Koinonia Gennaio 2019


Parole del Vescovo domenicano Pierre Claverie martire proclamato Beato l’8/12/2018

 

Il rischio della fede

 

Abbiamo pregato a lungo per la pace in Libano, poi in Sudan, Iugoslavia, Burundi e in  altri paesi dove ci sembrava che la ragione avesse perso il diritto di esistere.  Ci sembrava che quei paesi fossero in preda alla follia che s’impadronisce dell’umanità quando la volontà di potenza distrugge i fragili equilibri di coesistenza fra le persone e i gruppi. Questa coesistenza non è mai acquisita una volta per tutte e, quando la si rimette in causa, non trovando i canali necessari per arrivare a  nuovi equilibri, i rapporti di forza generano violenza. Una volta scatenato, il processo della violenza libera l’istinto di morte che le civiltà si sforzano di arginare e la barbarie  s’instaura là dove sembravano fiorire le più belle opere dell’umanità. Allora ognuno  trova per sé delle buone ragioni per utilizzare il terrore allo scopo di salvare la civiltà, le istituzioni, la coesistenza, i diritti delle persone e la loro libertà.

Abbiamo pregato a lungo poiché non capivamo perché e come mai dei paesi implodessero. Le passioni vi si scatenavano con tanta violenza da farceli ritenere irrimediabilmente perduti. Alcuni tentavano anche di analizzare le cause economiche, politiche e sociali, a volte etniche, di quei disastri. Ognuno aveva la sua spiegazione. Ma, prestissimo, un rovesciamento di alleanze, un negoziato imprevisto, un periodo di calma seguito da nuove fiammate, venivano a smentire gli oracoli dei politologi e dei polemologhi. Questo perché le società non obbediscono sempre e necessariamente alle leggi che vengono loro imposte: la loro memoria geologica  e le loro evoluzioni secolari contribuiscono a smentire le previsioni. La storia s’incorpora nel presente e si aggiunge ai fattori ordinari delle esplosioni sociali, dando loro un carattere surreale. E quando poi c›è di mezzo la religione, allora è l’Apocalisse.

Abbiamo pregato per la pace ed eccoci, a nostra volta, presi nel ciclone. Tutto faceva prevedere, in questi ultimi anni, che l’Algeria preparava il suo ingresso nel club dei “paesi a rischio”. Anche noi abbiamo a più riprese attirato l’attenzione su evoluzioni inquietanti: dalla pietosa campagna di islamizzazione (“Arringa per il rispetto”, Le Lien n°174)  con gli chioukh Mohammed  el Gazali e Didate fino agli appuntamenti mancati degli anni 1991-1992. Ci eravamo sforzati allora di discernere quali atteggiamenti ci venivano richiesti davanti alle provocazioni e soprattutto davanti al progressivo degrado del clima sociale, politico, umano, sullo sfondo di una crisi economica aggravata dalla corruzione e dalle manovre di un potere agli sgoccioli. Evidentemente non era nostro compito immischiarci nel dibattito politico, ma ci ricordavamo alcune linee di condotta per “andare avanti” .

Nel “Caos degli eventi” (Le Lien n°195), ci appellavamo al sangue freddo, alla tenacia, al coraggio, alla democrazia (“Democrazia impossibile?,  Le Lien n°194), contro la sacralizzazione della politica (“Il Dio della tribù” Le Lien n°191)), il totalitarismo religioso (“Conservare la ragione”, Le Lien n°199). Ci sembrava di vedere in quel caso un pervertimento della politica e della religione: la storia antica e contemporanea ce lo conferma abbondantemente, sia per quanto riguarda l’islam che per i regimi cosiddetti <cristiani>. Predicavamo il dialogo. Ci sembrava infatti che il rispetto e la dignità della persona passassero dal rispetto dei suoi elementari diritti, come la giustizia e la libertà. Ora, questi diritti, insieme ai doveri che presuppongono, non possono rafforzarsi ed essere riconosciuti che nel negoziato e nel dialogo. Non basta dire: “Tutti gli algerini  sono mussulmani” per dedurne che sono unanimi nel comprendere, vivere ed applicare la legge islamica. Il dibattito attuale, in Algeria come altrove, dimostra che su questo argomento, tra i mussulmani, regna la confusione.

