Koinonia Ottobre 2018


IL BISOGNO DI ANDARE TUTTI VERSO IL FUTURO

 

Quello che viviamo è un tempo di trasformazioni radicali che investono anche le chiese: la mancanza di certezze - che è alla base dei disturbi di cui soffrono società paurose del futuro in attesa di miracoli impensabili - comporta una nuova attenzione alle sole fonti di speranza a buon mercato, ma rischiose, offerte dal “sacro”. Infatti anche in ambito profano si sacralizzano pratiche pseudoscientifiche che promettono salvezza dalla depressione, farmaci immaginari, ignoranza dei vaccini, fanatismi animalisti o vegani, droghe, esoterismi.... Sembra necessaria una riflessione più attenta ai rischi che corrono coscienze rese insensibili ai “segni dei tempi”, che possono essere affascinate dai pifferai più o meno magici sempre interessati a comperare le anime.

Vero è che dentro le confessioni religiose i fedeli non sono più gli stessi: anche se non sono mai stati educati dalle loro chiese ad approfondire ciò che chiamano fede, si scoprono meno suggestionabili dalla tradizione a cui tuttavia continuano ad affidarsi, pur meno ingenuamente: ormai anche la frequentazione della messa e la vita diocesana risultano anaffettive e nessuno distingue i valori simbolici nella ripetitività rituale. Persiste, soprattutto nei più anziani, l’abitudine a ciò che è tradizione e che implicitamente riconduce al dogmatismo tridentino piuttosto che alla pastoralità del Vaticano II, nonostante abbiano figli e nipoti divorziati o conviventi e non più “osservanti”. I più giovani, che hanno conosciuto a scuola i nomi di Einstein, Marx, Freud e Darwin, percepiscono estraneo al loro sentire anche la preghiera a un dio astratto ed estraneo alla loro vita e si dichiarano tranquillamente atei o non-praticanti. Difficile, dunque, evitare che la trasmissione cristiana della fede continui il suo cammino se non la si libera da sovrastrutture insostenibili. Papa Francesco cerca, preoccupato dal crescente indifferentismo ormai evidente in tutte le società, di aprire alla ricerca di fede, anche individuale, che possa stimolare le comunità (e le parrocchie) al recupero dell’autenticità originaria.

Ortensio da Spinetoli, uno dei portavoce teologici della minoranza che aveva presentito e poi accompagnato il rinnovamento del cattolicesimo italiano già negli anni Sessanta (del secolo scorso) - e che di questo Seminario delle CdB è il nume tutelare - subì i guai che toccano quasi sempre ai profeti per essersi resi conto che la metodologia volta a ricercare i “segni dei tempi” - che Giovanni XXIII aveva insegnato a scoprire, iniziando dalla volontà di liberazione dei lavoratori, delle donne e dei popoli oppressi - venivano respinti dall’istituzione, ripiegata da secoli sulla tradizione e pronta a boicottare la necessaria novità di un Concilio di nuovo genere, non interessato a nuovi dogmi e responsabile di sentirsi semplicemente “pastorale”. Quegli ormai anziani cattolici che accompagnavano le messe con la chitarra sono ricordati dentro la società dell’immagine come figura strana: escludendo quanti hanno avuto la fortuna di restare legati a comunità che godevano di autonomia o tollerate anche in diocesi reazionarie, rappresentano la sconfitta del Vaticano II. Ha vinto la conservazione vaticana e, dopo cinquant’anni, è difficile recuperarne i contenuti, mentre tanti, non senza una propria coerenza, hanno finito per scegliere il matrimonio civile e di non battezzare i figli. Davvero dio non è onnipotente e va aiutato: ma ancora pochi conoscono Etty Hillesum e nemmeno noi delle CdB stiamo andando lontano nella ricerca per rispondere al bisogno di continuare.

