

Controluce c’è sempre la situazione che si è creata nel “dopo-Concilio”, da ripercorrere completamente in maniera critica, per non buttare via il bambino con l’acqua sporca. Ma una volta che i tanti tentativi di rimettere in movimento il carro del Concilio sono stati vanificati, è chiaro a tutti che non possiamo contentarci di operazioni e di un regime di sopravvivenza. C’è da chiedersi se non sia possibile una rigenerazione prima di tutto culturale grazie magari ad attori non compromessi in sigle e in simboli convenzionali: una nuova generazione - non necessariamente anagrafica - che ritrovi linfa evangelica da dare come speranza al mondo. Che vorrebbe dire discernere il futuro piuttosto che proiettare in avanti il passato: misurare le cose in base alle potenzialità dei fini piuttosto che sui limiti dei mezzi.

 

A parte analogie politiche, è il vangelo ad insegnarci che prima di piani, di progetti, di programmi, ci sono le persone, le volontà, le disponibilità per una causa più grande di loro (pescatori di uomini!). Inutile dire che simile capovolgimento di prospettiva è necessario soprattutto nel mondo della fede, che è tra il già e non ancora, se davvero prendiamo sul serio il discorso-riforma come modo di essere di una chiesa semper reformanda, una sorta di ecclesiogenesi o formazione permanente di un  Popolo di Dio messianico.

Tornando a guardare in questa ottica a come sono andate le cose nel dopo-Concilio, si arriva a dire che se da una parte siamo all’impasse, dall’altra c’è l’urgenza di un cambiamento di passo, di metodo, di strategia, di passaggio da una riforma fatta per se stessi, sia pure in chiave missionaria, ad una riforma imperniata sul vangelo che abbiamo ricevuto e da trasmettere: che non è un modo di dire.  Se non si prende atto di questo passaggio da operare si rischia il ristagno e il tradimento della spinta originaria del Concilio. Questa necessità è segnalata dal numero 4/2018 della rivista Concilium, dedicato  a “La Chiesa del futuro”, che però rischia di essere archiviato senza averne prima colto la provocazione.

 

Nell’articolo di C.Theobald troviamo descritta la riforma prima maniera  impostata su un pragmatismo di corto respiro: “La riforma della chiesa può quindi facilmente ridursi a un compito  manageriale, condotto secondo i criteri ‘economici’  in voga in altre amministrazioni, mobilitando tutta la creatività degli attori pastorali, persino entusiasmandoli e dando loro la buona coscienza di aver realizzato qualcosa al servizio di tutti. Nel lungo periodo, si tratta, però, di un ecclesiocentrismo più o meno larvato e di un modo  di conformarsi ai valori liberali della società che si stanno affermando - risultato che si aggrava ulteriormente se si collega a una sorta di ‘neodarwinismo’ inconscio che, in alcuni ambienti, rischia di confondere il numero e il peso socio-politico degli aderenti al cattolicesimo con la fecondità del vangelo. Si comprende  che, in tal caso, non è il volto del futuro della chiesa o del vangelo di Dio che fanno problema.  Essendo questo dato però acquisito una volta per tutte - non senza essere spesso ridotto a un insieme di devozioni e a un sistema di valori -, è l’efficacia della sua presenza nella società che preoccupa i responsabili” (p. 26).

 

Quindi saremmo al punto, nonostante tutte le innovazioni conciliari, che “non è il volto del futuro della chiesa o del vangelo di Dio che fanno problema”, ma è “l’efficacia della sua presenza nella società che preoccupa i responsabili”.  Questo stato di cose porta Massimo Faggioli ad una ipotesi di lavoro e di rilancio che presenta come un “secondo dopo-Concilio”. Egli scrive: “Una riflessione sulla chiesa del futuro riguarda la periodizzazione della fase postconciliare, ovvero se vi siano e quali siano, nella storia della chiesa a partire dall’inizio dell’evento conciliare con la  sua convocazione da  parte di Giovanni XXIII quasi sessant’anni fa, periodi diversi contraddistinti da caratteristiche  diverse. Da questo punto  di vista, ci si può chiedere se il cambio  di secolo  non abbia coinciso con  un nuovo periodo all’interno della storia della recezione conciliare. In modi diversi e su piani diversi, il venire alla luce della crisi sugli abusi sessuali (sex abuse crisis) negli Stati Uniti tra 2001 e 2002 e le guerre causate dagli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001 hanno contribuito all’emergere di un nuovo tipo di consapevolezza nel rapporto tra religioni e politica globale, e quindi anche una diversa consapevolezza nella chiesa e della chiesa. Non si tratta solo di un nuovo secolo dai tratti diversi da quelli attesi ed espressi dal cattolicesimo ufficiale (la lettera apostolica di Giovanni Paolo II Tertio millennio adveniente, del 1994, e il grande Giubileo del 2000), ma si tratta anche di un diverso postconcilio, o di un “secondo postconcilio” che si apre con la transizione dalla generazione dei leader conciliari alla generazione dei cattolici nati e cresciuti nel postconcilio. Tra le caratteristiche di questa nuova consapevolezza, vi è un diverso rapporto con il mondo contemporaneo - dal nuovo rapporto tra chiesa e secolarità del Vaticano II al mondo secolarizzato e postsecolare del XXI secolo”.

 

Si potrebbe parlare di chiamata alle armi di reduci e riservisti che vadano al di là di nostalgie e di rimpianti e si impegnino a trasmettere il testimone di una riforma mancata o incompiuta a chi la può prendere in mano e portarla avanti come fonte di speranza. Se non c’è questa presa di coscienza e di iniziativa forte si va sempre più verso il raffreddamento della lava incandescente fuoriuscita dalla eruzione del Concilio. Se davvero si volta pagina per un nuovo capitolo, bisogna riprendere il filo originario del discorso conciliare, per tessere trame di chiesa sull’unico ordito di una umanità che, per quanto civile e progredita, rimane “massa damnata” bisognosa di salvezza.

 

È un lavoro impegnativo di rivisitazione e di ripensamento, che ci mette subito davanti a due istanze imprescindibile: che ci sia una convinzione diffusa di questa urgenza e che ci sia chi vi si dedichi a tempo pieno in maniera sinodale ed organica in chiave pastorale, teologica, missionaria a sfondo evangelico: che ci siano laboratori di chiesa che non si contentino del loro corretto funzionamento interno, ma generino figli di Dio mediante la fede: che siano sale e lievito per la massa. Bisognerebbe in altre parole che nascessero comunità portatrici di questa passione e con questo obiettivo di fondo: persone che si ritrovano a condividere  la stessa ragion d’essere della loro comunione.  Potremmo chiamarlo “Ordine sparso di chiesa nel mondo”!

 

Alberto Bruno Simoni op

.

.