Koinonia Ottobre 2018


LA VICENDA “ISOLOTTO” CI INTERPELLA*  

 

Ho accettato con gioia l’invito di padre Alberto  a dare un mio contributo a questo incontro dedicato a “ Il ’68 nella Chiesa di Firenze” per i profondi legami di amicizia che mi legano a lui ma anche alla vostra comunità e alla rivista di «Koinonia» che di recente ho potuto meglio conoscere e apprezzare grazie anche a Renato Scianò che la dirige e arricchisce con le sue bellissime vignette.

Credo che padre Alberto mi abbia invitato perché sono un testimone diretto della  “vicenda” dell’Isolotto che proprio nel ’68 ebbe un momento particolarmente intenso e significativo sia nella vita di quella parrocchia e della chiesa fiorentina, ma anche nel contesto di quel movimento più vasto che è stato il cosiddetto ’68.

In queste settimane ho pensato a lungo al taglio da dare al mio contributo e alle fonti da utilizzare. Il caso Isolotto infatti non solo presenta una complessità di vicende, ma anche ormai una letteratura abbastanza sterminata a cui attingere e rimandare.

Tuttavia mi è sembrato giusto di accantonare la mia formazione professionale di storico per privilegiare la mia condizione di testimone diretto e di membro ancora oggi della Comunità, di un’esperienza che ha avuto una germinazione di circa tre lustri, una fioritura particolare nel biennio ‘68-69, con molti frutti nei decenni successivi. Quell’esperienza comunitaria infatti dopo il 1970 non si è esaurita affatto ma continua  ancora oggi e nonostante la perdita di Enzo Mazzi e di molti altri suoi membri.

Vorrei innanzi tutto dire a chi non è abbastanza anziano da essersi fatta un’idea diretta delle vicende originatesi col ’68 all’Isolotto (il contrasto col vescovo di Firenze Mons. Florit, la rimozione dei sacerdoti dalla parrocchia, il processo a 9 fra sacerdoti e laici, le messe celebrate a lungo in piazza dell’Isolotto), che oggi esiste una vasta produzione di pubblicazioni della Comunità dell’Isolotto e una enorme mole di documenti conservati nell’archivio della Comunità. Un materiale vasto e ben ordinato che  consente il recupero memoriale e anche di ripercorrere le tappe salienti di quell’esperienza in modo molto preciso ed esauriente. (Per la vasta bibliografia delle pubblicazioni della Comunità rimando al sito della Comunità dell’Isolotto consultabile al seguente link: http://www.comunitaisolotto.org/. Nel sito si trova anche una pagina dedicata al suo archivio che per la ricchezza e l’importanza dei materiali documentari conservati ed ordinati ha avuto il riconoscimento di interesse da parte della Sovrintendenza archivistica della nostra Regione).

Un vasto mare di fonti letterarie e documentare nel quale a prima vista si può avere la sensazione di perdersi, sensazione che anche io che ho vissuto quella esperienza in prima persona ho avuto quando in vista del mio intervento a questa vostra iniziativa ho provato a pensare da dove partire.

Tuttavia ben presto mi è venuto in soccorso un testo che consiglierei anche a tutti coloro che vogliano rileggere quella vicenda nella prospettiva che è indicata nel titolo di questo nostro incontro odierno.

Il testo è  Il mio ’68 (Firenze, Centro Libro, 2000), un volume pubblicato in proprio dalla Comunità dell’Isolotto con la collaborazione della Biblioteca dell’Isolotto, il Quartiere 4 del Comune di Firenze. Si tratta di un racconto corale che raccoglie le testimonianze di tanti protagonisti che vissero nella comunità quel ’68 e ne ricordano i significati a loro avviso più importanti e, soprattutto, l’eredità a trent’anni di distanza.

Altro libro che ritengo utilissimo e da cui ho attinto per il mio intervento è Oltre i confini. Trent’anni di ricerca comunitaria, pubblicato nel 1995 dalla Libreria Editrice Fiorentina (che fra l’altro è stato forse l’ultimo atto di una storica collaborazione con questa importante casa editrice che tanto ha fatto per divulgare i frutti/testi della cosiddetta  germinazione fiorentina).

Vorrei partire da una considerazione di tipo più generale. Come storico e come testimone diretto trovo sempre più improprio il termine di “Chiesa del dissenso” coniato per descrivere la realtà dei fermenti suscitati nella chiesa a cavallo del Concilio Vaticano II e del pontificato di Giovanni XXIII. Mi sembra che oggi si tenda per fortuna, grazie anche a contributi recenti come quello del testo dedicato a don Rosadoni e a don Brandani dalla fondazione Balducci, a nuovi e più convincenti termini definitori per esempio quello di “germinazione”.

Ma soprattutto anche per quanto ci ha fatto capire di Bruno Borghi Antonio Schina nel suo recentissimo e quanto mai necessario testo (il settimo della collana dedicata agli “antimoderati” dal Centro di documentazione di Pistoia) mi sono convinto di quanto sia limitata e limitante la formula di “Chiesa del dissenso” che ha come termine sottinteso della figura la gerarchia ecclesiastica, mentre a mio avviso dovrebbe esser sostituita con “Chiesa del consenso” riferita appunto al Vangelo e alla figura di Gesù.