Se oggi le Comunità di Base - e la minoranza che ha vissuto con sconcerto (e sofferenza) la sostanziale sconfitta del “proprio” Concilio - mentre restano in attesa del ritorno di speranze che non vanno date per perdute, dicono “beati gli atei”, non è perché intendano che, in fondo anche loro siano dei “diversamente credenti”, ma perché gli atei non hanno macerie alle spalle e possono aggirarsi in spazi di pensiero più liberi, mentre troppi, pur cristiani, non si rendono conto dell’urgenza del tempo che ci incalza.

Nel 2017 si è celebrato il quinto centenario della Riforma, uno scisma che non fu solo dovuto allo scandalo cattolico del mercato delle indulgenze, ma dalla mancata risposta a richieste che ovunque venivano dal basso e chiedevano la rimozione di incrostazioni che già allora ottenebravano la comprensione dei princìpi evangelici. La povertà della Chiesa doveva essere norma per chi cerca fedeltà; Gesù aveva istituito solo due sacramenti; mentre i miracoli, le reliquie, i pellegrinaggi e le “pie pratiche” erano sostanzialmente infiltrate dalla superstizione ed estranee all’autenticità della fede. Se Roma avesse avuto il coraggio di riformarsi, non ci sarebbe stato scisma e Lutero starebbe nell’agiografia cattolica. E sarebbe rimasto celibe, senza l’aiuto teologico di Katharina von Bora.

Giovanni XXIII fu pronto a riempirci di speranza: pensava la Chiesa come “un giardino bellissimo”. Paolo VI non fu il grande giardiniere coraggioso nelle potature: pur abilitato a innestare, concimare, disinfestare, era privo di “pollice verde”. Eppure non avrebbe dovuto avere incertezze se il Maestro aveva raccomandato di lasciar stare chi eventualmente usava male del suo nome, perché il tempo avrebbe fatto chiarezza; ma con gli i sacerdoti farisei e mercanti non aveva perplessità. Un’autorità ispirata all’impegno di costruire il regno, parla in forma intellegibile e attribuisce per davvero a tutti i battezzati la libertà e il compito di essere “re, sacerdoti e profeti”. Comunque il Vaticano II ha definitivamente portato il popolo di Dio a precedere ogni gerarchia: i sommi sacerdoti, i sinedri, i santuffizi, le monarchie, le kyriarchie hanno soprattutto il compito di servire, anche se i primi seguaci, uomini normali, immaginandosi il Cristo futuro re di Israele, gli chiedevano favoritismi e vantaggi di prima figliolanza (e non si è persa l’abitudine).

Non si sa quanta strada le nostre generazioni abbiano compiuto. Certo molta; ma siamo ancora senza norme che garantiscano la libertà religiosa e - ancor più grave per l’istituzione - senza la libertà di ricerca teologica. Vogliamo fare i conti delle censure, delle esautorazioni, delle riduzioni allo stato laicale di preti e laici? Dal movimento modernista a Bonaiuti, Mazzolari, Chenu, Rahner, Schillebeekx, Congar, Küng, ai teologi della liberazione, al nostro Giovanni Franzoni l’elenco è lunghissimo. Indecoroso per una Chiesa che ha per solo dogma l’amore. Eppure i cristiani laici hanno atteso due millenni per vedere riconosciuto l’amore umano come fondamento e valore primario del matrimonio, reso sacramento (per Paolo è solo “mistero grande”) ma negato dall’incredibile, fortunatamente caduto, materialismo del “remedium concupiscentiae”. D’altra parte l’amore è ancora nominato invano. Peggio: non è nominato proprio dove dovrebbe esserlo: il professor Ricca (alla sessione estiva 2017 del Sae, Segretariato delle Attività Ecumeniche) osservava che continua a non farne  menzione il Credo di Nicea - conclusivo, nel 325 d.C., di un Concilio voluto e presieduto da Costantino per metter fine a contese tra vescovi: lo leggiamo in ogni messa senza accorgerci che ci fa credere ad un dio che, più che padre e onnipotente, è amore.  Enel 2025 saranno passati 17° secoli.

