Koinonia Novembre 2018


Postfazione di Antonio Schina al libro di Jacques Servien

L’esperienza cristiana dell’Isolotto, libriliberi 2018, pp.105-112

 

«MA VEDERLI VIVERE È SORPRENDENTE»

 

Colpisce,  nel leggere finalmente nella meritoria traduzione in italiano il testo di Jacques Servien, in realtà Philippe Renard,  a ormai mezzo secolo dalla sua uscita in francese nelle Éditions du Seuil, la determinazione della  sua analisi attraverso cui cerca di capire la realtà dell’esperienza dell’Isolotto.   Pur da un punto di vista che a prima vista potrebbe sembrare lontano: non è un giornalista professionista, viene dalla Francia, da una realtà ecclesiale molto diversa. E tuttavia ha dalla sua l’esperienza di uno  studioso a livello universitario della realtà italiana, non solo nel suo campo specifico, la letteratura,  ma anche a livello sociale e politico.

Non a caso, proprio all’inizio del  libro,  sostiene  che “l’Isolotto non è nato dal nulla. Il seme fu gettato quasi mezzo secolo fa”: appunto scegliendo, con assoluta correttezza, di evitare di limitarsi al resoconto di quanto accade nel quartiere fiorentino, e quindi di non capire o capire molto poco, come accadrà a tanti  giornalisti che in quei mesi scriveranno fiumi di inchiostro, ma mai arrivando  a comprendere l’essenza dell’esperienza, i suoi fondamenti, le sue   origini, che sono frutto appunto di un lungo processo  che è iniziato negli anni ‘30 del ‘900. Né hanno senso per lui i riferimenti alla “tradizione mistica e protestataria della città”, al Savonarola, ai francescani spirituali  o al mondo magico contadino, che da varie parti si vanno a cercare.

Conta per lui quella determinazione di cui si parlava sopra, che a volte può sembrare un po’ perentoria ma che in realtà è frutto di una ricerca attenta, che gli consente poi di assumersi la responsabilità delle interpretazioni che fornisce.

Servien parte  da una  bella immagine del cattolicesimo italiano come “immenso serbatoio che fa acqua da tutte le parti, ma nel quale convogliano nuove fonti”, per arrivare a indagare “il rinnovamento cattolico che caratterizza Firenze da una trentina d’anni”. E si sente che non lo fa limitandosi a leggere i testi ma andando sul campo, con un reportage sempre vivace e incisivo, per prima cosa ricostruendo il quadro della Chiesa fiorentina di quegli anni, ma anche della realtà sociale e politica in cui essa si muove.

Perché Servien intuisce quanto sia importante conoscere e ricostruire la pratica, le iniziative concrete, la capacità di stabilire legami con il popolo che stanno alla base di questo rinnovamento, che appunto vanno non semplicemente lette nei testi ma viste nelle realizzazioni, nei luoghi segnati dalla presenza di queste figure, attraverso, quando è possibile, il dialogo, il confronto, non la semplice intervista.

Inizia raccontando la vicenda di Giulio Facibeni, la cui caratteristica è quella di “una pietà tradizionale di base arricchita da una chiara coscienza delle esigenze del suo tempo”. La  sua figura sarà al fondo delle esperienze  come quelle di Alfredo Nesi e di Bruno Borghi, che, pur  con conoscenze più precise delle strutture gerarchiche e della condizione operaia, avranno sempre  a riferimento questo prete “educatore dei poveri”.

