Koinonia Settembre 2018


Qui di seguito si può leggere l’intervento di Sergio Quinzio al “Convegno di studio” in memoria di Aldo Capitini, che ha avuto luogo a Perugia il 14-15 ottobre 1988. È la riprova che non lo abbiamo dimenticato e che facciamo volentieri ricorso a lui per questa nostra lunga traversata verso una fede che viva di vita propria e che vinca il mondo, spoglia di tutti i rivestimenti religiosi, culturali e sociali con cui siamo soliti considerarla: la fede che libera la potenza di  Dio che è il vangelo.

Sarebbe fuori luogo inquadrare Sergio Quinzio come eccezione nell’assetto religioso tradizionale. Egli rappresenta invece - insieme ad tanti altri testimoni del vangelo - un orizzonte nuovo in cui muoversi se davvero andiamo verso una fede biblica vincolata solo alla Parola di Dio. In genere siamo portati a valorizzare ed ascoltare testimoni interni alla chiesa che magari propongono uscite e superamenti del sistema. Non sarebbe più opportuno fare tesoro di testimoni che dal di fuori hanno aperto percorsi di accesso al mondo della fede e stili di partecipazione alla vita della chiesa?

Non sarebbe male che chi è in grado di farlo si impegnasse a creare una galleria di figure significative in questo senso.

 

 

“Frammenti” di Sergio Quinzio

 

FUGA NEL MISTICO O SPERANZA PROFETICA?

 

Mircea Eliade, il grande storico delle religioni scomparso qualche anno fa, ha stabilito una divisione fra «religioni cosmiche» e «religioni storiche», distinguendo tra loro sulla base di una diversa concezione del tempo. Il tempo, appunto «cosmico», delle prime, è il tempo ciclico della natura, con l’eterno ritorno dell’identico, o del simile: giorni, mesi, anni, raccolti, generazioni. Il tempo, appunto «storico», delle seconde, è il tempo lineare della storia, in cui ogni avvenimento ha un inizio e una fine netti, così come l’intera vicenda storica ha un inizio, nella creazione, e una conclusione, nella fine del mondo, con l’avvento del «regno di Dio». Non tutti gli studiosi sono disposti a giurare su questo schema, che come tutti gli schemi ha la sua rigidità. Ma su molte cose è illuminante, e offre una chiave di lettura del grande passaggio dal mondo orientale e, in genere, politeistico e pagano, al mondo della tradizione ebraico-cristiana, e monoteistica in genere, che segna di sé, come evento fondamentale, la storia dell’Occidente. Il mondo moderno non sarà, in questo senso, che il frutto della secolarizzazione della fede e delle aspettative bibliche di salvezza, come molti autori hanno messo in luce, per esempio Gogarten e Loewith. Il laico, profano, ateo mondo moderno, se possiamo intenderlo come una specie di «eresia religiosa», è un’eresia della religione storica, non certo della religione cosmica. Non a caso è nato nell’Occidente cristiano.

Il mondo moderno, nella sua secolarità, laicità è cresciuto, per così dire, succhiando e consumando la propria madre. Le mete redentive della tradizione ebraico-cristiana sono diventate gli ideali moderni e profani di progresso della storia, di avanzamento delle scienze e della tecnica, di rivoluzione sociale, di liberazione dell’uomo dalla sua «naturale» condizione di sofferenza e di oppressione. Ma come le aspettative messianiche ed escatologiche delle prime generazioni cristiane non si sono realizzate, perché Cristo non è ritornato a stabilire il suo regno di giustizia e di pace, e il male non è scomparso dalla terra; così le moderne aspettative profane, ricalcate in definitiva su quell’antico modello religioso, sono lontane dall’essere soddisfatte. Le nostre generazioni sono quelle che hanno patito maggiormente l’impatto di questa delusione. Gli anni che vanno dal dopoguerra del secondo conflitto mondiale ad oggi hanno visto il sostanziale fallimento delle speranze moderne, e proprio quando il crollo militare delle dittature e l’esplodere delle possibilità tecnologiche e produttivistiche sembravano aprire nelle nostre società il campo a possibilità di cooperazione pacifica, di libertà, di benessere per tutti i popoli della terra, che nessuna epoca precedente poteva immaginare di avere a portata di mano.

Se dopo qualche decennio guardiamo a quel che stringono le nostre mani non si può non restare sconsolati. È inutile che, per tentare di consolarci, facciamo l’astratto inventario di quello che adesso abbiamo e che chi è nato prima di noi invece non aveva. Il confronto che istintivamente, esistenzialmente, vitalmente s’instaura dentro di noi è fra quello che abbiamo e quello che ci attendevamo di avere. La delusione sta in questo, mentre è una magra soddisfazione ricordarsi che altri, prima di noi, stavano peggio. Certo, valutazioni del genere sono molto soggettive, e quindi diverse fra loro; ma credo sia impossibile negare l’evidenza dell’insoddisfazione, dell’insicurezza, del disagio, della stanchezza, dell’incertezza, su tutto, che ha preso piede in noi in luogo delle fiduciose speranze di ieri. Non voglio proporvi nessun cahier de doléance, ma fenomeni come la degradazione ambientale, o  come l’estendersi dell’uso della droga anche fra i giovanissimi, come i dubbi angosciosi della bioetica, come gli insolubili problemi che rendono umanamente inabitabili le nostre città, come il crescente tragico divario fra il nord e il sud del pianeta, come la dilagante corruzione e violenza pubblica e privata, come l’esplodere di nuove terribili malattie, sono sotto gli occhi di tutti e riempiono ogni giorno i giornali e i teleschermi. Quasi improvvisamente sono ritornate le grandi paure che sembravano appartenere a secoli ormai lontani: paura del disastro atomico o ecologico, paura delle epidemie, paura del caos urbano, paura dello straniero...