Esempio di irriformabilità della dottrina? Speriamo di no, anche se neppure Francesco riesce a cambiare la lettera del catechismo del 1983 e articoli poco coerenti del diritto canonico. Anche perché i laici, pur “disubbidienti”, non sono diventati così audaci da rappresentare le esigenze e le proposte del mondo direttamente a parroci e vescovi, che non non muoveranno mai un dito, tranne i soliti pochi, senza la sanzione della legge. Eppure significherebbe dare efficacia alle sollecitazioni di Francesco. Cresce infatti - parallela all’espandersi del paradigma post-religionale - la contestazione reazionaria dei cattolici intransigenti: lo scorso anno un lungo articolo del Guardian britannico constatava che “Papa Francesco è oggi uno degli uomini più odiati del mondo. Quelli che lo odiano di più non sono gli atei o i protestanti o i mussulmani, ma i suoi seguaci”. Le Comunità di base sanno bene che, se i laici non aiutano fattivamente questo Papa - che potrebbe non essere troppo progressista, ma è uno che sa che senza dinamismo la Chiesa rischia il futuro - si perderanno altri anni fondamentali per la sopravvivenza del nome cristiano. Infatti sono maturi i tempi per discutere il celibato, la presidenza dell’eucaristia, la pratica della confessione, l’ecumenismo; anche il mantenimento della pena di morte, dell’in qualche modo giusta guerra e perfino dell’Ordinariato militare, alla luce di una spiritualità ormai largamente sentita.

Eppure restiamo oggettivamente al palo su molti terreni, non solo religiosi ma anche politici: la responsabilità del ritardo nell’attuare le riforme - che Carlo Maria Martini quantificava in duecento anni – ricade ancora su tutti i cristiani: siamo consapevoli della nostra modestia ma siamo anche di essere responsabili di questa particolare resistenza, per portare al futuro, rinnovati, i valori di cui facciamo sempre memoria.

Nemmeno le CdB stanno giocando tutte le carte che hanno in mano. Resta sostanzialmente autonomo il Coordinamento delle Donne (donne delle CdB), che si è venuto affermando a partire, nel IX seminario nazionale (23-25 aprile 1988), dalle “Scomode figlie di Eva”. I percorsi della cultura femminile hanno evidenziato la necessità di dare spazio alla prima delle differenze che connotano l’umanità, quella che, superando la conflittualità, dovrebbe ottenere l’accoglimento della “diversità” all’interno dell’ “uguaglianza”. Si è sempre più affermata l’esigenza che, come nelle determinazioni politiche e giuridiche laiche, anche nei discorsi di fede e nelle istituzioni clericali cristiane, cessi la purtroppo perdurante rimozione di uno dei due generi che, paritari nella creazione, hanno sempre subito la discriminazione imposta dal patriarcato. Bastano i titoli dei convegni delle donne CdB (consultabili sul sito) per rilevare la perdita che si autoinfligge la Chiesa universale, sorda alle proposte e alle provocazioni di un sapere che parte da sé, non teme (perché non sottovaluta) la corporeità, la sessualità e l’affettività umane, dà fondamento alla relazione tra le persone e con Dio, conosce il limite e la marginalità, rifiuta la logica amico-nemico, propone l’accoglienza, rifiuta la violenza del potere. E, consapevole delle diverse spiritualità che emergono da storie sempre diverse, è interessata a tentare la  rischiosa esplorazione di un “divino” non offuscato da idealismi e banalità rituali. Eppure perfino la teologia della liberazione ha rimosso il contributo di donne che offrivano un più ampio contributo teologico di liberazione ad una Chiesa che, per tradizione, esclude  dal magistero e dalla predicazione. La teologia femminista si è affermata, docenti donne insegnano nella università pontificie e perfino nei seminari ormai in via di estinzione, è ampia - nelle diverse confessioni  (e perfino in tutte le religioni) - la produzione libraria “di genere”; né sono pochi gli interventi di studiosi maschi che esprimono giuste critiche all’istituzione maschile e prospettano altrettanto giuste riforme; tuttavia nessun uomo affronta la ricerca secondo il proprio genere, nonostante quello maschile, a partire dagli stereotipi della violenza e della guerra, non sia in nessuna linea di principio migliore di quello femminile.