Prosegue con il cardinale Elia Dalla Costa, di cui, al di là di aspetti anche contraddittori, Servien  individua come centrali il coraggio “in un’epoca in cui la gerarchia ecclesiastica si rifugiava nella prudenza”  e   la “preoccupazione di non separare la Chiesa dal mondo del lavoro”. Coglie il legame stretto tra Dalla Costa e Giorgio La Pira: entrambi radicati nel nucleo profondo della  fede, entrambi attenti a capire l’evoluzione del tempo. E non a caso il cardinale sarà sempre solidale con le iniziative del “sindaco dei poveri”: dall’impegno diplomatico  al sostegno al modo operaio, alle requisizioni delle case per gli sfrattati, alla costruzione di un quartiere come quello dell’Isolotto

Colpisce come nel libro si dia rilievo ad una vicenda apparentemente secondaria, ma in realtà essenziale, per capire i mutamenti in corso nella Curia fiorentina e il profilarsi all’orizzonte di tensioni e poi di un vero e proprio scontro, che avrà effetti anche nella vicenda dell’Isolotto: il rinnovamento operato, come rettori,  prima da Enrico Bartoletti, poi da Gino Bonanni all’interno del Seminario, ostacolato duramente dal nuovo vescovo, Ermenegildo Florit, che allontanerà entrambi, ma non potrà impedire il formarsi di una generazione di sacerdoti con grande apertura mentale, interessi sociali sempre più radicati, un’ ottima capacità di relazionarsi tra loro e con gli altri.

È nel secondo capitolo, “Uomini in ricerca”,  che emerge con maggior nitore la capacità di Servien di calarsi nelle vicende, passando  in rassegna esperienze diverse,  che pure come vedremo hanno sempre un tratto, un agire comuni, della  generazione dei preti che provano ad “essere nel mondo senza essere del mondo”.

E c’è da immaginarselo Servien nella sede un po’ buia e austera di “Testimonianze” di quegli anni, in via Gino Capponi 36, a due passi della sede della rivista  lapiriana “Cultura”, anche casa editrice, in quel triangolo che comprende agli altri estremi la basilica di San Marco, dei  domenicani, e la basilica  della Santissima Annunziata, dei padri serviti. E accanto le sedi delle facoltà più importanti: Architettura, Legge, Scienze politiche, Lettere e  Filosofia. Ad ascoltare la prosa immaginifica di Ernesto Balducci e la vis polemica, sempre brillante, di Danilo Zolo, dal  1958 giovanissimo  direttore della rivista, già consigliere comunale della Dc, vicino  a La Pira e ora nel 1968, dimissionario dalla direzione, sempre più orientato su posizioni marxiste (1). Servien coglie i tratti del confronto che sta  avvenendo proprio in quel momento, tra che sostiene la necessità di mantenere alla rivista un orientamento politico, in linea con l’enciclica  “Pacem in terris”, anzi rafforzandolo sul modello della francese “Esprit” e chi invece pensa sia necessario riportarla ad un percorso prevalentemente ecclesiologico, come poi effettivamente accadrà.

Del servita Giovanni Vannucci, Servien vede la sua idea di nuovo monachesimo, con il fine di reimparare “il linguaggio eterno dell’autenticità evangelica”,  nella concreta realizzazione dell’eremo delle Stinche, nel Chianti fiorentino: è colpito dal lavoro di restauro recentemente compiuto dai monaci con l’aiuto dei contadini della zona (molta acuta e assolutamente veritiera l’osservazione che ”un contadino toscano assomiglia in tutto a un muratore”), dall’equilibrio tra lavoro intellettuale e lavoro manuale, dallo stretto legame con gli abitanti del luogo, fondato sul piano dell’aiuto reciproco.

La figura di Lorenzo Milani appare delineata con una partecipazione minore rispetto alle altre, forse per l’impossibilità di vedere concretamente all’opera la scuola di Barbiana e di incontrare il suo fondatore, scomparso nel 1967: E tuttavia  viene compresa nei tratti essenziali la sua figura, considerando la vicinanza temporale con gli avvenimenti che lo hanno reso protagonista, a partire dalla secca affermazione : “Don Milani dà fastidio e ancora più dopo la sua morte”. Sono fondamentali per Servien perché contribuiscono al cambiamento della realtà , che sembrava destinata a restare ferma a tempo indeterminato, il contributo realizzato con Esperienze pastorali alla comprensione della Chiesa ma ancor più forse della società di quegli anni e l’idea di una scuola “classista” al contrario di quella esistente,  che colmi “l’abisso di differenze”.

