Koinonia Ottobre 2018


NEL CUORE DEL CRISTIANESIMO (II)

 

Parte seconda: La speranza di non morire

 

Ma vediamo come Paolo risponde alle preoccupazioni della comunità credente di Tessalonica. Intanto lo fa “sulla parola del Signore”, prendendo a riferimento cioè quello che viene ritenuto (da Jeremias per esempio) il “detto di Gesù” più antico tra quelli non tramandati dai Vangeli canonici.

Ma leggiamo con attenzione: “Non vogliamo poi lasciarvi nell’ignoranza, fratelli, circa quelli che sono morti, perché non continuiate ad affliggervi come gli altri che non hanno speranza… Questo vi diciamo sulla parola del Signore: noi che viviamo e saremo ancora in vita per la venuta del Signore, non avremo alcun vantaggio su quelli che sono morti. Perché il Signore stesso, a un ordine, alla voce dell’arcangelo e al suono della tromba di Dio, discenderà dal cielo. E prima risorgeranno i morti in Cristo; quindi noi, i vivi, i superstiti, saremo rapiti insieme con loro tra le nuvole, per andare incontro al Signore nell’aria, e così saremo sempre con il Signore. Confortatevi dunque a vicenda con queste parole” (1Ts 4,13-18).

Il punto forte di tutto il discorso che fa Paolo, il nocciolo, la condizione sine qua non, è un evento ben preciso, quello in cui “il Signore stesso… discenderà dal cielo” (1Ts 4,16). Ai discepoli che l’avevano visto sparire tra le nubi ed erano rimasti lì a guardare in alto, i “due uomini in bianche vesti” dissero infatti: “Perché state a guardare il cielo? Questo Gesù che è stato di tra voi assunto fino al cielo tornerà, un giorno, allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo” (At 1,11).

La salvezza promessa per il giorno ultimo non è riferita cioè a un qualche nostro andare in cielo insieme a coloro che sono morti, ma un attendere colui che scenderà dal cielo e che li farà risorgere i morti, facendoli partecipi del suo regno promesso. La morte non è la porticina attraverso la quale ad un certo punto le nostre anime volano in cielo, ma “l’ultimo nemico” che il Signore riuscirà ad annientare dopo una tremenda lotta combattuta contro ogni “Principato”, “Potenza e Forza” fino alla “fine, quando egli consegnerà il regno a Dio Padre” (1 Cor 15,24-26).

Mauro Pesce, nel suo Le due fasi della predicazione di Paolo (EDB 1994), intravede la prima formulazione scritta del Kerygma, il cuore dell’annuncio evangelico, proprio in questa Prima lettera ai Tessalonicesi, e precisamente all’interno dei versetti 9 e 10 del primo capitolo: “Vi siete convertiti a Dio, allontanandovi dagli idoli, per servire al Dio vivo e vero e attendere dai cieli il suo Figlio, che egli ha risuscitato dai morti, Gesù, che ci libera dall’ira ventura”.

La “venuta” del Signore dunque, non altro, è il punto di riferimento preciso per la fede dei cristiani, un termine che continuamente ritroviamo all’interno di questa lettera: voi siete la nostra gloria e la nostra gioia tanto che potremo vantarci “davanti al Signore nostro Gesù, nel momento della sua venuta” (2,19-20). I vostri cuori siano saldi nella santità “davanti a Dio Padre nostro, al momento della venuta del Signore nostro Gesù con tutti i suoi santi” (3,13). Conservate tutto ciò che è vostro “per la venuta del Signore nostro Gesù Cristo” (5,23).

In mezzo dunque a tutte le esortazioni di tipo pratico: lavorare in pace, amarsi come fratelli, fare il bene ecc., punto decisivo, punto senza il quale tutto viene destituito di senso è questo: Il Signore sta per venire e davanti a ciò che lui sarà in grado, di fare, “noi che viviamo e saremo ancora in vita per la venuta del Signore non avremo alcun vantaggio su coloro che sono morti” (4,15). Siamo attorno al 50 d.C. e Paolo è convinto di non morire.