Il dialogo non potrebbe essere una manovra per arrivare al potere o conservarlo? Se una delle parti la pensa così,  il dibattito politico risulta falsato. Il dialogo è uno spirito, un atteggiamento con il quale si fa posto all’altro, diverso da noi, perché si pensa che sia portatore di una parte della verità che ancora ci manca. Nel rapporto di forze che caratterizza la politica, è chiaro che il dialogo si traduce concretamente in un negoziato e nel rischio dell’alternanza. La democrazia è l’istituzionalizzazione di questo spirito. Non sarebbe possibile quindi dialogare con coloro che detengono la verità (divina) e il cui scopo è quello di imporla con le buone o con le cattive, al resto dell’umanità. E meno ancora con coloro che utilizzano le procedure democratiche per arrivare al potere o aggrapparvisi. Disgraziatamente ognuno sospetta l’altro di fare questo e i veri democratici arrivano al punto di sperare in una dittatura per salvare la libertà. E la violenza si allarga.

Per molto tempo abbiamo deplorato e condannato la violenza. Abbiamo sinceramente condiviso la sofferenza e il lutto degli algerini che per primi ne soffrono. Ed ora la cosa ci riguarda direttamente, siamo minacciati, non ancora in quanto cristiani, ma in quanto stranieri nella nostra comunità. Ciascuno reagisce a queste minacce secondo le sue convinzioni, i suoi impegni (professionali, familiari), il suo temperamento e la sua storia personale.

Ma poiché noi siamo cristiani, - sappiamo che la nostra fede comporta il rischio di essere esposti all’incomprensione, alla persecuzione, al pericolo, stando dalla parte della verità, della libertà, della giustizia in nome di Gesù (GV, 15-16) - sappiamo che “il discepolo non è più grande del maestro” (Gv,15-20) e che Gesù non ci ha mai promesso una vita facile, fatta di compromessi e di evasione, e neppure una felicità di paccottiglia e  di slogan pubblicitari (rileggere le Beatitudini in Mt 5). Ancor meno un “oppio” che ci dispensi dal guardare in faccia la realtà, mettendo a rischio la vita per lui e con lui.

Se abbiamo sognato una religione fuori del mondo, un rifugio morbido che ci risparmi  la sofferenza di esseri umani, ci siamo sbagliati di porta; basta guardare, ascoltare e seguire Gesù nella sua difficile lotta contro il “Principe di questo mondo” per realizzare che la fede è un rischio. Da un lato ci espone alla contraddizione e alla croce, dall’altro non ci offre soluzioni già pronte ai conflitti in cui siamo immersi.

In questo momento difficile, non ci resta che vivere, perseverare negli impegni che abbiamo preso, nei convincimenti e nelle solidarietà acquisite nell’esperienza di una Chiesa che ha attraversato altre bufere. Essa ha imparato dalla storia a correggere i propri errori e le proprie debolezze, i tradimenti di un Vangelo  messo sotto il moggio per il timore di perdere la propria tranquillità e il proprio interesse immediato: “Non temete quelli che possono uccidere il corpo, ma non possono uccidere l’anima” (Mt 10, 28). In altri tempi e in altre tempeste, Paolo scriveva: “Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? Ma in tutto ciò noi siamo più che vincitori, grazie a colui che ci ha amati. Sì, io sono persuaso che né morte, né vita, né angeli, nè principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezze, né profondità, né alcun altra creatura, niente potrà separarci dall’amore di Dio, manifestato in Gesù Cristo nostro Signore” (Rom.8, 35-39).

È la speranza e il rischio della fede.

 

Pierre Claverie

Le Lien n°217, novembre 1993

(traduzione dal francese di Donatella Coppi)

.

.