Koinonia Dicembre 2018


La parola a Daniele Garota

 

MARTA E MARIA (II)

 

Parte seconda: Gli occhi del Messia

 

Ma seguiamo ancora Kierkegaard, nelle sue argomentazioni, perché è andando ancora più in profondità che egli ci aiuta a comprendere perché Maria, ascoltando Gesù, guardandolo in volto mentre egli parlava come innamorata di lui, si è presa la parte migliore, quella che nessuno potrà mai toglierle in eterno, perché con Gesù si entra nientedimeno che nell’eternità del mondo redento.

Ecco cosa ancora dice Kierkegaard prendendo il discorso alla larga: “All’ipocrita che domandava fu data la risposta che meritava, non quella che desiderava; non ricevette una risposta che potesse nutrire la curiosità e nemmeno che egli potesse divulgare; infatti quella risposta, quando viene poi riferita ad altri, possiede come proprietà caratteristica  di catturare immediatamente il singolo cui viene partecipata, di catturare lui personalmente … La risposta cattura colui cui viene riferita impegnandolo per il compito … L’autorevolezza divina è come un occhio limpido; costringe anzitutto l’interpellato a guardare chi è che gli ha rivolto la parola, e fissa su di lui il suo sguardo penetrante, e con questo sguardo gli dice: sei tu quello a cui parlo. Per questo gli uomini amano tanto pensieri ingegnosi e profondi; infatti con questi si può giocare a mosca cieca, mentre si ha paura davanti a chi ha autorevolezza”.

Ecco Maria non aveva paura di ascoltare Gesù guardandolo negli occhi, mentre Marta ai fornelli, pur facendo una cosa buona e necessaria come preparare il cibo quotidiano e la tavola, rischiava di perdere la parte migliore, quella degli occhi del Messia che ti guarda parlandoti del Regno di Dio e della sua giustizia, assegnandoti il compito, quello vero. Non si ascolta infatti qualcuno che ti parla se ci si sta occupando di altro, se non lo si guarda negli occhi: solo con lo sguardo attento possiamo cogliere l’essenza e la preziosità di quel che solo con gli occhi siamo capaci di esprimere davvero. Noi nelle nostre società dell’affanno e fin dentro le nostre case e famiglie facciamo forse più che mai esperienza del dialogo fra sordi, senza comprendere di come molto spesso la parola non riesce a essere espressa da chi ci sta vicino e ha bisogno di noi, semplicemente perché non abbiamo tempo e attenzione per ascoltarlo, guardarlo negli occhi.

Ma Kierkegaard va ancora più a fondo, e prende addirittura in esame, oltre alla pericolosità del troppo affanno di chi non ha mai tempo, quella di chi ne ha troppo, quella di chi dopo avere atteso troppo a lungo finisce per concedersi “alla curiosità, alla pigrizia, all’egoismo”, poiché davvero l’attesa è un compito tra i più difficili per il credente. L’ardore di un momento può diventare presto delusione - dice Kierkegaard - una vampata momentanea può lasciare spossati, un salto in avanti può portare indietro, un’anticipazione indebita può ritardare e frenare, un’introduzione con tutte le premesse potrebbe anche non portare alla cosa che ci si aspetta. Insomma occorre molto amore e molta prudenza per non lasciarsi ingannare nell’attesa.

E soprattutto, dice ancora Kierkegaard, l’amore e la perseveranza non siano mai affette da “affaccendamento, meno che mai da un affaccendamento mondano; e mondanità e affaccendamento sono concetti inscindibili … Chi si occupa solo dell’eterno, incessantemente, in ogni attimo, se mai ciò fosse possibile, costui non è affaccendato. Se dunque ci si occupa dell’eterno, allora non si è mai affaccendati … Essere affaccendati vuol dire essere occupati nella divisione e nella dispersione … L’amore cristiano … è tutto agire; è altrettanto lontano dall’inattività quanto dall’affaccendamento. Non si fa carico di nulla in anticipo né fa promesse al posto dell’azione; mai si ritiene contento nell’illusione di aver compiuto l’opera; mai indugia nell’autocompiacimento; mai siede ozioso in ammirazione di sé. Non è quel sentimento nascosto, recondito, misterioso che sta dietro la grata dell’inspiegabile, e che il poeta vorrebbe attrarre alla finestra; non è un sentire dell’anima, che da viziato non conosce né vuole legge alcuna, o che vuole avere una sua propria legge e presta ascolto solo a canti: esso è tutto agire, ogni suo atto è sacro, perché è il compimento della legge”.

Nel Cristo “l’amore fu tutto agire”. Anche quando piangeva agiva, anche quando stava in silenzio agiva. Era Verità in carne e ossa, Verità che agiva in ogni momento sulla terra. Egli “non si concentrava in singoli momenti, come se le ore della vita quotidiana non fossero tenute a soddisfare le esigenze della legge; era uguale in ogni momento; il suo amore non fu più grande quando spirò in croce di quando nacque; fu il medesimo amore che disse ‘Maria ha scelto la parte migliore’, e il medesimo amore che con uno sguardo punì Pietro – o gli perdonò; fu il medesimo amore che accolse i discepoli che a lui ritornavano lieti per aver compiuto miracoli in suo nome, fu il medesimo che li trovò addormentati”.