“Non ci può essere alcun dubbio dal punto di vista esegetico che il Paolo storico abbia creduto nell’avvento imminente della fine della storia – dice Mauro Pesce – perciò, demitizzare, o considerare secondario, marginale, in Paolo, l’aspetto escatologico, significa cambiare fondamentalmente tutto il cristianesimo paolino”. “Non tutti certo moriremo - scriverà infatti ai cristiani di Corinto - ma tutti saremo trasformati, in un istante, in un batter d’occhio, al suono dell’ultima tromba” (1Cor 15,51-53). Insomma, se vogliamo davvero comprendere ciò che dice Gesù nel Vangelo di Marco: “In verità vi dico: vi sono alcuni qui presenti che non morranno senza aver visto il regno di Dio venire con potenza” (9,1), non possiamo non tenere conto di questa speranza di non morire.

 

Certo, già nelle cosiddette “lettere dalla prigionia”, Paolo allenterà la tensione di tale speranza e prenderà in considerazione il fatto di morire prima della venuta del Signore, invitando a cercare “le cose di lassù, dove si trova Cristo alla destra di Dio” (Col 3,2), ma mai e poi mai perderà di vista il giorno della venuta del Signore.

Nella Seconda lettera a Timoteo (che sia sua o di un suo discepolo poco importa), Paolo dice così: “Quanto a me il mio sangue sta per essere sparso in libagione ed è giunto il momento di sciogliere le vele. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede”. E di cosa fosse fatta quella fede lo dice subito dopo: “Ora mi resta solo la corona di giustizia che il Signore, giusto giudice, mi consegnerà in quel giorno; e non solo a me, ma anche a tutti quelli che attendono con amore la sua manifestazione” (2Tm 4,6-8).

Anche quell’affermazione delle “nuvole” e dell’“aria”, che Paolo fa nella Prima lettera ai Tessalonicesi, non tragga in inganno: nessun luogo paradisiaco e celeste è lì da intendere alla maniera di certo spiritualismo disincarnato ed etereo. Sant’Agostino ne La città di Dio è esplicito: “Perché dovrebbe apparirci incredibile, che la polvere di cadaveri antichissimi tornerà con estrema facilità e con rapidità incalcolabile in membra destinate a vivere all’infinito?… Se vogliamo essere cristiani, dobbiamo credere che la risurrezione dei morti riguarderà anche la carne” (XXII, 20).

Essere rapiti tra le nuvole è un “andare incontro al Signore”, che “discende dal cielo”, per tornare insieme a lui sulla terra rifatta “nuova”, come “nuova” è “la Gerusalemme” che scenderà “dal cielo” (Ap 21,1-2). La salvezza riguarda tutto ciò che è stato su questa povera terra lungo i secoli della storia, e a essere salvata, nel ‘mondo che verrà’, non deve semplicemente essere la nostra anima, e nemmeno la nostra sola vita in quanto singoli, ma anche la vita di tutti gli altri, uomini e donne, e di tutte le creature. Abramo aveva molto a cuore anche le sorti della gente di Sodoma (cfr. Gen 18, 23-32) e Dio indicherà a Giona come a Ninive ci fossero non solo bambini piccoli e innocenti ma anche “una grande quantità di animali” (Gn 4,11). L’orizzonte del regno di Dio è umano e creaturale, è l’orizzonte nel quale anche Dio ha nel suo infinito amore deciso di abbassarsi per essere come noi e stare insieme a noi per sempre. Insomma, a salvarsi sarà il mondo e la sua storia, quel “mondo” che Dio “ha tanto amato da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto” (Gv 3,16). Alla fine è il mondo intero che salverà il Signore, con tutto il suo passato, dal primo all’ultimo giorno.

Individualismo e spiritualismo, che sono sempre lì sul punto di tentarci, non appartengono in nessun modo all’orizzonte ebraico e cristiano, ma alla grande e “pericolosa eredità dello spirito greco”, quella che ha fin dall’inizio “sviato l’attenzione dal generale e dal globale, per concentrarla invece “sulla salvezza assegnata direttamente alla singola anima” (J. Ratzinger, Dogma e predicazione).

