Koinonia Novembre 2018


MARTA E MARIA (I)

 

Parte prima: Il rischio del grande agitarsi

 

Leggiamo l’episodio, che è brevissimo: “Mentre erano in cammino, entrò in un villaggio e una donna, di nome Marta, lo ospitò. Ella aveva una sorella, di nome Maria, la quale, seduta ai piedi del Signore, ascoltava la sua parola. Marta invece era distolta per i molti servizi. Allora si fece avanti e disse: ‘Signore, non t’importa nulla che mia sorella mi abbia lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti’. Ma il Signore le rispose: ‘Marta, Marta, tu ti affanni e ti agiti per molte cose, ma di una cosa sola c’è bisogno. Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta” (Lc 10,38-42).

Perché è la parte migliore quella che si è scelta Maria? Direi di sgombrare subito il terreno dall’antitesi azione e contemplazione così come è emersa a seguito di quelle infiltrazioni di categorie greche che tendevano alla svalutazione del lavoro manuale privilegiando intelletto e contemplazione. Qui si tratta infatti di ascoltare un uomo capitato in quella casa più volte, possiamo supporre, e che conosceva entrambe le sorelle, che conosceva bene la generosità e la fede di Marta, e che, soprattutto, aveva fatto il falegname per decenni, aveva cioè, come dirà anche Paolo di se stesso, guadagnato il pane lavorando con le proprie mani.

Non vogliamo qui poi aprirci a distinguo eccessivi che ci condurrebbero fuori strada, leggendo però più estesamente i testi evangelici, ci si accorge che nel Vangelo di Giovanni, a differenza di quello di Luca, è Marta, non Maria, la protagonista. Attorno all’episodio della malattia, morte e risurrezione di Lazzaro, è invero scritto che “Gesù amava Marta e sua sorella e Lazzaro”. Quando poi Lazzaro era già morto e sepolto da ben quattro giorni, chi corre incontro a Gesù che stava arrivando è Marta non Maria (Gv 11,5. 20-34).

Va dunque anche sgombrato il campo della scelta tra le due sorelle e bisogna invece capire perché Gesù risponde in quel modo e qual è il discrimine. Per comprendere quanto detto da Gesù, davvero determinante, più che l’atteggiamento di ascolto è il contenuto di quanto stava dicendo in quel preciso momento a Maria, e che Marta stava in qualche modo sottovalutando distratta com’era da cibo e cucina. E si consideri pure quanto fosse prezioso per Gesù il momento della tavola insieme agli amici, un momento che molto assomiglia allo stare insieme nel nuovo mondo che aspettiamo. Addirittura, da qualche parte arriva a dire che tale sarà la gioia nei confronti di coloro che saranno riusciti a stare svegli aspettandolo per l’intera notte, che “si stringerà le vesti ai fianchi, li farà mettere a tavola e passerà a servirli” (Lc 12, 37-38). Non è dunque questo il punto.

Il punto vero della questione è invece che Gesù in quel preciso momento sta dicendo cose decisive, superiori a qualunque azione del qui e ora, cose da mettere subito e assolutamente al primo posto nel proprio cuore e nella propria mente. Troviamo qui dunque dispiegato lo stesso invito presente al centro del Discorso della Montagna: “Cercate, invece, anzitutto, il Regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta, non preoccupatevi dunque del domani, perché il domani si preoccuperà di se stesso. A ciascun giorno basta la sua pena” (Mt 6,33-34). Come a dire: è certamente importante preparare la cena, ma se la sua preparazione ci toglie l’attenzione dal Regno di Dio e dalla sua giustizia, se la preoccupazione del domani, se i progetti di costruzione di edifici, di cambiamenti strutturali di governi e aziende, per quanto utili e buoni, finiscono per rubare spazio all’attesa del Regno, tutto è vano direbbe Qohelet. Succede cioè, che il desiderio del cambiamento e la volontà d’agire diventano ben presto idoli a cui si aggrappa il nostro cuore mentre lo spazio per la vita di fede e per l’attesa di ciò che deve venire finisce per scomparire. Non subito, all’inizio infatti la parusìa passa dal primo al secondo posto, poi al terzo, fino ad essere del tutto dimenticata. È la storia del mondo, la storia del monachesimo e della Chiesa tutta, che rivelano questo, c’è poco da fare. E c’è da credere che sia questo il motivo vero per cui Gesù fugge tutto solo sulla montagna il giorno in cui la gente arrivò in massa da lui col proposito di farlo re (Gv 6,15).

