Koinonia Novembre 2018


CHI DICE CHIESA DICE ACCOGLIENZA:

ma tra vangelo e legge c’è “concordia discors

 

Le  parole, come si sa, sono il frutto e lo strumento di pensieri, sentimenti e di tutte le loro variazioni: insomma di quanto rientra nella esperienza delle cose e di sé. Ma tutto questo non è poi così scontato, perché è qui l’ago della bilancia del nostro rapporto con la realtà, e se non ne siamo consapevoli (quasi una torre di controllo!) rimaniamo vittime o di un nominalismo vuoto (parole flatus vocis) che svuota ogni comunicazione, o di una cosificazione ottusa (quando le parole sono pietre) che la rende impossibile.

Scusate questa premessa a sfondo filosofico, ma è per venire a noi per tentare un discorso impegnativo, riallacciandomi a quanto abbiamo vissuto nell’ultimo incontro di Koinonia il 28 ottobre, in numero ridotto ma con lo spirito aperto a tutti. Per dire insomma che cerchiamo sì di usare le parole per comunicare, ma che queste parole non sono questione di vocabolario, temi da trattare, argomenti da approfondire, ma vogliono essere lo specchio e l’alimento di una comunicazione di “spirito e verità”, e cioè di un’amicizia e di una fraternità che siano irradiazione dell’amore di Cristo diffuso nei nostri cuori mediante la fede (Gal 4,6; Ef. 3,17).

La riflessione di Maurizio Valleri, a partire dal testo di Giuseppe Barbaglio, ci ha coinvolti nella “povertà di Cristo” come via di comunicazione della salvezza e quindi del vangelo. Viene da ripensare a tanti anni fa, quando parlando di “evangelizzazione ed evangelismo” si diceva: “il vangelo evangelicamente”! E cioè per quella via della povertà che è in qualche modo formalizzata al n.8 della Lumen gentium con questa estrema chiarezza: “Come Cristo ha compiuto la redenzione attraverso la povertà e le persecuzioni, così pure la Chiesa e chiamata a prendere la stessa via per comunicare agli uomini i frutti della salvezza”.

È qualcosa che ci stiamo ripetendo da tanto tempo e si continua a parlare di “chiesa dei poveri” come una meta sognata o un tema da riprendere, grazie anche all’orientamento pastorale di Papa Francesco. Grazie al servizio di rassegna stampa di “incontri di finesettimana”, vedo che su Vita pastorale di novembre ne parlano Enzo Bianchi, Dario Vitali e Roberto Repole, a dimostrazione che il fuoco sotto la cenere è sempre acceso, ma qualcuno potrebbe ripeterci: “Sono venuto a portare il fuoco sulla terra; e come vorrei che fosse già acceso!” (Lc 12,49)

Quindi si tratta di dare seguito a questa azione nel mondo, in modo che il fuoco dello spirito - ripensiamo alla Pentecoste - prenda corpo e assicuri la necessaria propagazione come in un incendio! È a questo che vogliamo prestarci, ed è chiaro che non avviene riscaldandosi al fuoco (pensiamo a Pietro nell’atrio del Sinedrio), ma producendolo: “Il mio cuore ardeva dentro di me; mentre meditavo, un fuoco s’è acceso; allora la mia lingua ha parlato” (Sal 39,3). D’altra parte, leggiamo in Matteo 3,11 le parole di Giovanni il Battista: “Io vi battezzo con acqua, in vista del ravvedimento...egli vi battezzerà con lo Spirito Santo e con il fuoco”.

In effetti, se proviamo ad avere un cuor solo e un’anima sola, perché questo è il punto, non è grazie a strutture istituzionali ed organizzative, né per una collocazione di potere, ma in forza di una comunicazione interpersonale e interattiva, del tutto libera ed aperta: in forza appunto dello Spirito di Cristo di cui sentiamo la voce, pur non sapendo di dove venga e dove ci porti (cfr Gv 3,8). C’è una preghiera che rende al meglio questo stato di cose: “Vieni Spirito Santo, riempi i cuori dei tuoi fedeli e accendi in essi il fuoco del tuo amore, tu che dalle molteplici diversità della terra hai radunato le genti nell’unità della fede”! È solo devozione spicciola o è verità profonda? Ci viene fatto capire che non possiamo sentirci a posto grazie ad una legge o ad ordinamenti rassicuranti, ma in forza di una fede che ci anima!

La dimostrazione che c’è questa fascia infrastrutturale dell’esistenza e quindi della vita di fede l’abbiamo avuta dalla testimonianza di Maria Renzi, che ha attivato un processo di solidarietà e di volontariato a servizio dei poveri sul piano umano ed evangelico al di fuori di ogni struttura ed organizzazione specifica, salvo il minimo di condizioni legali necessari (il fatto di costituirsi in associazione). È anche la dimostrazione che «la c’è la Provvidenza!».

È precisamente a questo livello che vive Koinonia come spazio libero di solidarietà, di comunione e di cooperazione, nella convinzione appunto che se la carità alla fine è ciò che rimane, essa è anche ciò che c’è all’origine come linfa vitale e come spirito vivificante, quali che siano gli itinerari e i percorsi in cui si avventura. È questo il lucignolo da non fare spegnere e la lampada accesa con cui accogliere l’arrivo dello sposo! Qualcosa che è nel cuore e nelle attese di ciascuno, prima d’essere qualcosa di organizzato.

Ebbene, dove ci vuole portare questo spirito in questo particolare momento, sempre nella direzione di una fede povera? Forse verso una coscienza più evangelica davanti all’esodo di popoli e al dramma delle emigrazioni che non è solo “questione immigrati”, ma investe il modo di sentire e di essere dell’intero Popolo di Dio. Ecco, forse siamo chiamati ad interrogarci su questa situazione, per dirci quale debba e possa essere la nostra risposta di spirito e di azione, senza confusione tra la sfera del credere e dell’agire.  Per questo l’interrogativo da porsi è: se debbano essere cristiani maturi a fare accoglienza o se sia l’accoglienza a decidere dell’essere cristiani.

Si ripropone inevitabilmente, come sempre, la questione della fede e delle opere, che non va sottovalutata o data per risolta in un senso o nell’altro. Tra queste due sfere c’è una sorta di “concordia discors”, nel senso che c’è convergenza ma non polarizzazione o appiattimento dell’una sull’altra. A quanto mi risulta, le cose si presentano in questa maniera: da una parte c’è una fede totalizzante che si risolve tutta in se stessa come devozione, osservanza, pratica, appartenenza in senso tradizionalmente religioso; dall’altra c’è invece la convinzione che tutto il vangelo si risolva in specifiche azioni di solidarietà a carattere o politico o sociale indipendentemente dal credere in senso pieno. Sono due mondi che coesistono ignorandosi o confliggendo, contenti tutti di trovare aggiustamenti provvisori, senza mai porsi il problema di fondo per una immagine pubblica di chiesa come “chiesa dei poveri” nel suo stesso modo di essere prima che per le sue opere e organizzazioni di beneficenza.

Ritrovarsi e volersi impegnati a riconoscere l’irriducibilità del “credere al vangelo” come fonte originaria dell’agire secondo il vangelo è per la verità un’impresa improba e perdente: ma forse è questa la nostra prima povertà di se stessi con cui poter fare ricchi gli altri. Perché è questo l’esempio e il mandato di Cristo!                                               

 

Alberto Simoni op

  

 

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