Koinonia Marzo 2019


La parola a Daniele Garota

 

 “NELLA PROSPERITÀ L’UOMO NON COMPRENDE” (II)

 

Sembra non esserci altra via, per la coscienza, al di fuori di quella del dolore e della privazione: non può capire un affamato o un assetato chi non ha mai patito la fame o la sete, un ammalato chi non è mai stato in un ospedale. Tanto che allontanarsi dal dolore è in qualche modo allontanarsi dall’uomo e da Dio. Ma non sarebbe allora il caso di provocarlo il dolore in funzione dell’alto scopo? No, questo né Dio né l’uomo lo possono fare: è fin troppo nota l’argomentazione di Ivan Karamazov che lo porta a dire come nemmeno l’eternità del paradiso giustificherebbe anche soltanto una lacrima di una bambina infelice. Il dolore, come la povertà, non è un ideale cristiano e non si deve assolutamente volere, né per se né per gli altri. Il dolore va patito quando è accaduto e accade, e se vi è un dolore che è giusto provocare è quello che ci rende capaci di condividere e comprendere il dolore degli altri, il dolore dunque di chi sceglie il patire insieme al fratello che soffre aiutandolo anche solo così a portarne il peso. Cristianesimo è patire con chi soffre, farsi povero coi poveri, per sentire sulla propria pelle cosa significa.

Nemmeno Dio forse comprendeva davvero il soffrire di un uomo prima di farsi carne: è nel Figlio che Dio “imparò l’obbedienza da ciò che patì”: è stato il dolore a renderlo “perfetto” e “causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono” (Eb 5,8-9; cf. Fil 2,2). Più angoscioso di ogni sofferenza dovrebbe essere l’accorgersi di non percepire più sofferenza, di sentirsi senza dolore, impassibili davanti all’orrore, con un sorriso di cinica indifferenza sul volto. “Il dolore ci dice che esistiamo; il dolore ci dice che esistono coloro che amiamo; il dolore ci dice che esiste il mondo in cui viviamo, il dolore ci dice che Dio esiste e soffre”.1

La velocissima ruota mondiale del mercato e degli scambi che un po’ tutti ci trascina, è difficile da frenare: le strutture di produzione e di spreco paiono inarrestabili, tutti ci si piega ormai obbedienti e rassegnati alle logiche del progresso che da ogni parte incalzano. Sappiamo dove tutto questo rischia di condurci, ma a nessuno sembra davvero importare, e anche qui è la prosperità a renderci ciechi. Ingiustizia e catastrofe ecologica ci stringono da ogni parte, ma la formuletta “sviluppo sostenibile” pare essere velo sufficiente a coprire la vergogna e la paura. Cresci, sviluppa, consuma!, ti gridano nelle orecchie; e subito dopo: fermati, evita gli sprechi, l’acqua finirà, l’aria è già irrespirabile! Fino a quando potrà durare questo contraddittorio altalenarsi di prediche vuote? Lo sviluppo, se ci sarà, è per i soliti pochi, non illudiamoci: la valanga dei poveri s’allargherà e resterà sempre più povera. La tasca del ricco non si tocca, che s’arrangino dunque Lazzaro e le generazioni future! E se qualcosa resta ancora da fare, ognuno di noi è chiamato con tutte le forze a farlo, dove può per quel che può, senza aspettarsi troppo dagli altri, dai potenti di turno. Ognuno è responsabile non solo delle sue scelte e dei suoi gesti, ma persino dei suoi pensieri, che rivelano poi quel che davvero ci sta a cuore. “Ognuno infatti sarà salato col fuoco” (Mc 9,49), su questo Gesù, il Cristo, è stato chiarissimo.

Ma quello della prosperità che addormenta le coscienze sembra diventato ormai un vero e proprio progetto politico delle nostre società appiattite nell’opulenza e nel consumo fine a se stesso. La tiepidezza, la zona grigia del tutto si equivale, il generale rimbambimento del comprare tanto per comprare, aumenta a vista d’occhio e sembra da tutti voluto. Ci sarà un burattinaio a muovere i fili? Chissà… Intanto davanti alle contraddizioni e agli insolubili problemi si continua a prendere la scorciatoia: si abbassa il “livello psichico dell’uomo”, sì da “soffocare in lui tutto ciò che è indeterminato, inquieto, tormentoso”, semplificando “la sua natura fino all’evidenza di aspirazioni poco lungimiranti”, costringendolo “a sapere moderatamente, a sentire moderatamente, a desiderare moderatamente: ecco il modo di soddisfarlo, finalmente, e di acquietarlo”2.