Forse parte di qui, anche per il resto del mondo - che dovrebbe preferire di vivere nella pace prevenendo la degenerazione dei conflitti in guerra - la parte più feconda di una “resistenza” che per la prima volta obbliga tutti e tutte (e anche le chiese, partendo dall’alto e dal basso) a puntare al futuro, ancora ignoto.

turo - si perderanno altri decenni fondamentali per la sopravvivenza del nome cristiano. Infatti sono maturi i tempi per discutere il celibato, la presidenza dell’eucaristia, la pratica della confessione, l’ecumenismo; anche il mantenimento della pena di morte, dell’in qualche modo giusta guerra e perfino dell’Ordinariato militare, alla luce di una spiritualità ormai largamente sentita.

Eppure restiamo oggettivamente al palo su molti terreni, non solo religiosi ma anche politici: la responsabilità del ritardo nell’attuare le riforme - che Carlo Maria Martini quantificava in duecento anni – ricade ancora su tutti i cristiani: siamo consapevoli della nostra modestia ma siamo anche di essere responsabili di questa particolare resistenza, per portare al futuro, rinnovati, i valori di cui facciamo sempre memoria.

Nemmeno le CdB stanno giocando tutte le carte che hanno in mano. Resta sostanzialmente autonomo il Coordinamento delle Donne (donne delle CdB), che si è venuto affermando a partire, nel IX seminario nazionale (23-25 aprile 1988), dalle “Scomode figlie di Eva”. I percorsi della cultura femminile hanno evidenziato la necessità di dare spazio alla prima delle differenze che connotano l’umanità, quella  che, superando la conflittualità, dovrebbe ottenere l’accoglimento della “diversità” all’interno dell’ “uguaglianza”. Si è sempre più affermata l’esigenza che, come nelle determinazioni politiche e giuridiche laiche, anche nei discorsi di fede e nelle istituzioni clericali cristiane, cessi la purtroppo perdurante rimozione di uno dei due generi che, paritari nella creazione, hanno sempre subito la discriminazione imposta dal patriarcato. Bastano i titoli dei convegni delle donne CdB (consultabili sul sito) per rilevare la perdita che si autoinfligge la Chiesa universale, sorda alle proposte e alle provocazioni di un sapere che parte da sé, non teme (perché non sottovaluta) la corporeità, la sessualità e l’affettività umane, dà fondamento alla relazione tra le persone e con Dio, conosce il limite e la marginalità, rifiuta la logica amico-nemico, propone l’accoglienza, rifiuta la violenza del potere. E, consapevole delle diverse spiritualità che emergono da storie sempre diverse, è interessata a tentare la  rischiosa esplorazione di un “divino” non offuscato da idealismi e banalità rituali. Eppure perfino la teologia della liberazione ha rimosso il contributo di donne che offrivano un più ampio contributo teologico di liberazione ad una Chiesa che, per tradizione, esclude  dal magistero e dalla predicazione. La teologia femminista si è affermata, docenti donne insegnano nella università pontificie e perfino nei seminari ormai in via di estinzione, è ampia - nelle diverse confessioni  (e perfino in tutte le religioni) - la produzione libraria “di genere”; né sono pochi gli interventi di studiosi maschi che esprimono giuste critiche all’istituzione maschile e prospettano altrettanto giuste riforme; tuttavia nessun uomo affronta la ricerca secondo il proprio genere, nonostante quello maschile, a partire dagli stereotipi della violenza e della guerra, non sia in nessuna linea di principio migliore di quello femminile.

Forse parte di qui, anche per il resto del mondo - che dovrebbe preferire di vivere nella pace prevenendo la degenerazione dei conflitti in guerra - la parte più feconda di una “resistenza” che per la prima volta obbliga tutti e tutte (e anche le chiese, partendo dall’alto e dal basso) a puntare al futuro, ancora ignoto.

 

Giancarla Codrignani

* Relazione al Seminario Nazionale delle Comunità Cristiane di Base Italiane (Rimini,  8 – 10  dicembre 2017)

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