Se questa è l’esperienza delle nostre generazioni, dove possono posarsi i nostri occhi, nel momento in cui osano rifuggire dai superstiti, e non di rado cinici, ottimismi? La «religione» rinasce qua e là in questo vuoto come un’ancora di salvezza, proprio perché la religione era già tale per la remota umanità che si trovava sola di fronte al tremendo mistero dell’universo. Ma a quale «religione» guarderemo? La tradizione ebraico-cristiana che abbiamo alle spalle è troppo simile al mondo che conosciamo: in quasi venti secoli l’abbiamo vista incarnata nelle stesse rigide strutture di potere e di controllo, sulla natura e sugli uomini. Soprattutto mi pare si possa dire che percepiamo attraverso i secoli della nostra storia una continuità «monoteistica»: l’affermazione cioè di un’unica, ben definita, verità, di un’unica regola di. vita che non lascia spazio alla libertà e alla creatività degli uomini. (Certo, c’è anche nel moderno, come nel cristianesimo, un annuncio - e anche un assaggio - di liberazione, di redenzione: ma la meta è sempre soprattutto futura, e intanto resta la necessità del sopportare ogni sorta di vincolo oggi in vista del futuro: per esempio, la società liberata è posta al di là della rivoluzione cruenta, o naufraga subito nella burocrazia). Automaticamente, i nostri occhi non guardano dunque al «monoteismo», alla «religione storica», ma al «póliteismo» e alla «religione cosmica», che, come dice per esempio James Hillman nel Saggio su Pan (1), liberano nell’uomo le sue illimitate potenzialità.

La religiosità che caratterizza in modo più consistente l’esperienza dell’uomo contemporaneo (ma non si può dimenticare che tocca in modo diretto e significativo soltanto delle minoranze) si volge alla «religione cosmica», che per noi è esotica (e ricava anche di qui il suo fascino), non alla «religione storica» che è - è stata - la nostra. È vero che anche il cattolicesimo mostra segni di vitalità, come stanno a indicare il ruolo assunto su scala mondiale dalla figura del Papa e i famosi e discussi «movimenti». Ma molto spesso a questa appariscente rivitalizzazione non corrisponde nessun autentico, profondo rinnovamento della fede cristiana, almeno nei paesi occidentali. Una pressoché insignificante minoranza comunque, fra tutti coloro che, nel mondo intero, si affollano intorno al Papa per vederlo, ascoltarlo, toccarlo, applaudirlo, segue i suoi insegnamenti e crede in ciò in cui il Papa crede: divinità di Gesù Cristo, resurrezione dei morti, vita eterna, peccato, inferno, fine del mondo... Mi sembra insomma si possa dire che, a guardar bene, anche dietro le forme del rilancio cattolico - al quale significativamente mi pare non corrisponda un analogo fenomeno in area protestante - si cela una domanda di religiosità di tipo cosmico, più che storico. Il Papa, è vero, parla molto dell’uomo, del mondo del lavoro, anche di pace e di democrazia, ma questi elementi sono, per così dire, dissolti in un clima sincretistico in cui, di volta in volta, prevalgono aspetti diversi. Ciò che in definitiva colpisce la gente non sono le specifiche affermazioni del Papa, ma il valore simbolico della sua figura. Può parlare per ribadire nel modo più rigido la prassi ecclesiastica cattolica tradizionale, oppure, quasi al contrario, per auspicare l’incontro ecumenico delle grandi «religioni universali»; può parlare per incoraggiare l’avanzamento dell’industria, dello sport e del turismo, oppure, al contrario, per indicare con toni apocalittici la minaccia che incombe sul futuro dell’umanità; ciò che in realtà esprime è soprattutto il richiamo simbolico a una dimensione ulteriore, pacificata, spirituale, e in definitiva lontana dalla concretezza dei veri problemi storici.

Tutta un’ala del cattolicesimo, quella che siamo soliti indicare come «progressista», o «conciliare», viene a trovarsi, così, in una posizione emarginata, in un processo ormai consolidato di «normalizzazione» del concilio Vaticano II che era stato invece salutato, dallo stesso papa Giovanni XXIII che l’aveva voluto, come un decisivo evento epocale, come una nuova Pentecoste. L’attuale movimento detto di «ritorno del sacro» va anche all’interno del cattolicesimo (si pensi per esempio anche al «caso Lefebvre») in direzione opposta a quella secolare e «laica» percorsa dai «progressisti» in sintonia con la realtà storica del mondo moderno.