Sicuramente Servien va a Quintole, nel comune dell’Impruneta, ad incontrare Bruno Borghi (2) che definisce “un uomo dolce” ma assolutamente determinato, nel suo passaggio dall’iniziale desiderio di “manifestare una presenza della Chiesa nel mondo del lavoro” alla constatazione netta della divisione del mondo in sfruttati e sfruttatori, e alla conseguente azione che mai sarà imprigionata in una ideologia, ma sempre finalizzata a “liberare i poveri”. I colloqui con Borghi saranno molto utili a Servien  per capire meglio la realtà dell’Isolotto, specie per quanto riguarda la fase del confronto/scontro con il cardinale Florit, per le sue considerazioni anche critiche, ma sempre accompagnate da una solidarietà attiva, da “fratelli”. 

Parlare dell’Isolotto vuol dire, per Servien , intuire preliminarmente  la sua dimensione nuova:   essere “popolo di Dio”, che pratica ”un nuovo modo di vivere la Chiesa, praticamente senza modello e senza sostegno”. E’ il superamento del cattolicesimo tradizionale, il che porta gli isolottiani  a “ridurre la frattura esistente tra le loro scelte e la loro fede”, a non essere più cristiani per tradizione, ma per un’esigenza sentita.

La figura di Enzo Mazzi viene delineata a partire  dal precoce rifiuto di diventare un parroco come gli altri per arrivare al sorriso stupito  attuale “per l’avventura nella quale si è imbarcato”, visto nella realtà concreta nella casa dove Enzo vive, dopo aver lasciato la parrocchia, con Sergio Gomiti e Paolo Caciolli,  “attraversata” dagli abitanti del quartiere in continuazione. Perché appunto per capire l’Isolotto non serve soltanto leggere le prese di posizione ma soprattutto far parlare i suoi abitanti con “i fatti della vita”. 

Servien è colpito tantissimo dall’impegno concreto, non a parole, che si articola in tante iniziative : dalla casa famiglia per minori orfani e in difficoltà alla creazione del comitato di quartiere  per gestire il dopo alluvione, dalla scuola popolare al laboratorio per disabili, alla solidarietà con il movimento operaio che vuol dire anche organizzazione delle mobilitazioni.

Servien ricostruisce accuratamente i fatti partendo dal settembre 1968 e arrivando alla primavera del 1969 e conclude, a  vicenda ancora aperta e prevedibilmente lunga, con una efficace considerazione: “Se è facile disarmare dei combattenti, è più difficile soffocare la voce degli umili”.

Ora, a cinquant’anni da allora, viene spontaneo riflettere su questa sensazione che si potrebbe definire di tenacia nel tempo, mai messa da parte. E sottolineare un aspetto che emerge dal  suo libro  ma che vale la pena di valorizzare.

E’ quello della esistenza di una rete fitta di relazioni  tra sacerdoti e laici della realtà fiorentina (3), essenzialmente ma non solo, che sono accomunati da una radicalità  frutto di una fedeltà assoluta al Vangelo. Tener conto dell’esistenza di questo tessuto di relazioni è importante, perché consente di capire meglio l’ambiente di quegli anni e la ricchezza di personalità, di iniziative, di progetti che l’ha caratterizzata.

Due contributi recenti, lontani per impostazione, hanno dato definizioni sostanzialmente  omogenee di questa realtà, partendo entrambi da Lorenzo Milani.