Solo quest’ultima figura - quella del consenso/fedeltà - rende giustizia ai valori che sono stati e sono alla base della vicenda dell’Isolotto (e non solo dei suoi sacerdoti, ma anche delle migliaia di parrocchiani): il concetto di prossimità, di incontro con Gesù e con la divinità del Dio-Padre negli ultimi, nei diseredati, nei vilipesi, negli emarginati, negli assetati di giustizia sui quali ricostruire una “ecclesia/comunità” basata sul concetto di servizio e non sul potere, sulla base e non sul vertice. Ecco, qui di seguito vorrei darvi in sintesi  le scansioni temporali di questo percorso comunitario.

Antefatto: 1954-1968. Prende vita e forma la parrocchia dell’Isolotto intesa come comunità dei fedeli, del popolo di Dio, piramide rovesciata, struttura di e al servizio degli ultimi, della base. Fra i tanti elementi fondamentali per questo percorso vorrei solo richiamarne  alcuni decisivi: un sindaco e un cardinale - La Pira e Dalla Costa - che hanno concepito ed alimentato l’utopia di un quartiere INACASA per lavoratori concepito come città giardino capace di vivere i conflitti come sintesi che prepara un terreno comune di comprensione e condivisione;  il Concilio Vaticano II; l’utopia di una “Ecclesia” che si fa “Comunità di cristiani”.

Il fatto: 1968-’69. La nascita della Comunità cristiana di base. (lo scontro con Florit e la gerarchia ecclesiastica, la cacciata dalla parrocchia; il processo; la sospensione della eucaristia).

Il post fatto: 1970-…: La comunità di base cristiana nella piazza e alle baracche verdi. L’isolotto oltre i confini; l’utopia globale della  prospettiva evangelica sempre attuale dell’esserci, della prossimità con le quali attuare l’utopia planetaria del LIBERARSI e LIBERARE.

Il contributo di questa esperienza e soprattutto - secondo quanto abbiamo posto come oggetto di questo incontro - l’eredità e gli interrogativi che essa ci pone ancora oggi vorrei indicarli con alcune  parole chiave: Prossimità; Germinazione; Memoria; Comunità.

Parole chiave che in realtà sono concetti fondanti ancora oggi per una prassi che si continua ad interrogare su questioni allora emerse e ancora oggi attuali e alla base della nostra esperienza quotidiana di comunità cristiana  di base e che qui di seguito provo a riportare in forma sintetica.

La comunità oltre il confine: la piazza e il crocicchio; la conflittualità del Vangelo ( l’annuncio pasquale  come invito ad assumere il conflitto consapevolmente, non per esasperarlo ma per indirizzarlo verso sbocchi positivi; la croce come germe della resurrezione); l’educazione alla fede ( Incontro a Gesù del 1969)

L’utopia della comunità di base si è rilevata sogno illusorio oppure risulta sempre attuale?

Il processo di unificazione del mondo nel segno della partecipazione dal basso sembra però contraddetto dai fatti.

L’attuale schizofrenia morale e sociale smentisce l’utopia della comunità di base.

L’utopia della comunità di base è troppo misera per affrontare la schizofrenia della società attuale?

Il rischio di diventare un’altra chiesa?

Un ulteriore rischio è quello di sfumare l’identità e l’appartenenza ecclesiali.

Il cammino da inventare:

Nell’ormai lungo cammino della nostra comunità si è sempre cercato di coniugare  l’impegno ecclesiale e sociale con la dimensione  umana e personale della ricerca comunitaria…. Coniugare insieme utopie e vissuto quotidiano ha costituito una costante delle nostre esperienze, ma non è stato assolutamente facile e non lo è tuttora. Giustizia,  uguaglianza, solidarietà, insieme a  democrazia, partecipazione, pluralismo, riappropriazione ecc., questi e mille altri ideali ci hanno permesso di riconoscersi l’un l’altro lungo un cammino condiviso e di sceglierci liberamente reciprocamente.

Queste domande e il tentativo di dare loro risposta costituiscono ancora oggi per noi un fondamento essenziale per alimentare la il nostro essere comunità in un contesto profondamente mutato, ma con la speranza di continuare a vivere una esperienza che sia sale e lievito per la vita di tutti, cioè  capace di liberarci e di liberare.

Penso fermamente che sia in questa prospettiva che il ’68 dell’Isolotto ci interroghi ancora oggi. Pertanto vorrei concludere questo mio fraterno contributo con un passo tratto da uno dei testi che in premessa citavo e che mi sembra condensi in modo efficace quanto ho cercato di dirvi:

Il cammino è tutto da inventare . Comunità senza parole d’ordine e regole scritte, senza rigidi principi e sicurezze, senza pregiudizi e omologazioni di gruppo. Comunità come libera scelta quotidiana, luogo di incontro, spazio dove si può condividere l’utopia e ricercare coerenze. Comunità vissuta nel segno della fondamentale fiducia nello spirito e nell’uomo. Comunità oltre i confini”. (Oltre i confini. Trent’anni di ricerca comunitaria, pp. 441, 443)

 

Mario Bencivenni

*Sintesi della relazione tenuta nell’incontro di Koinonia a Pistoia  il 29 aprile 2018

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