Koinonia Ottobre 2018


SAN ROMERO VIVE...

 

Nel primo capitolo del suo volume L’arcivescovo deve morire, capitolo intitolato “Biografia di un libro”, Ettore Masina racconta come ha cominciato ad interessarsi del Salvador fin da bambino e di come, in occasione del decimo anniversario della morte di mons.Romero, padre Balducci gli comunicasse (non proponesse, sottolinea lui) l’incarico di scrivere una biografia di Romero che sarebbe uscita per le edizioni ‘Cultura della Pace’. “Io - dice Masina - risposi subito di no, perché, al tempo, facevo il deputato e cercavo di farlo bene; inoltre non ero mai stato in Salvador.” Poi le cose cambiarono. Nel 1992, la guerra civile salvadoregna era finalmente terminata perché “le parti in lotta avevano raggiunto un equilibrio totalmente distruttivo”. E Masina, come presidente del Comitato dei Diritti Umani della Camera, fu inviato in Salvador per partecipare alla cerimonia degli accordi di pace. Lì poté raccogliere tutta la documentazione che prima gli mancava e, è la fine del capitolo, “ Il 26 aprile 1992, in seguito a un incidente stradale, moriva Ernesto Balducci. Non potevo più dirgli di no”.

Oltre alla sua vasta documentazione, Masina attinge anche alle numerose biografie dell’arcivescovo (Jon Sobrino, padre Jesus Delgado, Raniero La Valle) e, tra le altre, alla prima biografia in assoluto, pubblicata già nel 1981 (in Italia nell’84 da Cittadella Editrice), scritta da padre James Brockman, “non senza rischi personali, dopo un’approfondita indagine”.

Quest’anno ricorre anche il 50° anniversario di Medellin e il fatto che proprio quest’anno avvenga, dopo tanti ritardi, la canonizzazione di Romero, è molto significativo. Nel 1968, Romero è segretario della Conferenza Episcopale  dell’America centrale, oltre che delle C.E. del Salvador. Non si è ancora ‘convertito’ ai poveri, anzi, come dirà lui, non è stato ancora convertito dal popolo salvadoregno. Romero allora giudica ambigua l’espressione “scelta preferenziale per i poveri” (la Chiesa non è madre di tutti?). Scrive Masina: “ Il Concilio del 1963 era stato per lui remoto come quello del 1869 e si vantava di non aver sottoscritto i documenti di Medellin”.

Ben diverso sarà il suo atteggiamento a Puebla, nel 1979, a proposito del quale Masina riporta una testimonianza di padre Bartolomeo Sorge : “Giungendo portavo con me il pregiudizio, diffuso negli ambienti romani, secondo cui mons.Romero  era una ‘testa calda’, un vescovo ‘politicante’, sostenitore della ‘Teologia della liberazione’. Fin dai primi incontri scoprii invece un Romero completamente diverso. Mi colpirono subito l’umiltà del tratto, lo spirito di preghiera, l’indiscussa fedeltà al Vangelo e alla Chiesa...”. A Puebla, Romero, lo volesse o no, era ormai una celebrità ecclesiastica. Era già partita quella “rete di protezione che il mondo libero cercò inutilmente di stendere intorno a lui perché appariva tragicamente certo  che sarebbe stato ucciso dai potenti”: un gruppo di deputati britannici lo propose per il Nobel per la pace, veniva chiamato nelle università occidentali per parlare agli studenti e intervistato da molti giornalisti, anche italiani. Lì, un giornalista del Manifesto, durante una conferenza stampa affollatissima, gli chiese ragione della sua ‘conversione’. “Se volete potete anche chiamarla conversione - rispose lui - ma io penso che sarebbe più esatto definirla uno sviluppo del processo della conoscenza. Ho sempre voluto seguire il Vangelo, anche se non sospettavo dove il Vangelo mi avrebbe condotto”.

E bisogna credergli se, a Roma, dopo la sua ordinazione sacerdotale, in piena guerra mondiale, scrive: “Sacerdote, questa è la tua eredità, la croce. E questa è la tua missione, condividere la croce... Fuggiamo la realtà e così fuggiamo Dio, così ci facciamo un Dio a nostra misura... non si sa essere poveri... non si pone Dio a misura di ciò che cerchiamo e vogliamo...”.

Comunque, quando Romero diventa arcivescovo di San Salvador, con grande soddisfazione degli ambienti più retrivi sia della Chiesa che della politica,  aveva già conosciuto la violenza dei militari come vescovo di Santiago de Maria. All’inizio si rattrista per certi eccessi, ma li ritiene comprensibili nel clima di violenza del paese, dettato dalla logica anti-comunista. Sull’indignazione davanti alle uccisioni dei campesinos, dice Masina, prevale la sua formazione culturale, ma ben presto comincia a capire che il termine “liberazione” può non riguardare solo la liberazione dal peccato, ma anche la liberazione dalla fame. Rilegge Medellin e le encicliche di Paolo VI che proclamano il dovere della Chiesa “di annunciare la liberazione di milioni di esseri umani, il dovere di aiutare questa liberazione a nascere”. Paolo VI, che Romero incontrerà a Roma dove è stato convocato dalla Sacra Congregazione per i Vescovi, è per lui il ‘padre amabile’, capace di leggere non solo il dramma dei poveri del Sud del mondo, ma anche il cuore del figlio, al di là dei fili spinati che la curia mette tra loro.