Pietro Ichino, nel suo La casa nella pineta. Storia di una famiglia borghese del Novecento (4) racconta della relazione stretta della sua famiglia e di lui stesso con Lorenzo (il Pierino di Lettera a una professoressa era appunto ispirato alla figura di Pietro, conosciuto dai ragazzi di Barbiana  durante un viaggio a Milano, ospiti della famiglia Ichino) e così descrive l’impressione che aveva avuto del priore:

 

“...eravamo affascinati dalla sua idea che la povertà peggiore consistesse nella deprivazione dell’istruzione, della capacità di esprimersi, e che dunque ai poveri dovesse essere restituita prima di tutto la parola. Ma eravamo anche coinvolti dalla sua condanna della ricchezza , in quanto sottrazione del necessario ai poveri. E  colpiti dalla radicalità del suo comunismo: molto più incisivo di quello del Partito Comunista, ma predicato non come principio politico-economico, bensì come imperativo morale “ (p. 173).

 

Vanessa Roghi, in La lettera sovversiva. Da don Milani a De Mauro, il potere della parola (5), scrive:

 

“Ovviamente intesa in senso non marxista, il classismo di Don Milani muove dalla convinzione etico-religiosa che le classi sociali sono un’ingiustizia verso Dio. Scandalizzato di trovarle dentro la Chiesa, don Milani non tollera di vederle diventare strumento di discriminazione a scuola” (p. 213).

 

Le due citazioni potrebbero essere un buon punto di partenza per definire quella realtà di cui si parlava sopra e invece è successo che l’interpretazione nel tempo della figura di Lorenzo Milani ha finito per cancellare, per schiacciare tutto il resto, per semplificare.

Si è scelto di rappresentarlo come un isolato, una grande mente che sdegnava le relazioni e invece non era così. Quella convinzione etico- religiosa, quella radicalità che fondava il suo pensiero e il suo agire era la stessa di tanti altri compagni di seminario e in generale sacerdoti di Firenze e provincia negli anni ‘60 e ‘70 del ‘900,  da Bruno Borghi a Bruno Brandani, da Auro Giubbolini a Beppe Pratesi, a Fabio Masi,  da Renzo Fanfani a Luigi Rosadoni (per il quale il giudizio di Servien appare piuttosto ingeneroso, forse dovuto a una mancanza di un confronto diretto),  a Enzo Mazzi, Sergio Gomiti, Paolo Caciolli, a tanti altri. 

Solo alcune situazioni tra le tante  che si potrebbero raccontare che testimoniano di questi stretti  e fruttuosi rapporti: la  “cooperativa” realizzata in seminario per sopravvivere alle ristrettezze del periodo della guerra, la lettera contro la rimozione di Bonanni da rettore del seminario firmata da Borghi, Milani e pochi altri ma che segna un passaggio importante nella prospettiva del dialogo, le prese di posizione a favore dell’obiezione di coscienza, la solidarietà all’esperienza dell’Isolotto, che, come ricorda Servien, coinvolge, con la lettera al Cardinale Florit del 31 ottobre 1968, almeno un quarto del clero fiorentino.

Certo tra loro ci sono differenze anche profonde, ma non sono mai mancate la solidarietà, il confronto aperte e un comune sentire sulle questioni di fondo, appunto quello che  permeava la realtà di quegli anni, “quando a Firenze essere un giovane cattolico significava, spesso, essere assai più radicale e a sinistra di tanti militanti del Partito Comunista “ (Vanessa  Roghi, p. 46).

Questa radicalità,  appunto non ideologica ma di carattere morale, si caratterizzava per la capacità di produrre effetti concreti:  le mobilitazioni, le vertenze, le lotte puntavano sempre al  raggiungimento degli obiettivi, non si accontentavano mai di svolgere un ruolo di pura testimonianza (e questo potrebbe essere davvero un insegnamento valido per l’oggi).