All’uomo di fede resta la fede, la fede in un Dio che patisce insieme a noi il disastro, un Dio che ognuno può intanto incontrare nel povero che ha sete e fame, che marcisce dimenticato nella galera. La benedizione che viene da Dio è fatta di vita abbondante, salute, ricchezza e persino potenza. Ma per l’uomo giusto che abita un mondo decaduto queste possono essere terribili maledizioni, insormontabili ostacoli che accecano il cuore, che gli impediscono di volere la salvezza che gli è stata promessa, una salvezza fatta di quella gioia e pienezza di vita che, come la pace, viene da Dio e non dal mondo (Gv 14,27). La prosperità  sulla terra è il piatto di lenticchie col quale l’uomo scambia la primogenitura del Regno. Il medico non può guarire chi non si sente malato: “Tu dici: Sono ricco, mi sono arricchito; non ho bisogno di nulla. Ma non sai di essere un infelice, un miserabile, un povero, cieco e nudo” (Ap 3,17). “Mentre i più sfortunati soccombono nel profondo del mare, in qualche angolo estraneo alla catastrofe, nel pieno di una festa mascherata, gli uomini del potere continuano a ballare, assordati dalle loro buffonate”3. Ma fino a quando?

Intanto, chi in cuor suo percepisse qualcosa e decidesse di rimboccarsi le maniche sappia che avvicinarsi al povero è faticoso. I poveri sono “padroni terribilmente suscettibili ed esigenti: lo vedrai - diceva San Vincenzo a una novizia -, allora più essi saranno ripugnanti e luridi, ingiusti e volgari, più tu dovrai offrire loro il tuo amore. È per il tuo amore, solo per il tuo amore, che i poveri ti perdoneranno il pane che loro offri”. Tutti in fondo facciamo un bel ragionare sopra i poveri e la povertà, come anch’io sto facendo ora. Ma occuparsi di essi da vicino, fino a sentire il loro cattivo odore, fino a essere attraversati dal loro sguardo implorante e talora irritato, è davvero dura. Lo si può fare per un momento, ma poi? E il povero non è soltanto la gran massa di disperati che vediamo in televisione, è anche il povero vecchio babbo malato che abbiamo in casa e che ha bisogno di noi ogni giorno. Ed è quello forse il povero più difficile da amare e consolare.

Ma il vero povero, l’assolutamente povero, alla fine è Dio: è il suo dolore e la sua povertà che reclamano ogni nostra attenzione se sapessimo sentire e ascoltare. Noi non siamo in grado di vegliare nemmeno un minuto col povero Signore che agonizza con gli agonizzanti, fino alla fine del mondo. Ci siamo dimenticati che il vero atto cristiano ancor prima e ancor più di dare una mano al povero è quello di “prendere parte alla sofferenza di Dio nella vita del mondo”.4

“I poveri infatti li avrete sempre con voi e potete far loro del bene quando volete, ma non sempre avete me” (Mc 14,7). Siamo chiamati proprio coi poveri e grazie ai poveri a stare in guardia. Dietro gli occhi del povero che ci guarda e che siamo chiamati in qualche modo a consolare col nostro “bicchiere d’acqua” (Mt 10,42), c’è il Signore che non è più con noi ma che un giorno, quando magari meno ce l’aspettiamo, tornerà, a giudicare secondo giustizia chi tra noi è riuscito a essere pecora o capra, nell’arco della propria vita (Mt 25,31-46).

 

Daniele Garota

(2. fine)

 

1Miguel De Unamuno, Del sentimento tragico della vita,  SE, Milano 1989, p.186.

2 Vasilij Rozanov, La leggenda del Grande inquisitore, Marietti, Genova 1989, p.100.

3 Ernesto Sábato, Prima della fine, Einaudi, Torino 2000, p. 89.

4 Dietrich Bonhoeffer, Resistenza e resa, Paoline, Cinisello Balsamo 1988, p. 441.

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