Se però il significato delle parole di Gesù lo si vuol restringere dentro la sola antitesi ‘azione –contemplazione’ allora il rischio è quello di spiritualizzarne il significato, riducendolo a un orizzonte del tutto umano appiattito sul presente finendo così col farci perdere di vista la stessa importanza della salvezza, che è salvezza del mondo non dal mondo. La salvezza cristiana non ha a che fare con l’uscita dal mondo verso il cielo o con l’aldilà delle anime, ma piuttosto con l’attesa della venuta del Signore, della risurrezione dei morti e della vita del mondo che verrà. L’annuncio cristiano parla di concretissime azioni di salvezza da parte di Dio e di una verità che si può davvero conoscere soltanto attraverso l’esperienza del vivere, del toccare e del fare qui e ora, non del contemplare.

Ed è mentre concretamente viviamo, giorno dopo giorno, che da Dio dobbiamo e possiamo attendere tutto, attendere l’impossibile che ci ha promesso e che soltanto lui può realizzare. Se ha promesso di far risorgere la carne e le ossa di coloro che sono morti, noi dobbiamo credere e attendere nulla di meno che questo, anche se crederlo e attenderlo è ormai diventata l’opera più dura e difficile che ci sia.

Tutti ricordiamo la distinzione che Gesù faceva riguardo ai “due figli” che dovevano andare a “lavorare nella vigna”: il primo disse al padre: “‘Non ne ho voglia’. Ma poi si pentì e andò”. Mentre il secondo disse: “‘ Sì signore’. Ma non vi andò” (Mt 21,28-31). Ecco a fare la volontà del padre fu il secondo perché ciò che conta alla fine è quello che si fa. Tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare, dice il proverbio popolare, e ciò che conta è quel che fai, è se hai dato il pane all’affamato e se hai dato da bere all’assetato. Il cristianesimo mette in guardia dall’essere verbosi e astratti. Non l’incessante contemplare dicendo “Signore, Signore!” ci farà entrare nel regno dei cieli, ma colui “che fa la volontà” del Padre che è nei cieli (Mt 7,21). L’ascolto vero viene contestualmente al fare, non prima. Nel Libro dell’Esodo, di fronte a Mosè che lesse il libro dell’alleanza, il popolo disse: “Quanto ha detto il Signore, lo eseguiremo e vi presteremo ascolto” (Es 24,7). È solo mettendole in pratica che le parole provenienti da Dio si ascoltano davvero e vengono prese con tutta serietà.

Ma anche qui ci sarebbe da fare una distinzione: c’è il fare umile di chi è consapevole della parzialità di quel che riesce a fare, e il fare superbo di chi si sente indispensabile, un po’ come se tutto dipendesse da lui e dunque chiudendosi all’ascolto della parola che viene da Dio e all’attesa della sua salvezza.

È la trappola in cui è finito l’uomo moderno: abbiamo fatto nostre le domande cristiane di salvezza, ma abbiamo finito per mettere Dio da parte arrogandoci il pieno diritto di costruirci da soli il suo regno sulla terra. È la deriva anticristica di cui già parlava Gesù con una parabola, la deriva di chi finisce per uccidere il “figlio amato” come fregandosi le mani dicendo tra sé: “‘Costui è l’erede. Su uccidiamolo e l’eredità sarà nostra!’” (Mc 12,1-8).