Che fosse battersi per l’obiezione di coscienza, muovendosi da ruoli anche diversi ma con un obiettivo comune (6): dalla proiezione del film francese “Non ucciderai” organizzata dal sindaco La Pira, alla solidarietà con il primo obiettore di coscienza cattolica, Giuseppe Gozzini, che costerà una condanna a Ernesto Balducci, dal dibattito che segue in Parlamento, sollecitato anche  dalla iniziativa dal leader fiorentino della corrente democristiana di Base, Nicola Pistelli, alle lettere contro la presa posizione dei cappellani militari, di Bruno Borghi ed altri cattolici e poi di Lorenzo Milani (7), al processo contro quest’ultimo, per arrivare ad ottenere il servizio civile, con la legge Marcora, del 1972.  

Che fosse per battersi per l’applicazione della legge sull’assunzione obbligatoria dei disabili, arrivando a piantare una tenda per qualche settimana in piazza Signoria, fino ad ottenere che gli enti locali e poi anche le imprese private assumessero. 

Che fosse per costruire,  dopo la fuoriuscita dalla parrocchia, senza perdersi d’animo, una comunità come quella dell’Isolotto, radicata nel quartiere e nella  città, sempre dalla parte delle persone e dei popoli che soffrono la violenza, l’oppressione, la povertà, l’emarginazione. Come scrive Servien, “vederli vivere è sorprendente”.

        

Antonio Schina

 

(1) Danilo Zolo, scomparso nell’agosto 2018, è  uno degli  intellettuali che, partiti dal  cattolicesimo militante, approdano a posizioni marxiste. Docente di Filosofia del Diritto, tra i  maggiori esperti  di diritto internazionale, sempre attento alla realtà sociale e politica (dal carcere al pacifismo, dal Mediterraneo alla Palestina) non mancherà, negli ultimi anni, di far riferimento alle sue origini, definendosi, citando Albert Camus, un “cristiano senza Dio”. Tra i ricordi della sua personalità: Emidio Diodato, Danilo Zolo, un intellettuale ‘dalla parte del torto’ ne “Il Manifesto”, 18.8.2018, Lucia Re, Morto Danilo Zolo: ha studiato e promosso i diritti dei popoli, in www.stamptoscana.it, 17.8.2018; Edoardo Semmola, Il filosofo sempre in trincea, in “Corriere Fiorentino”, 17.8.2018; Luca Baccelli, In ricordo di Danilo Zolo, settembre 2018, Società italiana di Filosofia Politica, settembre 2018, in www. sifp.it

(2) Su Bruno Borghi mi permetto di segnalare il mio Bruno Borghi. Il prete operaio, Centro di Documentazione Editrice, Pistoia 2017.

(3) Il libro di Giorgio Falossi, Una stagione della Chiesa fiorentina (e non solo). Lettere (1966-1987), a cura di Maria Livia Bendinelli Predelli, Società Editrice Fiorentina, Firenze 2013, racconta molto bene una parte di questa realtà, in particolare la relazione stretta tra Lorenzo Milani e Bruno Borghi, ma anche con altri sacerdoti, e il ruolo di tramite appunto di Giorgio Falossi.

(4) Giunti, Firenze 2018.

(5) Laterza, Bari-Roma 2017.

(6) Su queste vicende una ottima ricostruzione è quella di Fabrizio Fabbrini, Tu non ucciderai. I cattolici e l’obiezione di coscienza in Italia, prefazione di Giorgio La Pira, Cultura editrice, Firenze 1966. Fabbrini, anche lui obiettore di coscienza, è l’avvocato, di cui parla Servien,  che contesta la predica di un monaco in una chiesa di Trastevere e per questo verrà processato.

(7) Per la figura di Nicola Pistelli, scomparso giovane  in un incidente stradale nel 1964, che sarebbe degna di una riscoperta, si possono vedere due testi: Mario Lancisi, La proposta politica di Nicola Pistelli, Nuova Toscana Editrice, Figline Valdarno 1984;  Gian Piero Cappelli, Nicola Pistelli: la Dc dimenticata, Morcelliana, Brescia 1995.

 

 

 

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