Koinonia Ottobre 2018


A 50 anni dal “caso Isolotto” a Firenze

 

“COME IL GIORNO DI IERI CHE È PASSATO”

 

“Perché mille anni sono ai tuoi occhi come il giorno di ieri ch’è passato, come un turno di guardia di notte”. Sono parole del salmo 90, che affiorano alla mente al momento in cui viene da ripensare al “caso Isolotto” di 50 anni fa. In effetti, non si tratta tanto di riandare ad eventi di allora, quanto di rivivere una situazione che è esplosa e si è rivelata allora, ma che ci ha accompagnato e perdura tutt’ora: è il conflitto generato dentro la chiesa dall’“aggiornamento” voluto dal Vaticano II e che non ha trovato ancora una sua risoluzione.

Ed è un peccato che le vicende ecclesiali dei nostri giorni - che toccano i vertici - passino come semplici fatti di cronaca di ordine dottrinale e morale e non siano lette teologicamente come il prolungamento di una dialettica interna che non ha avuto sbocchi. Perché non pensare che lo stesso fenomeno dilagante della pedofilia sia l’effetto di blocchi e di chiusure che portano le situazioni a marcire? Le questioni nate ieri e rimaste aperte fino ad oggi erano ben altre, e sono quelle che andrebbero riprese, certo con consapevolezza diversa, per non rimanere impantanati nelle sabbie mobili della corruzione latente. Ha un senso il richiamo al Concilio dopo aver messo tra parentesi il dopo-Concilio?

Ecco perché, ripensare l’“Isolotto” è come ripensare noi stessi nel succedersi di questi anni, per trovare ancora una volta un nuovo punto cardinale di orientamento per il futuro. Tutt’altro che nostalgia, ma neanche cedimento alla supponenza e sufficienza di chi non ha vissuto l’esperienze di quegli anni e si permette allegramente di buttare al macero testimonianze e testimoni che hanno sofferto “per amor del vangelo” (Mc 8,35; 10,29). La chiesa trionfante che si presenta oggi è quella paludata di rivestimenti conciliari e di forme innovative generate da quelle sofferenze e fatte proprie  dopo averle disinnescate: da qui una chiesa tanto dinamica nei comportamenti esterni quanto statica nella sostanza e nelle attitudini di fondo, magari facendo bella mostra di sé ma poco significativa e comunicativa per il mondo!

A parte i fatti irripetibili, la continuità è nelle istanze che hanno espresso, e che per la verità abbiamo fatto nostre fin da allora. Mi scuserete se a questo punto il discorso diventa personale, ma per l’appunto tutto nasce da una mia partecipazione alle vicende dell’Isolotto, col semplice intento di capire quanto stesse succedendo per ragioni di solidarietà pastorale con tanta gente disorientata. Per la verità, di questa contiguità ne sono stato io stesso vittima, ma il fatto di essere per questo allontanato da Firenze non ha cancellato gli interrogativi che si erano imposti e che mi portavo dietro, provocandomi a cercare risposte e scelte adeguate al di là delle situazioni locali.

 La non facile esperienza fatta ha dato una svolta alla mia vita e mi ha indotto prima di tutto alla riflessione, tant’è che nel ’69 osai pubblicare sulla rivista “Vita sociale” un articolo - “Proposta per l’Isolotto” - senz’altro con qualche punta di presunzione, ma indicativo di come fossi ormai coinvolto verso la ricerca di risposte a questioni aperte, fino a scelte di vita non di poco conto, anche se passate come capriccio di stagione. La “questione” in realtà, nel caso specifico, non era di ordine giuridico e di prassi pastorale - tra Magistero totalizzante e diritto della base - ma di natura “teologica”, per la verità poco presente nella coscienza comune e rifuggita dai teologi di professione perché compromettente.

Se si vuol sapere quali fossero i termini di questa questione, abbiamo una lucida analisi del 1969 ad opera del teologo e pastore valdese Paolo Ricca in Il cattolicesimo del dissenso. Una valutazione protestante (Claudiana), da cui sono riprese alcune pagine che si possono leggere utilmente in questo numero di Koinonia, e che sono la prova provata di questioni sempre aperte ma rimosse. Non esiterei a dire che è sempre questo il compito che ci sta davanti anche oggi, quando è ancora in gioco l’annacquamento o il tradimento o la formalizzazione dell’evento-Concilio a danno di quel passaggio al “cambiamento d’epoca” invocato oggi, ma iniziato allora.

Cresceva pertanto la consapevolezza di scelte necessarie, non tanto per attuare modelli di chiesa alternativi comunque precostituiti, quanto piuttosto per far nascere dal basso una comunione di fede e una comunità di credenti in fieri a raggi concentrici. È il tentativo che ha dato vita a Koinonia come esperienza e come strumento, iniziativa che non ha mai avuto un inquadramento istituzionale preciso e una configurazione pastorale definita, ma si proponeva come centro di interesse polivalente per la formazione di un soggetto ecclesiale con la coscienza di Popolo di Dio messianico, profetico e sacerdotale. Niente di precostituito e di fisso, ma funzione permanente e trasversale, come del resto è la stessa chiesa nella sua natura sacramentale di segno e strumento. Non sarebbe il caso di tenerne conto e di non pensare più la chiesa in termini sostanziali di realtà costituita per se stessa? Naturalmente qualcosa che viveva senza “esistere”, salvo che per essere disconosciuto e riprovato.

