Koinonia Settembre 2018


Da Valdo Pasqui (Pistoia)

 

Caro Alberto,
        

grazie per il numero di Koinonia di agosto. Ho letto con grande partecipazione sia la tua lettera ai Cumani sia il testo di Vincent de Couesnongle. Molto apprezzata anche la vignetta di Scianò che sa sempre cogliere la giusta sfumatura, mantenendo un grande senso di dignità e di umanità in ciò che ritrae.

Caso (?) vuole che in parallelo, spigolando nel testo di Vittorio Subilia che di recente mi hai affidato, nelle pagine conclusive abbia trovato una serie di passaggi che condivido nei quali trovo anche un’affinità di fondo con alcune delle tue posizioni. Subilia è abbastanza dimenticato dal protestantesimo italiano contemporaneo perché considerato troppo conservatore. Anche queste due pagine che ho trascritto e che ti invio possono dare questa impressione.

Ma il richiamo al Regno di Dio, alla speranza e alla tensione escatologica e le argomentazioni sull’assenza di Dio a me sembrano di grande attualità. Altrettanto stimolante anche la sua nota esplicativa finale che ho voluto trascrivere integralmente.

Ho marcato in grassetto le ultime righe del testo perché opporsi alla “incredulità dei sicuri” e l’essere “una diaspora di aspettanti” mi sembrano due immagini che si addicono molto bene alla comunità di Koinonia: diaspora + aspettanti! Un abbraccio a presto,

Valdo

 

Predicare l’Evangelo in un’era non religiosa

Nel passato la speranza escatologica può aver frenato o addirittura paralizzato l’azione sociale: nel presente stimola l’ubbidienza cristiana a dare nel mondo segni anticipatori del Regno, ma deve guardarsi dalla tentazione di attenuare e sciogliere la tensione di rottura tra il mondo e il Regno che appartiene all’essenza dell’Evangelo.

Se i cristiani si limitassero ad aiutare i loro compagni di umanità nello sforzo di sistemare la città terrena, non sarebbe segno che hanno dimissionato dalla loro funzione profetica? Servire il mondo è cristianamente inservibile quando non significa comunicare al mondo l’Evangelo di Dio, anche se questo inevitabilmente comporta che la croce del Golgota prenda il posto della torre di Babele.

Non sarebbe il caso di ricordare una parola proprio di quel Sermone sul monte che è oggi la carta di fondazione dell’apertura sociale della Chiesa? Il compito dei cristiani non è tra l’altro quello di far comprendere agli uomini impegnati nelle attività politiche e sociali, succubi dei daimonia del potere e della ossessione economica di quelli che hanno e vogliono conservare, di quelli che non hanno e vogliono spartire con chi ha (Luca 12, 13-21), che «la vita val più del vestito e che in definitiva tutte le forme politiche, economiche o sociali, tutte le istituzioni, tutti i civismi, tutti i movimenti di resistenza, tutte le conquiste o le liberazioni, tutte le strutture sociologiche e tutti i mestieri, tutto questo non è che nell’ordine del vestito e non attinge in definitiva mai la vita» (J.Ellul, Fausse présence au monde moderne, Paris 1963)

I cristiani sono chiamati a contribuire alla costruzione del mondo, applicando vecchi o nuovi tipi di constantinismo, oppure a costruire la «comunità dell’Esodo» (J.Moltmann, Theologie der Hoffnung, München,1964), che vive in tende, senza sistemazioni stabili, che invita il mondo non a sistemarsi nelle sue Canaan di ieri e di domani, ma a incamminarsi verso il Regno, nell’attesa che Dio si manifesti, in una prospettiva non più limitata ai pochi che nella contraddizione e nella speranza hanno testimoniato Lui?

Ma come testimoniare di Dio nel contesto culturale e sociale del nostro tempo? Qui sta tutto il problema. Si sente bene che i vecchi metodi non funzionano più e i tentativi di trovare metodi nuovi sono ancora troppo maldestri per essere adeguati e per ottenere fiducia. E’ stato detto che il dilemma è tra predicare una Parola disincarnata o incarnare nell’Evangelo una parola straniera. […]

Nessun uomo dell’attuale generazione teologica, di nessuna Confessione e di nessun paese, sembra avere la statura necessaria per fornire le indicazioni attese e sperate. E può darsi che la nostra generazione passi senza trovare la via, vivendo smarrita in mezzo ad avvenimenti che stanno cambiando le fondamenta di una mentalità millenaria, con l’amarezza di non poter pronunciare nel nome e con l’autorità dell’Evangelo le parole decisive. Siamo di fronte ad un processo che supera gli orizzonti di una generazione e i suoi limiti: per la prima volta nella storia si tratta di dover predicare l’Evangelo in un’era non religiosa.

