Koinonia Novembre 2018


LE RADICI DEL MALESSERE

 

In Italia alcuni fenomeni sembrano più accentuati che altrove; ma ci sono affinità di fondo fra quello che accade da noi e quello che accade negli altri Paesi. C’è una comune matrice.

La crisi che investe da ogni parte il nostro Paese (crisi economica, crisi dei servizi pubblici, crisi politica, crisi morale) può essere analizzata, e soprattutto capita e affrontata, fuori dal grande contesto storico nel quale, a mio giudizio, si presenta? Mi pare evidente di no, visto che crisi economiche, nell’una o nell’altra forma (inflazione, recessione, ecc.) investono più o meno tutti i paesi capitalistici, che l’instabilità politica, per non dir peggio, è caratteristica comune a quasi tutti i Paesi occidentali (dalla minaccia di impeachment al presidente Nixon, ai governi di minoranza o di risicata maggioranza della maggior parte dei Paesi europei), che un senso di profondo disagio, di cui noi vediamo solo le manifestazioni più clamorose, travaglia quasi dovunque le nuove generazioni.

Certo, alcuni di questi fenomeni sembrano più accentuati in Italia che altrove, anche perché la debolezza delle strutture economiche e politiche offre una minore resistenza a tutti i fenomeni che ne turbano l’equilibrio; ma le affinità di fondo fra quanto accade da noi e all’estero denunciano una comune matrice. Vorrei qui azzardare un’ipotesi di diagnosi.

Non siamo qui in presenza di una crisi secondaria e passeggera, ma piuttosto di fronte a uno di quei ricorrenti periodi di travaglio e crisi che hanno accompagnato l’avanzata del capitalismo nel mondo. Oggi siamo talmente abituati a vivere in mezzo a questa società capitalistica ed urbana che non ci rendiamo ben conto degli immensi sforzi di adattamento, e delle conseguenti tragedie, che il suo affermarsi ha provocato nel mondo. Trasformare un contadino in operaio, obbligarlo a ritmare il tempo della propria vita sul tic-tac meccanico dell’orologio anziché sul sole e sulle stagioni è sempre un fatto traumatico: e tanto più traumatico quanto più numerosi sono gli uomini che devono essere trasformati, e più ristretto il tempo concesso alla trasformazione e all’adattamento.

E ancor più traumatico, forse, è strappare un uomo a un lavoro di cui conosce tutti i segreti, come l’artigiano o il piccolo commerciante, e trasformarlo in una rotellina di un immenso ingranaggio che lo trascende e di cui gli sfugge il significato. Ogni volta che fenomeni simili si producono sono masse immense di uomini che vengono gettati in una crisi spirituale e morale di cui spesso ci rifiutiamo di riconoscere le radici, ma di cui certo non valutiamo le ripercussioni e le conseguenze.

Una crisi così vasta ha accompagnato per decenni il nascere del capitalismo e il tramonto della vecchia società artigianale tra la fine del ‘700 e la metà dell’800. Le agitazioni, le rivoluzioni, le guerre che hanno sconvolto l’Europa fino al 1848-‘49 sono manifestazioni di quella crisi e della necessaria ricerca di un nuovo equilibrio.

Parve che questo nuovo equilibrio fosse trovato sul piano politico con il compromesso liberale-parlamentare, e, sul piano ideale, con l’illusione del pacifico progresso ad infinitum, che sostituiva alla speranza e all’attesa di una salvezza ultraterrena una soluzione più positiva e terrena, ma sempre futura, alle miserie e alle sofferenze delle masse. Quel compromesso durò circa un cinquantennio, fino cioè alla fine del secolo scorso, quando alle vecchie forme del capitalismo concorrenziale cominciarono dovunque a subentrare forme di capitalismo monopolistico legate al generalizzarsi del fenomeno imperialistico, e delle rivalità interimperialistiche che segnarono la fine della belle-époque.

Lo spettro della guerra, che era parso allontanarsi definitivamente dall’Europa, vi ritornava con una serie di tensioni e crisi periodiche, che sboccarono poi nelle due guerre mondiali e nella tragedia del fascismo fra le due guerre.

Il progresso tecnico continuava, e anzi faceva passi da gigante, ma non si accompagnava più, come era stato preannunciato in passato, a un progresso democratico e sociale: al contrario, esso faceva rinascere le tentazioni autoritarie delle classi dirigenti, entrate in possesso di nuovi strumenti di conquista e di dominio, e respingeva come un miraggio sempre più lontano quella speranza democratica di cui si eran nutrite per decenni le masse.