Dio è amore e tutto si gioca sull’amore. Quello di Gesù, dice Kierkegaard, fu amore che non fece differenze, “nemmeno quella delicatissima fra sua madre e gli altri uomini; infatti, indicando i suoi discepoli disse: ‘Questi sono mia madre’ (Mt 12,46) … Suo unico desiderio è che tutti diventassero suoi discepoli” Il suo fu amore “uguale nei confronti di tutti gli uomini nel volerli tutti salvare, fu amore uguale nei confronti di tutti quelli che volevano lasciarsi salvare. La sua vita fu tutta amore, e tuttavia essa, tutta intera, non fu che un’ininterrotta giornata di lavoro”. Aveva fretta Gesù di compiere le opere del Padre che lo aveva mandato finché era giorno. Poi sarebbe venuta “la notte, quando nessuno può agire” (Gv 9,4).

Certo, si deve temere di pronunciare così tanto di seguito la parola amore: in troppi sempre ne parlano e a furia di utilizzarla in tutte le salse ne ha fatto perdere l’efficacia. Ma qui possiamo e dobbiamo usarla, perché si tratta di Gesù, del Dio-uomo, e tra noi e lui c’è un “eterno abisso”, un abisso che non possiamo comprendere ma solo credere, con tutto l’amore di cui siamo capaci, in attesa di vedere con i nostri occhi gli occhi di quell’uomo. Che è Dio!

A volte ci è dato il dono di intuire qualcosa di questo uomo, magari conversando con dei fratelli o delle sorelle, o trovandoci a contatto con la Parola, sono momenti che ci riempiono il cuore di  coraggio e di luce in mezzo alla notte del mondo, nella quale crediamo cercando Dio, “tastando qua e là come ciechi”, sebbene “non sia lontano da ciascuno di noi”, come disse Paolo ai filosofi di Atene, nel luogo in cui non vi era passatempo più gradito che quello “di parlare o ascoltare le ultime novità” (At 17,21-27).

Duro è continuare a credere quando da troppo tempo la “Luce del mondo” (Gv 9,5) non è più tra noi. Ci sono cose che un uomo riesce a comprendere in un particolare momento di lucidità e forza interiore, “ma un momento dopo – dice ancora Kierkegaard - può non comprenderlo più, e per questo deve credere e tenersi stretto alla fede, se non vuole che la sua vita divenga confusa per il fatto che in un certo momento comprende e in molti altri momenti non comprende”.

Nel rapporto tra la fede e il nostro necessario agire non ho in mente parola più chiara di quella in cui Gesù dice: “Quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: ‘Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare’” (Lc 17,10). Qui non è indispensabile il fare, il fare tutto e bene fino alla fine, qui è indispensabile davanti al Signore la cosa più difficile di tutte: dire umilmente a se stessi e al mondo che magari ci applaude per la nostra bravura nel compiere il nostro dovere: siamo inutili. Se Maria si è scelta la parte migliore è solo in questo senso. Solo ascoltando la Parola e credendo nella sua potenza ci si rende conto che il nostro fare è un niente rispetto a quello di cui ci sarebbe bisogno e rispetto a quello che ha promesso di fare Dio.

Ma per concludere ascoltiamo ancora Kierkegaard: “Utilizza pure una decima parte di quella forza che ti è stata concessa, quando la usi allo stremo delle forze; gira poi le spalle a Dio e confrontati con gli uomini – e tu in brevissimo tempo eccellerai tra di loro. Ma rigirati, volgiti a Dio, usa tutte e dieci le parti, lambiccati per trovare se possibile una risorsa estrema – e ciononostante tu sarai come un nulla, resterai a un’infinita distanza dall’avere raggiunto qualcosa, e sarai in una situazione di debito infinito”. Insomma, egli dice: “Se tu vuoi godere di giorni lieti, ed insieme arrivare facilmente ad essere qualcuno, allora dimenticati di Dio… e immergiti nel chiasso della folla, ridi o piangi, affaccèndati da mane a sera, sii amato e considerato e stimato come amico, funzionario, re, becchino, sii anzitutto un uomo serio – per aver dimenticato l’unica cosa seria, il rapportarsi a Dio, il diventare nulla” (Gli atti dell’amore).

La parte migliore di Maria è l’attaccamento viscerale alle parole e allo sguardo di Gesù che annuncia con forza la sola cosa necessaria, l’attesa del Regno di Dio e della sua giustizia, un’attesa che dovrebbe essere nostra ancora oggi se riuscissimo a vivere fino in fondo da credenti. E “non si tratta di un’attesa vuota, passiva, cava, sonnolenta. Un’attesa nella quale ci si cristallizza. L’attesa è centomila volte più difficile dell’azione”, dice Jacques Ellul. Per questo “bisogna che i cristiani comprendano che la sola cosa utile, indispensabile per il mondo, è ritrovare l’attesa combattiva e bruciante”.

Di là c’è Marta tutta presa dal prepararci il pranzo? Ci sono coloro che s’organizzano per recare aiuto ai poveri o combattere le ingiustizie che ci sono nel mondo o per la riforma della Chiesa? Vanno aiutati e rispettati per carità. E tuttavia per il credente che attende altro non sono che “diversioni, delle trappole per distrarci dall’attesa esclusiva e centrale, ostinata, entusiasta … È evidente che le vergini che serbavano le lampade accese facendo provvista d’olio, agivano in modo assurdo e ridicolo per coloro che ignoravano l’effettiva possibilità del ritorno dello sposo. C’erano centomila cose più utili da fare nella casa”, ma per le vergini sagge “niente contava di fronte alla gioia del Signore atteso e alla gioia dell’eventuale incontro”, conclude Ellul (La speranza dimenticata).

 

Daniele Garota

(2. fine)

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