E’ più sano e più realistico esprimere che tacere la difficoltà, anche se a tutta prima deprimente, per partire da una coscienza leale della situazione ed evitare in qualsiasi misura una retorica teologica e culturale. Uno spirito aperto di analisi e ricerca è comunque più utile dell’inerzia e può essere fecondo di futuri ritrovamenti per la nostra o per le generazioni venture, a cui siamo debitori di originalità evangelica.

D’altra parte appunto: di fronte alle trasformazioni radicali, che con rapidità sconcertante stanno avvenendo sotto i nostri occhi non sarebbe cristianamente saggio lasciarsi paralizzare da troppi complessi di inferiorità e di frustrazione, nella sensazione che saranno questi avvenimenti a determinare il destino dell’uomo. Non dobbiamo dimenticare che i testi del Nuovo Testamento  non registrano, con sintomatico silenzio, i grandi avvenimenti spettacolari dell’Impero, ma ricordano la presenza di ignoti isolati che aspettavano «la consolazione d’Israele» (Luca 2,25-28). E’ stato detto che noi oggi «viviamo in un periodo in cui il Dio è per noi assente» e che la ragione ultima di questa assenza non è da ricercare soltanto nel processo di secolarizzazione della società moderna, nella nostra resistenza, nella nostra indifferenza, nei nostri dubbi, ma sta in Dio stesso: «è l’opera dello Spirito stesso di Dio, che Dio si sottrae alla nostra vista, non soltanto ai singoli, ma a intere epoche…E poi l’Assente può ritornare e riprendere il posto che gli appartiene e la presenza dello Spirito di Dio può di nuovo irrompere nella nostra coscienza» (P.Tillich, Das Ewige im Jetz. Religiöse Reden III, Stuttgart 1964) [1]. Quello che ci è richiesto è la cosa più difficile per l’uomo: saper attendere Dio. La vera incredulità è l’incredulità dei sicuri, dentro e fuori le Chiese, che non aspettano più. Una diaspora di aspettanti Dio è il contributo più efficace per la salvezza del mondo e, innanzi tutto, la condizione di quella continuità con la tradizione ebraico-cristiana del popolo di Dio che era cercata dalle Confessioni della Riforma, la conferma di un’autentica successione apostolica.

Tratto da: Vittorio Subilia, Tempo di confessione ed di rivoluzione, Claudiana, Torino, 1968

 

[1] Nota a margine di Vittorio Subilia:

Pare superfluo, ma forse non inutile a scanso di possibili equivoci, precisare che nella prospettiva di queste pagine il motivo del silenzio e dell’assenza di Dio non è in nessun modo apparentato a qualche mistica teologica o filosofica, ma vuole semplicemente essere un riferimento a quella politica di Dio di cui sapeva l’Antico Testamento, «tipico» anche per l’economia cristiana della fede secondo le intuizioni paoliniche (I Corinzi 10,11): ci sono dei tempi di giudizio in cui la Parola dell’Eterno è rara (I Samuele 3,1) e non la si può trovare su un uomo inaridito e meccanizzato dalla civiltà dei consumi, su una predicazione priva di discernimento e di autorità, il silenzio stesso è Parola, che equivale dire fedeltà al Patto, promessa di «ricordarsi» del proprio popolo in distretta, appello al ravvedimento, annuncio di una speranza: quando tutte le risorse sembrano esaurite, Dio ha la possibilità di aprire una strada in mezzo al mare (Esodo 14, 15 s.). certo la Parola è stata data, aspettare un’altra parola sarebbe un’attesa inutile: ma lo Spirito di Dio vivifica la sua Parola solo quando e dove a Lui piace, ubi et quando visum est Deo.

Può essere non del tutto fuori luogo ricordare che un testo apocalittico del II secolo, l’Ascensione di Isaia (3,21-31), presentando la situazione in cui si troverà la Chiesa al momento dell’avvicinarsi escatologico del Signore, quasi a commento di certe descrizioni veterotestamentarie della falsa profezia e di una impressionante parola degli Evangeli (Luca 18,8), dice che i suoi discepoli abbandoneranno la loro fede, la loro confessione e la loro purezza, molti pastori svieranno il gregge e ameranno l’onore di questo mondo: «Lo Spirito Santo si ritirerà da molti. E in quei giorni non vi saranno molti profeti né molti che dicano delle parole di certezza, salvo alcuni qua e là, a motivo dello spirito di errore, di fornicazione, di vanagloria e di cupidigia, che sarà in coloro, che tuttavia vengono chiamati suoi servitori e che lo confessano» (Cfr. E Hemmecke – W. Schneemelcher (Hrs.), Neutestamentliche Apokryphen, II, Tübingen 1964; M. Lods, Précis d’histoire de la théologie chrétienne du II au début du IV siècle, Neuch?tel 1966).

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