Koinonia Marzo 2019


Migrazioni di massa

Conoscerne le cause per affrontare il problema

 

Molti stati europei (non tutti, perchè alcuni si illudono di risolvere l’emergenza del fenomeno migratorio con la vergogna dei muri) scelgono la via di un’accoglienza “selettiva”, non senza aver prima cercato di fermare la marea dei disperati che fuggono dalla fame firmando accordi con i governi africani che si impegnano di bloccarli alla partenza, o a mezza strada.

Lontani dagli occhi, lontani dal cuore. Se muoiono di schiavitù, di violenze, di torture che ci possiamo fare? Ma che almeno ciò avvenga lontano mille miglia da noi .

Sono da tempo tristemente noti i lager della Libia, dove vengono tenuti prigionieri migliaia di migranti. In tal modo viene loro impedito di proseguire il viaggio oltre il Mediterraneo. Ma l’accordo tra Italia e Libia per fermare il flusso migratorio in territorio africano non è l’unico. È del 2017 (Il Fatto Quotidiano, 16-2-19) un patto fra il nostro paese e la Repubblica del Niger che prevede forniture militari da parte del governo italiano, mentre il paese africano si impegna a fermare i migranti per poi rispedirli nei paesi d’origine. E tutto questo viene chiamato “sostegno umanitario”. L’ipocrisia non ha limiti.

Un giorno sì e l’altro pure siamo bombardati da spot “umanitari”: dando pochi spiccioli puoi curare un bambino africano, o permettergli di studiare. E alla TV passano immagini di bimbi denutriti, col ventre gonfio, la testa enorme e gli arti scheletrici. Il messaggio è sempre lo stesso: facendo loro del bene diamo il nostro contributo a debellare la fame del mondo. Ma questa è pura illusione. È come se si volesse svuotare il mare dell’ingiustizia col secchiello dei buoni sentimenti. Non vogliamo qui banalizzare la pratica dell’adozione a distanza che testimonia sentimenti umanitari apprezzabili. Vogliamo tuttavia evidenziare il rischio di un Occidente ricco che si lava la coscienza rimuovendo le cause reali di un’ingiustizia che assume dimensioni planetarie.

In realtà il dramma delle migrazioni di massa di questi ultimi decenni è figlio dell’ingiustizia elevata a sistema, e pertanto è irrisolvibile, almeno fino a quando non verrà messo in discussione il modello neoliberista che oggi domina l’intero pianeta (1): un sistema che teorizza le differenze economiche come stimolo alla crescita, e quindi come premessa di benessere e felicità per tutti.

Di fronte all’egemonia di questo “pensiero unico” ogni contestazione sembrerebbe inefficace. Le voci di dissenso, che qua e là si manifestano, anche se in leggera crescita da un po' di tempo in qua, sono ancora troppo deboli. Ma non dobbiamo darci per vinti.

L’analisi della realtà, un’analisi non condizionata da interessi di parte, deve ripartire dalle cause vere della povertà che non è una maledizione voluta da Dio, ma frutto di una ricchezza non condivisa, cioè dello sfruttamento dei pochi sui molti. Non occorre essere maestri del pensiero economico per capire che proprio un mondo fondato sul profitto individuale è la causa prima della catastrofe umanitaria rappresentata dai migranti dei paesi del Sud del mondo verso i paesi ricchi.

Il dominio del capitale finanziario, lo strapotere delle multinazionali che impongono i propri interessi agli stessi stati produce conseguenze nefaste per l’intera umanità. Per giunta le classi dominanti dei paesi del Sud del mondo, alleate subalterne del grande capitale internazionale, contribuiscono a garantire enormi profitti a vantaggio di pochi, facendo pagare alle popolazioni povere costi insopportabili: deforestazioni selvagge con conseguente desertificazione di interi territori; concentrazione delle terre nelle mani di pochi con la messa in crisi dell’agricoltura di sussistenza (unica fonte di reddito per i contadini poveri) e conseguente esodo dalle campagne e crescita esponenziale delle periferie urbane; guerre per bande per il controllo dei territori ricchi di minerali pregiati sono le cause prime che inducono un numero crescente di disperati ad abbandonare i propri paesi. A questo punto tanti abitanti delle nazioni ricche si sentono invasi e, rimuovendo le vere cause del problema, invocano la soluzione che sembra loro più semplice: praticare una politica di respingimenti o addirittura alzare muri per fermare l’inarrestabile invasione; e poi, quando questa è già in parte avvenuta, scaricano i propri disagi, il proprio quieto vivere minacciato, sui nuovi venuti, gli intrusi.

Risposte sbagliate. Se vogliamo andare alla radice del problema, dovremmo denunciare  e impedire lo sfruttamento feroce praticato da imprese pubbliche e private nei paesi del Sud  del mondo.

Limitandoci solo ad alcuni fatti ampiamente documentati che riguardano l’Italia, pensiamo alla Benetton, che ha ottenuto enormi concessioni nel sud del Cile per lo sfruttamento delle foreste, costringendo gli indios Mapuche, gli abitanti originari, ad abbandonare le proprie terre; o all’ENI che controlla l’estrazione del petrolio in vaste aree della Nigeria, con un impatto ambientale devastante che si riflette negativamente sulla popolazione locale; per non parlare di interessi industriali e commerciali legati alla produzione e vendita di armi a governi di paesi africani o del Medio Oriente: tutte cose che incentivano regimi autoritari e dittature. Si tratta di meccanismi economico-politici che, come in mille occasioni ha ribadito Papa Francesco, generano morte per tanti e imbarbarimento per tutti.

 

Bruno D’Avanzo

 

 

NOTE

 

1) Un progetto politico radicale realizzato per contrastare questo “disordine stabilito” (l’espressione è del pensatore cattolico francese Emmanuel Mounier) è stato il comunismo. Ma l’applicazione concreta di tale sistema quasi ovunque è stata fonte di oppressione e di inefficienza.

Maggiore fortuna hanno avuto le esperienze socialdemocratiche (o, in misura minore, socialcristiane). È grazie ad esse se molti paesi occidentali hanno avuto il merito di costruire uno stato che vedesse le singole persone come soggetti di diritti non solo civili, ma anche sociali. Oggi questo cammino nella direzione dell’uguaglianza, della solidarietà, della giustizia come condizione imprescindibile di una vera libertà sembra essersi arrestato. Molte delle “riforme” volute dal neoliberismo, in particolare  le privatizzazioni di molti settori di interesse pubblico, dalla sanità alla scuola, e nuove leggi del lavoro che indeboliscono la forza contrattuale dei lavoratori sembrano voler riportare indietro le lancette della storia di almeno un secolo.

.

.