Koinonia Novembre 2018


IL TRIBUNALE DEI POVERI

 

Nel nostro tempo c’è uno strano fenomeno: quanto più i credenti tentano di sfuggire alla morsa della storia per ritrovare una religione tranquilla e tranquillante, tanto più l’avvenimento politico - là dove la storia fa nodo e diviene provocazione - li mette sotto giudizio e pone in crisi la loro fede. Così diventa sempre meno possibile sfuggire il confronto tra fede e politica. Ormai credere e non credere, fedeltà e rinnegamento, insomma «adorazione di Dio» e «idolatria» non si manifestano più attraverso dichiarazione di principio e confessioni di dogmi: sempre più senza scappatoie si precisano nei fatti quotidiani e nelle scelte concrete.

Un evento sempre più coinvolgente, davvero «segno dei tempi», è che dinanzi all’universale tribunale dei poveri - coloro che, anche senza parlare o fatti tacere, costituiscono il giudizio incombente sulle nostre cronache e sulla nostra storia - assieme a tutti i poteri e le dittature di ingiustizia e di violenza, viene processata e condannata la cosiddetta «civiltà cristiana» e quindi la fede cristiana e le chiese dei credenti.

<…> Noi credenti e le nostre chiese avvertiamo questa apocalittica sfida alla nostra fede? Da che parte stiamo? Siamo noi vigilanti, capaci di giudicare e resistere e scegliere? Abbiamo la lucidità di non cadere nei tranelli complicati e raffinati di questa Bestia tentacolare che anche della religione sa fare un’arma per scatenare paura e ottenere passività, obbedienza, complicità?

Ma le nostre chiese occidentali sono ancora preoccupate di denunciare “il peccato del mondo” senza avvertire che è proprio il loro “peccato contro il Vangelo” che le rende complici e impotenti di fronte alle strutture mondiali di peccato.

Invece delle battaglie necessarie e urgenti - «questa è l’ora delle tenebre» - sprechiamo tempo, mezzi, uomini in battaglie sbagliate, inutili, di retroguardia. Non sappiamo né adorare Dio né difender l’uomo. Non siamo più credenti ma superstiziosi nelle liturgie e idolatri nella storia

<…> «Viene lora in cui gli adoratori del Padre lo adoreranno in spirito e verità» (Gv 4,21). «Chi dice di amare Dio che non vede e poi non ama il fratello che vede, è bugiardo» (1Gv 4,20). Sono le parole assolute che fondano la fede cristiana e impongono l›unico comandamento evangelico. Sono le parole che pongono ogni credente e ogni chiesa nell›unica alternativa che decide poi di tutte le altre scelte. II sì e il no evangelico: Dio o Mammona, Cristo crocifisso o il dominio, l›uomo o il sabato, la Morte o la Resurrezione, il Regno di Dio o il regno dell›uomo, la libertà dei figli di Dio o la schiavitù di «colui che fin da principio è omicida».

Il nostro non è più tempo di piccole e parziali eresie, perciò non servono né intelligenti aggiornamenti né aggiustamenti teologici. Il dramma e la grandezza della coscienza cristiana passa attraverso la fedeltà totale o l›idolatria e l›apostasia totale.

«Ecco luomo», disse Pilato e non sapeva di proclamare anche: «ecco Dio». Nel tribunale, ieri di Gerusalemme, oggi di tutte le Babilonie, Dio viene ucciso nellUomo, quando un uomo viene schernito, tradito, flagellato, venduto, annientato nel corpo e nello spirito. QuellUomo è luomo universale, sulla cui carne la tortura scrive a sangue i diritti inviolabili di Dio. Quelluomo è ogni uomo attorno al quale fanno congiura sinedri, pilati, erodi perché «sobilla il popolo». «E necessario che un uomo muoia per la salvezza del popolo», dichiara il gran sacerdote Caifa: l’immancabile ipocrisia di tutti i grandi per continuare ad assassinare il popolo in nome del popolo.

È la profezia della Bestia che si scontra con la profezia del Risorto: «Sono venuto a servire non per essere servito... e perché abbiano la vita in abbondanza».

Dinanzi alle chiese dei «martiri anonimi» - di cui il vescovo Romero e Marianella Garcia sono le insegne insanguinate - anche se si finge di non capire, sta sotto processo soprattutto la universale coscienza cristiana. Non solo perché a volte governi criminali si professano con ostentazione cattolici e credenti: la cosa più grave è che essi si vantano, senza alcun pudore, di difendere il cristianesimo contro la distruzione dell’ateismo. Dinanzi a questo tribunale della coscienza umana le chiese tutte devono rispondere, anche se non interpellate direttamente.

Chi credono? Il Dio di Abramo, il Dio dei viventi, il Dio di Cristo crocifisso e risorto? oppure credono nelle false divinità della razza, della nazione, della patria, del profitto, del privilegio, della menzogna fatta verità ufficiale?

Chi sperano? Il Dio del futuro, affidato alla speranza del Risorto che cammina sempre avanti a sovvertire tutte le sicurezze strutturate, i progetti calcolati, le ingiustizie legalizzate? oppure sperano nell’avvenire della legge, dell’ordine difeso dal diritto della forza e della violenza? oppure nella abilità macchiavellica dei trattati e delle alleanze?

Chi amano? Dio «con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutta l’intelligenza e con tutte le forze» al di sopra di tutti gli idoli? amano l’immagine vivente di Dio al di sopra di tutte le statue e i monumenti dei potenti? oppure amano soltanto se stesse al di sopra di tutto? con il pretesto di amare tutti non amano forse più nessuno?

Urge rispondere senza sottigliezze e senza scappatoie: urge il sì e il no. Forse è l’ultima occasione di questa maledetta civiltà cristiana, perché «il sale riprenda il suo sapore e non sia gettato via per essere calpestato».

«Se qualcuno ha orecchie, ascolti. Se taluno tiene altri in schiavitù, in schiavitù vada; se taluno uccide di spada, di spada sia ucciso. Qui sta la costanza e la speranza dei santi» (Apoc 13,10).

 

Umberto Vivarelli

da “La cattedra dei poveri”, ed. CENS 1984, pp.81; 84-85; 86-88

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