Oggi, trent’anni dopo la fine della seconda guerra mondiale, siamo già probabilmente nel pieno sviluppo di un terzo periodo di crisi storica di immense proporzioni. Il progresso tecnico si accelera, e con esso si accelerano anche i mutamenti nelle strutture sociali e nei rapporti di potere e gli equilibri si fan più precari. Elemento caratteristico della presente situazione mi sembra essere il passaggio dai capitalismi nazionali all’internazionalizzazione del capitale: ovunque le grandi società multinazionali tengono il campo, ognuna di esse più potente e più ricca della maggior parte degli Stati indipendenti, ognuna decisa a ricorrere a qualunque mezzo pur di conquistare o di mantenere sul mercato mondiale il dominio di determinati settori, i rifornimenti di materie prime, gli sbocchi ai propri prodotti, la penetrazione della propria rete di interessi.

Ciò comporta che i centri di decisione da cui dipende la nostra vita quotidiana si spostano sempre più lontano, fuori addirittura dai confini del Paese in cui viviamo, senza alcuna possibilità di interferire in queste decisioni che ci riguardano da vicino, e in tal guisa ciascuno di noi è sempre più ridotto a semplice rotellina di un meccanismo di portata mondiale che applica inesorabilmente le sue leggi e ci spoglia di qualsiasi possibilità di essere e sentirci padroni del nostro destino, del nostro futuro o, più semplicemente, del processo stesso di lavoro in cui siamo inseriti, privati di qualsiasi responsabilità e di qualunque autonomia, che non sia quella delle microscelte.

A questo potere oscuro, lontano, misterioso, kafkiano nel senso più pieno della parola, l’uomo contemporaneo reagisce o con la contestazione dell’autorità fino alla rabbiosa rivolta, o con la fuga e il rifiuto di questa società, o infine con l’accettazione conformistica della legge, con la rinuncia a ogni responsabilità, con il rifugio nell’egoismo più piatto, nel consumismo e nella ricerca a qualunque costo del successo e del benessere individuale. Ma ognuna di queste reazioni distrugge non solo il tessuto connettivo della società, il senso dei valori comunitari e della partecipazione cosciente e responsabile alla vita sociale, ma distrugge anche le ragioni più profonde della vita di ognuno, le radici stesse della personalità.

Il grande capitalismo di oggi, giunto alle dimensioni planetarie e spinto dalla logica dell’accumulazione, ha bisogno solo di pochi grandi tecnocrati, e, per il resto, di esecutori ubbidienti: non solo gli operai, ma gli scienziati stessi, devono essere al servizio dei suoi interessi. Esso maneggia capitali immensi e ha bisogno che la macchina del profitto funzioni alla perfezione, che ogni frizione sia evitata, ogni programma realizzato, ogni ostacolo abbattuto. Chi non accetta di essere schiavo di questo meccanismo sarà eliminato o emarginato, si tratti di individui o di popoli intieri. E chi accetta, o comunque chi è impotente a reagire adeguatamente, porterà con sé il senso permanente della frustrazione a cui è condannato.

Nello stesso tempo, così come nel periodo precedente erano entrate in scena nei Paesi avanzati le grandi masse operaie, oggi stanno entrando in scena i popoli fino a ieri coloniali: non più milioni, ma miliardi di uomini, che rivendicheranno sempre più una condizione umana di vita. Pretendere di regolare questi problemi - quello della conquista di una nuova dignità per i popoli del cosiddetto Terzo Mondo e della salvaguardia della propria umanità per i popoli del mondi sviluppato - con vecchie formule o con semplici equilibrismi parlamentari è un’ingenuità che rasenta la follia.

Il fascismo è la minaccia mortale per ogni popolo che non abbia il senso della responsabilità storica che gli incombe, perché è la forma più semplice di riduzione in schiavitù che la nuova società comporta. Naturalmente non si tratterà più del fascismo nelle vecchie forme, ma di forme autoritarie più consone al mondo di oggi; che possono essere dittature militari (come nell’America latina e in molti altri Paesi del mondo, anche nel nostro bacino mediterraneo), oppure possono nascondersi dietro un regime formalmente parlamentare in cui tuttavia l’uomo di oggi non può più trovare adeguata soddisfazione alle proprie esigenze di partecipazione.

La sola strada da battere per uscire dalla crisi contemporanea è il rifiuto di piegare ogni uomo alle esigenze del profitto, che è il motore di questa società, e lo sforzo di adeguare tutte le strutture sociali alle esigenze dell’uomo, di creare una società a misura umana, una società in cui gli uomini possano ritrovare il senso della vita, la coscienza della propria responsabilità, il gusto dei rapporti comunitari. Questo naturalmente implica, per me, una profonda trasformazione sociale, ma non siamo qui a dettare ricette per la cucina dell’avvenire, per usare una frase di Marx: vogliamo solo segnalare le radici lontane dei mali che ci affliggono e indicare il cammino che può portarci ad estirparle. I nuovi equilibri della città futura sorgeranno a poco a poco, a misura che avanzeremo lungo questo cammino.

 

Lelio Basso

Il Giorno, 13 giugno 1974

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