Koinonia Settembre 2018


KAIROS-ITALIA

Un Paese, una Chiesa... il vangelo

 

Ciò che mi consente di parlare è l’insufficienza e la provvisorietà di quanto sto per dire, in quanto espressione di un sentire che vuol farsi pensiero e comunicazione. Il presupposto è che si tenga presente quanto già detto a proposito di Kairos-Italia  come ipotesi di lavoro su un Paese, una chiesa... e il vangelo..

Se vogliamo rintracciare un riferimento evangelico per questa proposta, vedrei Gesù nella sinagoga di Nazaret, così come l’evangelista Luca presenta l’inizio della sua attività pubblica: non solo come universale annuncio del vangelo di Dio o del Regno, non solo come discorso programmatico con la proclamazione delle beatitudini, ma come evento situato e circostanziato, appunto a Nazaret, la sua patria, il suo paese. Il messaggio è uguale, ma i contesti sono diversi, quasi cerchi concentrici che si restringono, ma come compimento: tutte le genti, i poveri, la sinagoga di un paese,

Le parole che risuonano in questo luogo, dopo la lettura del passo di Isaia,  hanno una risonanza perenne: “Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete udito con i vostri orecchi” (Lc 4, 21). Sì, ci sono azioni e prospettive che in qualche modo si richiamano alle Beatitudini, ma c’è prima di tutto il fatto che quanto la Scrittura dice “oggi è compiuto”, così come del resto ci dice Marco: “Gesù andò nella Galilea, proclamando il vangelo di Dio, e diceva: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo»” (Mc 1, 14-15). Che è poi il fulcro o il perno di tutto il vangelo!

Ciò che è decisivo è la “pienezza dei tempi” e l’annuncio di quanto è compiuto, rispetto a quanto era nelle attese o si possa sperare: qualcosa da riconoscere e da cogliere, da non lasciarsi sfuggire o farsi cadere di mano. Riviviamo il pianto di Gesù su Gerusalemme:  “Quando fu vicino, alla vista della città pianse su di essa dicendo: «Se avessi compreso anche tu, in questo giorno, quello che porta alla pace! Ma ora è stato nascosto ai tuoi occhi… perché non hai riconosciuto il tempo in cui sei stata visitata” (Lc 19,41-44).

Se ci proponiamo Kairos-Italia sulla scia di Kairos-Sudafrica e Kairos-Palestina, è per guardare a questa opportunità da cogliere, all’impatto reale paese-vangelo, così come si presenta di fatto, ma soprattutto per capire come si sta sviluppando, come viene vissuto e come viene inteso questo rapporto in ambito ecclesiale e religioso e sul piano sociale e culturale. Non è insomma questione di trattare e sviscerare temi, ma di vedere come si rapportano con soggetti  concreti più che con predicati; di confrontarsi con entità reali più che con categorie: ciò che rimette al centro di ogni discorso la persona e le persone nel loro valore obiettivo come fonte di responsabilità e di libertà, sul piano della verità prima ancora che dell’agire. È più urgente sapere “cosa fare” o ricreare una coscienza di popolo ed evangelica?

Questo ci porta a dire che kairos non è mai evento separato, ma implica soggettività, relazione, e quindi singolarità prima che aggregazione formale, rapporto reale prima che rapporto intenzionale. Sono solo assaggi e indizi per dire dove è  la dimensione kairotica da mettere in rilievo ed in cui muoversi: che è appunto profezia, imprevisto, improvviso, emergenza, provocazione, e non  allineamento,  o conformazione a schemi precostituiti o a sistemi di valori; che è verità inedita e non semplice ripetizione tautologica del già detto. In questa prospettiva, parlare di cambiamento d’epoca non vuol dir cambiare pelle e osservare i fatti dall’alto o da fuori, ma lasciarsi coinvolgere nel processo globale in atto che ci attraversa come singoli e come collettività: esso si coniuga al tempo stesso al singolare e al plurale, mentre al di fuori di soggetti reali è solo vernice di facciata o puro nominalismo. In linea generale cambia un popolo alla base, là dove è il vero luogo di ogni cambiamento.

 

Se queste premesse sono plausibili almeno come ipotesi di lavoro, Kairos-Italia non è un tema da trattare sociologicamente, teologicamente o evangelicamente come momenti separati  In gioco c’è un paese e un popolo nelle sue diverse dimensioni e nel suo destino: non ci sono ingredienti allo stato puro da integrare, ma abbiamo un composto  da far decantare alla prova del vangelo, appunto come kairos, come momento di verifica. Il vangelo quindi non come elemento integrato nell’esistente, ma come provocazione e come scossa: non nella sua vulgata convenzionale di legge, ma nella sua irriducibile carica di grazia e di verità.

Infatti, ci si può rapportare al vangelo  come insegnamento e apprendimento nei suoi contenuti, ma è chiaro che il rapporto primario al vangelo è al fatto che ci mette davanti ad  un compimento, ad una presenza, ad un dono, in ultima analisi a qualcuno che provoca ad una risposta di fede: l’opera di Dio si compie al momento del credere, diversamente rimane inefficace.

Ed è in questa linea del compimento e della attuazione che il kairos si verifica e ci pone, e cioè nell’ottica del sensus fidei  e della esperienza vissuta di fede in quanto soggetti storici.  Perché, se alla fine è la carità a contare, è anche vero che il principio fondante è credere nell’amore: “Noi abbiamo riconosciuto e creduto all’amore che Dio ha per noi. Dio è amore; chi sta nell’amore dimora in Dio e Dio dimora in lui” (1Giovanni 4,16). La condizione in cui ci troviamo è quella descritta in 1Pietro 1,8 in riferimento a Gesù: “Voi lo amate, pur senza averlo visto; e ora senza vederlo credete in lui. Perciò esultate di gioia indicibile e gloriosa”.