Masina, sorprendentemente, almeno per me, giustifica in una certo senso anche  il ben noto atteggiamento negativo di Giovanni Paolo II nei confronti di Romero. “I vescovi cattolici che presiedono diocesi sono più di 2.700. Il nuovo papa deve imparare a conoscerli tutti. Romero è per Wojtyla un ignoto... È la curia vaticana a fornire un identikit. Certamente non può riuscire gradito al nuovo papa un presule che rompe l’unità episcopale del suo paese (Romero era praticamente isolato nella Conferenza episcopale del Salvador)... Fra l’elezione di Giovanni Paolo II e l’assassinio di Romero corrono un anno e cinque mesi, un tempo troppo breve perché nasca un rapporto di mutua comprensione fra due pastori che devono annunciare il vangelo in un mondo stravolto da drammatiche tensioni”.  Masina riferisce poi la testimonianza di un cardinale che accompagnava Giovanni Paolo II nel 1983 a San Salvador, a proposito della testardaggine del papa che volle a tutti i costi pregare sulla tomba dell’arcivescovo martire, nonostante in molti si operassero per impedirglielo.

Il libro di Ettore Masina ripercorre la vita di Romero e di quei tragici anni salvadoregni non solo in modo estremamente documentato, ma con tutta la passione e la partecipazione che egli metteva in tutte le sue attività, per esempio in una progressione di drammaticità, sottolineata da espressioni come “Mancano sette mesi al suo martirio...” che sigillano i capitoli nella parte finale del volume.  Masina riporta molti brani delle omelie di Monsignore, in modo da farci toccare con mano come ogni sua parola derivasse dalla completa aderenza al Vangelo e dall’identificazione col popolo della sua diocesi. Sembra che padre Rutilio Grande, l’amico di sempre, nella sua ultima omelia prima di essere assassinato, avesse detto: “Essere cristiani oggi in questo paese è praticamente illegale”. È a questo punto che Romero fa la sua scelta, perché la sua legge è il Vangelo.

Vediamo in azione i suoi nemici, tra i quali purtroppo la quasi totalità dei vescovi salvadoregni ai quali mi sembra vada attribuita, in ultima analisi, la causa della morte di Romero: è al loro atteggiamento soprattutto che si deve l’isolamento in cui Romero fu lasciato dal Vaticano. Masina riporta che in un incontro di Giovanni Paolo II coi vescovi salvadoregni dopo la morte di Romero, uno di loro attribuì a lui la responsabilità dei 70.000 morti della guerra civile salvadoregna.

Ma soprattutto, nel libro di Masina, parlano con affetto e ammirazione i suoi tanti amici. Marianella Garcia, che 10 anni dopo lo seguirà nel martirio e che Raniero La Valle rese col suo libro altrettanto famosa. I gesuiti dell’UCA (Università dell’America Centrale), essi pure uniti a Romero nel sangue versato per la liberazione dei poveri; l’unico scampato per caso al massacro scriverà una sua biografia. La suore dell’ hospedalito della Divina Provvidenza dove l’arcivescovo abitava, che furono testimoni del delitto. Masina annota in una sua pagina, che prima o poi qualcuno dovrà scrivere la storia di tutte le suore morte in Salvador  per la loro vicinanza alle sofferenze dei campesinos. Soprattutto questi ultimi sono i veri amici di Romero, la sua chiesa, il suo ‘popolo di Dio’ a cui viene negata dalla cieca avidità di 14 famiglie salvadoregne, insieme alla sopravvivenza, la dignità di “figli di Dio”. È frequentando i campesinos che, dicono gli amici di Monsignore, “il ‘vecchio’ mons.Romero - duro, anzi legnoso, sospettoso di eresie e di cedimenti morali, nevrotico, solitario, alfiere di una fede disincarnata - si è come dissolto nel monsignore che gode delle amicizie, non emargina nessuno, è in rapporti più che cordiali con i protestanti della Chiesa battista e della Chiesa presbiteriana.. gli piace bere una birra con gli amici...”. Con loro è in continuo contatto attraverso le omelie domenicali, alla fine delle quali fa l’elenco degli ultimi avvenimenti luttuosi, perché la notizia di queste morti non vada perduta nel silenzio generale. Sono loro che bussano quotidianamente alla sua porta per raccontare di assassini e sparizioni, per chiedere consolazione, coraggio per continuare a resistere, forza per perdonare ai loro nemici. Tutti loro, uomini e donne eroiche, insieme ai “suoi” preti, uccisi o dispersi, saranno santi nei nostri cuori insieme a Monsignore il 14 ottobre. Lo saranno ufficialmente, anche se già lo erano nel cuore di tanti loro compatrioti e di tanti uomini e donne di buona volontà, lo saranno davanti al mondo, a testimonianza che forse la Chiesa di papa Francesco si è decisa a far proprie “le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, sentendosi intimamente solidale con il genere umano e la sua storia” (GS 1).

 

Donatella Coppi

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