Se nel Vangelo di Giovanni Gesù dice con una certa chiarezza che la verità non è tanto quella che si arriva a conoscere quanto quella che si arriva a “fare” (Gv 3,21), non bisogna nemmeno trascurare ciò che dirà più avanti e proprio vedendo la gente attratta da quella forza con cui egli aveva da poco moltiplicato pani: “Datevi da fare non per il cibo che non dura, ma per il cibo che rimane per la vita eterna e che il Figlio dell’uomo vi darà”. E alla domanda sul cosa si deve “compiere per fare le opere di Dio”, Gesù è esplicito: “Questa è l’opera di Dio: che crediate in colui che egli ha mandato” (Gv 6,27-29). La vera opera è il credere non il fare, sebbene tale credere sorga dopo non prima d’aver fatto tutto ciò che c’è da fare, e questo perché quel che è davvero necessario al mondo che si faccia è soltanto Dio che lo può fare.

Kierkegaard dice che la caratteristica dell’essere cristiano è proprio quella “di distogliere dalla direzione di un domandare su cose lontane per portare subito l’interrogante il più vicino possibile al compito da eseguire”. E questo perché a differenza di ciò che è pagano, “ciò che è cristiano non si rapporta al conoscere, bensì all’agire; ha la caratteristica di rispondere, e nella risposta di catturare ciascuno a favore del compito. Per questo era così pericoloso interrogare Cristo da parte dei farisei, amanti di sottigliezze, pignolerie, cavilli; infatti, chi domandava certo otteneva da Cristo sempre risposta, ma al tempo stesso, insieme alla risposta, otteneva di sapere, in un certo senso, molto, molto di più; riceveva una risposta che catturava, che non si faceva coinvolgere dalla domanda in ingegnose lungaggini, ma che con autorevolezza divina prendeva l’interrogante e lo impegnava ad agire di conseguenza, mentre quello che aveva fatto la domanda forse sperava di restare alla lunga distanza della curiosità, o dell’avidità di sapere, o della raffinatezza concettuale, a distanza dal sé e da ‘chi fa la verità’ (Gv 3,21)”.

Facciamo un esempio. Arriva un “dottore della Legge” e chiede a Gesù: cosa devo fare per salvarmi? Gesù risponde, ma con un’altra domanda: Cosa sta scritto nella Legge? E quello: Amare Dio e il prossimo. Bravo, dice Gesù, fallo e vivrai. Non essendo però in buona fede, quello cerca cavilli per giustificarsi facendo ancora una domanda: E chi è il mio prossimo?

A quel punto Gesù non fa elenchi, non descrive identità, semplicemente racconta una parabola, la parabola del “Buon samaritano”, chiedendo alla fine al dottore: chi è, secondo te, il prossimo di quel disgraziato caduto nelle mani dei briganti? La risposta è chiara, ma Gesù vuole che sia l’interlocutore a darla: “Chi ha avuto compassione di lui”. Bravo, risponde allora Gesù, “Va’ e anche tu fa’ così!” (Lc 10,25-37).

E non è certamente un caso che l’evangelista Luca decida di innestare proprio lì, a conclusione della parabola del ‘Buon samaritano’, l’episodio di Marta e Maria. Con quella parabola infatti - dice Kierkegaard - Cristo taglia corto e non cade nella trappola tesa a lui da quel dottore della Legge che per cercare scappatoie e perdere tempo s’aspettava “una disamina molto lunga”, come sono soliti fare molto spesso, e lo sappiamo, filosofi, politici, tuttologi e via dicendo. No, qui, dice Kierkegaard, “Dio prende i sapienti per mezzo della loro astuzia, e Cristo catturò l’interrogante con una risposta che includeva il compito. Egli non mette in guardia dalle domande inutili con discorsi prolissi che sono in grado di produrre dispute e scappatoie; ahimè, la replica prolissa non è molto meglio di quanto vuol confutare; no, egli risponde con la stessa divina autorevolezza con cui insegnava; infatti l’autorevolezza sta proprio nell’assegnare il compito” (Gli atti dell’amore).

 

Daniele Garota

(1. continua)

 

 

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