 

Dopo aver parlato di cosa avverrà e di come in qualche modo avverrà, Paolo dovette alla fine rispondere alla domanda più urgente che assillava il cuore dei credenti di Tessalonica e che dovremmo fare anche nostra: quando vedremo il cielo aprirsi, il Signore scendere e i morti risorgere?

Paolo per rispondere riprende cose che aveva in fondo già detto Gesù: “Voi ben sapete che come un ladro di notte, così verrà il giorno del Signore” (1Ts 5,2). Verrà dunque ma di notte, quando tutti si dorme e nessuno se lo aspetta. E proprio perché non sappiamo in quale notte e in quale ora verrà, “non dobbiamo dormire come gli altri”, ma stare all’erta, anche nel sonno, avendo l’accortezza delle “vergini sagge” che, mettendo in conto il ritardo dello “sposo” presero con loro anche “olio in piccoli vasi” oltre alle “lampade” (Mt 25, 1-13). È questa la buona e dura battaglia per combattere la quale ci si deve dotare di un adeguato equipaggiamento di difesa: da una parte “la corazza della fede e della carità”, e dall’altra “l’elmo” della “speranza della salvezza” (1Ts 5,8).

Ma per sapere bene cosa intenda qui Paolo con queste tre virtù teologali, dovremmo riflettere con una certa attenzione sul terzo versetto del primo capitolo di quella stessa Lettera, là dove viene per così dire individuato il carattere, la qualità precisa di ognuna di esse. Ecco il versetto: “Rendiamo sempre grazie a Dio per tutti voi, ricordandovi nelle nostre preghiere e tenendo continuamente presenti l’operosità della vostra fede, la fatica della vostra carità e la fermezza della vostra speranza nel Signore nostro Gesù Cristo” (1Ts 1,3).

Nel testo originale per dire di che pasta fosse fatta la fede di quella gente c’è ergòn, che significa: operosità, impegno concreto. La fede, lungi dall’essere un giochetto del sentimento e del cuore, è anzitutto opera tra le più difficili, mai dovremmo dimenticarlo: “Questa è l’opera di Dio: che crediate in colui che egli ha mandato”, dice Gesù nel Vangelo di Giovanni (6,29).

Per comprendere poi di cos’era fatta la loro carità troviamo kopòs, che significa: dura fatica, ciò che sfinisce: si provi ad amare davvero uno che sta male, a stare accanto a chi ti chiede continuamente qualcosa, a chi si lamenta, urla, grida di dolore. Quanto si può resistere? Amare è capacità di soffrire con chi soffre anzitutto, ma la carità distrugge quanto la sofferenza della persona che amiamo e che ci porta inevitabilmente a soffrire insieme a lei. Insomma, la carità diventa insopportabile se ad un certo punto non termina il dolore.

E per dire, infine, di cos’era fatta la speranza dei tessalonicesi, Paolo usa il termine upomonè, che vuol dire fermezza, forza di sopportare una lunga attesa: è la virtù della pietra, quella che ti fa restare ciò che sei qualsiasi cosa succeda intorno a te, è la pazienza di attendere di fronte ai grandi ritardi, è la “perseveranza dei santi” di cui parla il Libro dell’Apocalisse, là dove è detto anche: “‘Beati i morti che muoiono nel Signore’. Sì – dice lo Spirito -, essi riposeranno dalle loro fatiche, perché le loro opere li seguono” (14,12-13).

Di questo prezioso equipaggiamento di difesa dovrebbe munirsi il credente, soprattutto oggi, un tempo in cui i venti dell’incredulità soffiano forte e il peso dei grandi ritardi si fa davvero insopportabile. Qui, più che altrove, assume tutto il suo senso la fede di sempre della Chiesa, quella che ogni volta ci invita a concludere il nostro Credo dicendo: “Aspetto la risurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà”. 

 

Daniele Garota

(2. fine)

.