Qui c’è l’anima della fede, che è amore per un Gesù invisibile, ma amore che spinge a credere e affidarsi a lui, facendosi suoi discepoli. Questo porta a diagnosticare una malattia della fede, quasi una schizofrenia: nel senso che c’è  un amore per Gesù separato da una fede nel Cristo come verità: c’è il mondo della devozione e della pietà e c’è il mondo  della riflessione teologica che coesistono ma non comunicano, in un sorta di armonia prestabilita. È un nodo da sciogliere, o meglio è una ricomposizione da operare perché la veste inconsutile del Cristo Gesù non venga divisa con una chiesa ridotta spesso a brandelli.

A questo proposito ci sarebbe tutto un lavoro da fare su come sono andate le cose nel dopo-Concilio: il fatto che sia stata recuperata una dimensione storica della fede rispetto ad una impostazione pastorale misterica e intimista, non sta a significare un abbandono del “mistero della fede” per un neo-temporalismo dal basso, ma sta a dire che credere è rimanere in Cristo come il tralcio alla vite per portare frutto, perché senza di lui non possiamo far nulla che ci salvi. Di fatto ci troviamo davanti ad un arroccamento cultuale e celebrativo da una parte, e a un insediamento della chiesa nel mondo dall’altra, quasi come supplenza ideologica dopo il crollo delle ideologie. E papa Francesco rischia suo malgrado di esserne il simbolo!

 

Questi pochi rilievi dovrebbero portarci a chiarire, a maturare e poi ad assumere il punto di vista “Kairos-Italia”, che potrebbe consentirci di decifrare come il vangelo di Dio è presente e opera in questo Paese e nella vita del suo popolo in quanto lievito nella massa; come la Parola di Dio viene seminata, recepita e riprodotta su questo terreno perché prenda in maniera inedita: di vedere non solo  dei principi ideali da una parte e condizioni materiali dall’altra, ma cogliere quei lampi che illuminano la scena del mondo e accogliere quella pioggia che cade dal cielo e vi ritorna non senza aver portato frutto: in modo da dare alla chiesa una forma di vita evangelica che la renda testimonianza viva nel proprio mondo.

Se Kairos-Italia è il nostro modo di guardare un Paese e una chiesa alla luce del vangelo, ciò apre una prospettiva e suggerisce anche un metodo. In un certo senso è assumere, per quanto possibile, il punto di vista di Gesù riguardo a Israele, a Gerusalemme,  al popolo che è il soggetto base, rispetto al Tempio, al Sinedrio, al sistema religioso e politico costituito. È un punto di vista teologale - che guarda al regno di Dio - ma al tempo stesso teologico, in quanto  il mistero di Dio investe la creazione, l’umanità, la storia tutta nella loro realtà originaria “senza confusione, senza cambiamento, senza divisione, senza separazione”.

Si tratta quindi di leggere il Paese insieme a tutti come sostrato comune in ordine alla nascita, alla liberazione, alla salvezza di un popolo. È una operazione di discernimento nell’azione e di azione nel discernimento, che interessa tutti e che quindi da tutti deve essere attuata: si potrebbe dire che è cammino sinodale nel vivere la fede, nel fare verità, nel compiere giustizia in mezzo agli uomini. Il soggetto di simile operazione è potenzialmente la chiesa nel suo insieme, in concreto è ogni nucleo comunitario che ne sia cosciente e se ne faccia carico: che traduca in atto la vocazione messianica e profetica del Popolo di Dio, non solo declamata o reclamata, ma vissuta e praticata.

Inutile dire quanto tutto questo abbia una ricaduta sul nostro modo di rapportarci e di comunicare. Certamente è stato questo il filo conduttore che ci ha guidato fino ad ora, ma forse è il momento di dare rilievo ad un modo di essere che si sviluppa sull’asse delle persone più che dentro schemi precostituiti. Se ora siamo ad un nuovo passaggio del nostro accidentato cammino, è necessario infatti trovare i canali giusti per assicurare continuità ad una iniziativa dello spirito, che è sì legata ad alcune condizioni materiali, ma che non si riduce ad esse, perché  ha un suo spazio di comunicazione e di collaborazione “senza luogo”.

Ed è proprio da questo centro di interesse e di comunione che si irradia a cerchi concentrici la forza del vangelo che ci coinvolge e che ci immette in costellazioni spirituali diverse e ci costituisce chiesa nel mondo. Siamo nuovamente proiettati in un’avventura dello spirito che ci chiama  tutti  ad una libera disponibilità in un servizio del vangelo tutto da inventare!

L’esperienza fatta in tutti questi anni e rinnovata con qualche esito a Pistoia - nella misura in cui è stato possibile - ci dice che il luogo naturale in cui un processo simile possa e debba avvenire è l’eucarestia come memoria di Cristo che deve farsi annuncio vivente attraverso ogni comunità che la viva e la celebri; attraverso la chiesa nel suo insieme, in modo cha la Parola di salvezza del vangelo risuoni nel Paese come “buona notizia”. Forse è per questa via che la chiesa può trovare una sua nuova e diversa collocazione nel Paese e dare di sé una immagine più evangelica e meno clericale! Meno tridentina e più Vaticano II.

 

Alberto B. Simoni op

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