Koinonia Marzo 2019


La Chiesa sinodale di papa Francesco

è una scelta politica

 

La parola che sintetizza la proposta di papa Francesco per la Chiesa e la società nella crisi della globalizzazione è sinodalità. In un momento in cui la dinamica politica in occidente si trova di fronte all’apparente e falsa alternativa tra appelli al popolo da una parte e difesa dello status quo con tutte le sue ingiustizie e ineguaglianze sociali ed economiche dall’altra parte, la Chiesa cattolica tenta di sottrarsi a questo vicolo cieco con una proposta che è teologica ma anche “politica” in senso alto. In una concezione di chiesa in cui il popolo è al centro, la sinodalità esprime un’idea di comunità ecclesiale ma anche umana, che si basa su alcuni valori non estranei al pensiero politico moderno: l’eguaglianza, ma soprattutto la fraternità – la promessa mancata della Rivoluzione francese.

Tipico della visione di Chiesa e di società di papa Francesco è il rigetto di tutti gli elitismi e i particolarismi. Ma la sinodalità necessita di forme concrete di elaborazione, formazione, ed espressione della partecipazione alla vita della comunità – forme che oggi stentano a concretizzarsi. È uno dei paradossi del pontificato di Francesco. In questi ultimi sei anni la chiesa cattolica ha vissuto i suoi momenti più intensi e decisivi per il proprio futuro nei Sinodi dei Vescovi convocati da papa Bergoglio: nel 2014-2015 su matrimonio e famiglia, nel 2018 sui giovani, nel 2019 sull’Amazzonia. Ma di natura sinodale sono stati anche in altri momenti, come la riunione straordinaria dei presidenti delle conferenze episcopali in Vaticano per la crisi degli abusi sessuali nella chiesa del 21-24 febbraio scorso.

Allo stesso tempo, i ripetuti inviti di Francesco alle chiese locali di aprire nuove vie verso una chiesa sinodale hanno trovato pochi vescovi e poche conferenze episcopali pronte ad accettare la sfida. Lo ha fatto, notevole eccezione, la chiesa cattolica in Australia, che dall’anno scorso è impegnata nella preparazione di un concilio plenario (nazionale) che verrà celebrato tra 2020 e 2021. In altre chiese, come in quella tedesca, i meccanismi di vita sinodale sono da sempre più forti che altrove. Quanto al nostro paese, è da qualche settimana che si discute dell’ipotesi di un sinodo nazionale per la chiesa italiana: con vistoso ritardo, a ben sei anni dall’inizio del pontificato sotto l’insegna della sinodalità.

È come se la tradizione della chiesa semper reformanda – sempre bisognosa di riforma - si fosse bloccata sul livello del riformismo, che è una categoria politica e non teologica, e tanto meno spirituale. Il problema non è, come è stato durante i pontificati di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, l’opposizione o lo scetticismo del Vaticano, che oggi con i suoi organi di elaborazione intellettuale – dai gesuiti di Civiltà Cattolica a L’Osservatore Romano – non teme di sponsorizzare la proposta. Il problema è una chiesa che stenta a ricollegarsi all’ultima stagione sinodale a livello nazionale, quella degli anni settanta, sotto Paolo VI e sulla scia del Vaticano II. Un sinodo sarebbe la risposta più alta possibile della chiesa alla crisi politica e morale che attraversa l’Italia. Ma vorrebbe anche dire riprendere in mano un filo spezzato, quello dei momenti più generosi della storia dei cattolici italiani verso il proprio paese.

 

Massimo Faggioli

in “www.famigliacristiana.it” del 28 febbraio 2019

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