Koinonia Novembre 2018


IL PENSIERO DELLA MORTE

 

Ho voluto introdurre questa mia riflessione con una poesia di Vincenzo Cardarelli dedicata “Alla morte”.

Intenzionalmente non ho proposto il tema della “morte”, ma del “pensiero della morte”: non siamo invitati a compiere una riflessione metafisica sulla morte, ma su quello che il pensiero della morte evoca in noi.

La morte ha un suo statuto ontologico, ma ognuno di noi la pensa in un modo differente e la dipinge con un colore particolare: san Francesco la chiama “nostra sora morte corporale” e per essa rende lode al Signore.

La morte è una situazione limite: un essere che è un essere contingente se ne va, cessa di esistere, che cosa resta?

Nel pensiero tutto passa attraverso il filtro della coscienza che riceve solo il riverbero di ciò che è nella realtà. Qui sta il limite e la grandezza dell’uomo.

Dice Pascal: “L’uomo non è che un fuscello pensante. Non occorre che l’universo intero si armi per schiacciarlo, un vapore, una goccia d’acqua è sufficiente per ucciderlo. Ma quand’anche l’universo intero lo schiacciasse, l’uomo sarebbe sempre più nobile di ciò che l’uccide, perché egli sa di morire e conosce la superiorità che l’universo ha su lui…” (Pascal, pensiero 347).

Nella coscienza umana si rispecchia l’intero universo, ma le cose, la realtà rimangono fuori e, a riguardo, mi è venuto in mente uno strano pensiero un po’ pazzo: che la morte possa operare finalmente la liberazione di tutto ciò che, in modo provvisorio, è stato come appoggiato in noi e vi si trova stretto.

Il concetto metafisico della morte è di per sé sterile: della propria morte nessuno potrà mai fare esperienza, fecondo invece è il pensiero della morte, il nostro modo di considerare la morte, un pensiero che ha in sé la potenzialità di cambiare le nostre idee e di modificare il nostro modo di vivere.

A patto che non venga rimosso, questo pensiero. Che non si possa vivere pensando continuamente alla morte è evidente ed è altrettanto chiaro che ci debba essere una rimozione fisiologica di questo pensiero, ma non si deve andare troppo oltre: dopo l’ubriacatura scientista che ha conosciuto il nostro mondo occidentale, il pensiero della morte deve di nuovo fare la sua comparsa nella nostra vita, anche in quella di tutti i giorni. Un pensiero, quello della morte, al quale va restituita la dignità che merita.

Qualcuno potrebbe dire: “è inutile pensare alla morte e alle questioni ad essa connesse tanto non arriveremo mai a nulla ed un problema irrisolvibile diventa un problema improponibile”.

Io invece dico: “il pensiero della morte deve comunque avere un riverbero nella nostra esistenza o perché la rassicura in una speranza radicata nella fede o perché la sconvolge in una disperata negazione, o perché la lascia in un dubbio paralizzante.

Sul problema della morte conviene sostare prima di liquidarlo frettolosamente attingendo ai nostri pregiudizi ideologici, alle nostre convinzioni teoriche.

Chiediamo a noi stessi: “c’è stato un momento nella nostra vita nel quale il pensiero della morte ci ha fatto intravedere un orizzonte diverso e non è stato scacciato come inopportuno e controproducente”?

Più che un pensiero direi un’intuizione, perché rispetto al pensiero l’intuizione ha una forza maggiore e apre allo stato d’animo della meraviglia.

Un’intuizione di questo genere mi sembra di averla avvertita alla morte di mia madre. “Lei non è più, mi dicevo, ma lei è esistita”. Si è affermato “qualcosa” che si è stagliato dal nulla, com’è possibile che quel prezioso “qualcosa” si nullifichi? Fra la persistenza di quel qualcosa e il suo annullamento, il primato va alla persistenza e l’onere della prova va a chi nega e non a chi afferma.

Chi mi avrebbe potuto spingere a pensare che, con il venir meno della sua esistenza fisica, scompariva tutto ciò che nel vivere quella irrepetibile persona aveva espresso? Va bene, dicevo a me stesso, ammettiamo pure che ora sia tutto finito, ma c’è stato, si è distinto dal nulla e non è metafisicamente possibile che ripiombi nel nulla.

È la questione della “eccedenza” di cui parla Max Scheler. Quello che il filosofo esprime è difficile da comprendere, ma capita che si avverta la suggestione di un’idea che non capiamo o non capiamo fino in fondo. Riporto un giudizio formulato da chi ha scritto l’introduzione al suo libro Morte e Sopravvivenza: “… in diversi scritti Scheler riprende la definizione dell’uomo come essere che trascende la vita nella sua interezza e perciò anche se stesso: il che equivale a dire come colui che, andando aldilà di ogni realtà meramente fattuale e svincolandosi dalle pressioni che provengono dal mondo organico, compie un movimento di effettiva trascendenza rispetto alla vita, per accedere, fenomenologicamente, ad una sfera a cui appartengono unità di senso senza tempo ed eterne”. La persona, secondo Scheler è caratterizzata da un’ECCEDENZA (Überschuss). L’eccedenza dello spirito sulla vita è l’elemento in virtù del quale l’uomo risulta capace di scagliare dardi che travalicano i limiti del corpo con uno slancio che sembrerebbe persistere addirittura nell’attimo della morte.

Concludo la mia riflessione con un pensiero che mi piacerebbe condividere con voi:

L’uomo non sa nulla della sua origine e di ciò che era prima dell’origine, una cosa sola sa con certezza, che non si è fatto da solo e che la ragione della sua esistenza va ricercata in quella verità che lo trascende e che solo in quel mistero a lui inaccessibile può trovare la risposta all’unica domanda che ha veramente senso: “perché qualcosa piuttosto che il nulla?”.

 

Giuseppe Piazza

 

 

 

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