Tornando a noi, c’è da dire che per quanto estesa nel tempo, l’esperienza di Koinonia è stata sempre sincronica, e quindi è come se iniziasse e finisse tutta allo stesso momento, oggi come ieri. Sorprendentemente ci ritroviamo al momento attuale, quando le circostanze ci hanno portato a parlare di “Kairòs” come modalità di esistenza teologica e di comunicazione ecclesiale. Prima di guardare da questo punto di vista ad ambiti più ampi, possiamo tentare di interpretare in questo senso il momento che stiamo vivendo: appunto come kairòs. Intanto è un passaggio decisivo e complesso, per ragioni esterne ed interne, che mette in moto fattori diversi, da quello personale a quelli istituzionali, ma soprattutto come responsabilità di servizio del vangelo che dovrebbero decidere di tutto il resto.

Vivere questo kairòs sta a dire che dentro le varie circostanze che lo determinano c’è un elemento di grazia da cogliere e da mettere a fuoco, che non vuol dire necessariamente adeguamento e conformità ad un ordine di cose prestabilito per salvaguardare equilibri convenzionali. Quando questo ordine istituzionale si impone come norma ultima senza più relazione - se non nominale - al vangelo da servire, kairòs è ritrovarsi più che mai soli con se stessi davanti ad un compito a cui non ci si può sottrarre. È il momento in cui lacci e lacciuoli si sciolgono, e noi ci troviamo nella necessità di rimanere interiormente liberi senza cedimenti e senza abbandoni: restando pure “sotto la legge” ma all’unico scopo di neutralizzare il suo potere salvifico da trovare solo nella fede.  Quando appunto la legge che dovrebbe fare da pedagogo a Cristo, non solo non è più un aiuto ma diventa addirittura ostacolo alla salvezza, l’unico modo per depotenziarla è accettarla subendone le conseguenze ma continuando a guardare ad altro! Il senso del kairòs, in altre parole, è il senso dell’”ora” e trova la sua massima espressione sul Calvario nell’ora della croce!

Se vogliamo parlare di Kairòs in relazione alla vita della chiesa e soprattutto con riferimento alla  “grazia della conversione” per un “cambiamento d’epoca”, allora bisogna cogliere il tempo della chiesa nel suo nucleo vitale e farne invece un principio di discernimento e di cernita rispetto a quanto è spurio e sovrapposto: il cambiamento necessario non è infatti orizzontalmente tra modelli diversi di chiesa più o meno aggiornati, ma è il passaggio dalla Legge alla Grazia, dalla circoncisione alla fede, salvo restando che questo passaggio avviene dal basso verso l’alto… È una fede vissuta e convissuta nella sua sostanza prima che nelle sue formulazioni, fino a rigenerare modalità e forme di convivenza fraterna: ed è in fondo l’Eucarestia - intesa come “memoria” di Cristo - che fa la chiesa e fa nascere il Popolo di Dio come comunità dei credenti. È quel lento processo di maturazione e di condivisione, compromesso e surrogato dalla pratica dell’obbligo festivo, per assicurare un prodotto per clienti fissi! La testimonianza di don Giuseppe Masseroni a p. 20  può farci riflettere!

Parliamo infine di Kairòs-Italia, come problema-Paese: è il quadro globale da tenere presente e il soggetto storico da far lievitare da popolo tra i popoli a Popolo di Dio prima di tutto mediante il vangelo, al di là di involucri o incrostazioni di cristianità:  il vangelo deve ritrovare la sua dimensione-Paese e un  Paese che deve riacquistare una sua capacità di ascolto del vangelo. Non si tratta di centellinare il vangelo per farlo assimilare in piccole dosi, né di vivisezionare il paese per vedere quanto conserva di cristianesimo, ma piuttosto di “preparare al Signore un popolo ben disposto” (Lc 2,17). Sono due realtà da coniugare, due soggetti morali da far convergere: il problema è fare dei due un solo popolo nuovo, abbattendo il muro di separazione. Se una chiesa esistente vuole farsi carico di questo compito deve trasformare se stessa, e da ricca che è farsi povera per arricchire il Paese della sua povertà. Se invece c’è chi è chiamato a farsi carico di portare il vangelo alle genti senza troppe mediazioni, allora nasce una chiesa dei poveri nel senso di portare ai poveri la buona novella come compito primario e fondante. È come tornare sempre alla prima casella! Ed anche 50 anni sono come il giorno di ieri che è passato!

 

Alberto B. Simoni op

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