Nell’esperienza religiosa contemporanea vedo dunque un bivio, che forse si coglie nel modo più preciso contrapponendo, all’interno come all’esterno della Chiesa, l’atteggiamento «mistico» all’atteggiamento «profetico», secondo l’opposizione chiaramente formulata da Gershom Scholem. A prevalere, di gran lunga, è il primo. Ma vediamo brevemente di caratterizzare i due atteggiamenti, che sono in larga parte corrispondenti ai due «tipi» di religione che sulle orme di Eliade abbiamo indicato come «cosmico» e come «storico».

Siamo qui per onorare la memoria di Aldo Capitini, a vent’anni dalla sua morte, e di lui desidero ricordare due frasi: «Oppressi è un salariato, ma oppresso... è anche il nato cieco, il morto... Tutti sono oppressi da una realtà sbagliata», anche il «verme squarciato in mezzo alla via»; perché non si potrebbe pensare una realtà diversa da quella di adesso, in cui «l’acqua di una piena copre egualmente un sasso e il volto di un bambino?»(2). Queste frasi rendono grandemente onore a Capitini, più di quanto possiamo fare noi con le nostre parole. Ebbene, queste frasi appartengono alla «profezia», e cioè alla speranza, alla volontà, all’annuncio di una realtà diversa da questa di cui conosciamo l’ingiustizia, la crudeltà, l’orrore. La realtà, è questo l’annuncio e l’imperativo capitiniano, così com’è, è inaccettabile, deve cambiare: e, com’è detto chiaramente nei passi citati, non deve cambiare solo «relativamente», per quella che è la possibilità umana di intervenire in essa per parzialmente modificarla, ma deve cambiare «assolutamente», al di là di quelle che sono le possibilità umane, le quali non possono salvare il bambino annegato. C’è «profezia» dove c’è riferimento all’assolutezza di questa esigenza che osa volere che non ci sia più la morte, dove cioè la «realtà sbagliata» non è solo quella che hanno costruito le colpe e gli errori degli uomini, ma anzitutto quella che pure il credente attribuisce all’opera creatrice di Dio, di quel Dio della cui giustizia attende ancora la piena manifestazione. Dove invece si pensa a una realtà sostanzialmente immutabile nelle sue strutture («cosmiche», cioè fondate sulla necessità dell’essere, in definitiva), e suscettibile solo di parziali accomodamenti umani, si è, a mio modo di vedere, al di fuori dell’orizzonte della «profezia», e della stessa originaria, autentica fede cristiana. Quali che siano allora l’impegno e l’opera nella concretezza dell’esistenza della storia, si resta fondamentalmente in un orizzonte mentale cosmico, pagano, il cui «divino» è l’essere e non il dover essere, la natura con le sue leggi insuperabili e non il bene, l’ordine dato e non la speranza della giustizia. Ma se si resta in questo orizzonte, allora la posizione mentale più adeguata, più coerente, è quella che si è espressa nelle filosofie religiose dell’antico oriente, per le quali la salvezza non è che conoscenza: se è vano sperare in una trasformazione radicale della realtà, qual è quella annunciata dal messianismo apocalittico ebraico-cristiano, allora l’impegno sociale per comparativamente piccole correzioni particolari, non sostenuto dalla speranza escatologica di «nuovi cieli e nuova terra dove abiterà la giustizia» (2 Pt 3, 13), non è molto più che una utile prassi tecnica, mentre a dominare è in sostanza l’accettazione della realtà così come da sempre è.

Se l’atteggiamento «profetico» è quello che ho cercato di dire (e che vedo purtroppo rarissimo nell’attuale risveglio religioso, perché è appunto un risveglio della «religione», molto più che della «fede»), in che cosa consiste il prevalente atteggiamento, all’interno o all’esterno del cristianesimo, che ho chiamato «mistico»? Di «mistica» - come  ha  scritto  Scholem - esistono tante definizioni quasi quanti sono gli autori che se ne sono occupati. Ma Scholem, nel confrontare tra loro atteggiamento mistico e atteggiamento profetico insiste su alcuni fondamentali elementi di contrapposizione. Se «il profeta ode un messaggio chiaro [rivolto al popolo, pubblico per destinazione]... che non ha nessun tratto oscuro, né quando è ricevuto né quando viene ricordato,... l’esperienza del mistico ha una natura completamente diversa, è indeterminata e inarticolata»(3). Scholem afferma che è tipicamente moderna l’idea di qualcosa come «un’astratta religione della mistica in assoluto» (in luogo delle mistiche «di una determinata forma religiosa»), e lega il fenomeno alla «tendenza al panteismo» dominante «negli ultimi cent’anni», per la quale «si è cercato di andare oltre le forme fissate e definite della religione positiva, verso una religione universale»(4). Scholem sostiene ancora che «il misticismo in quanto fenomeno storico è il prodotto di crisi»(5). Anche Romano Guardini, nei suoi Diari, vede nell’ultimo secolo l’affermarsi di una religiosità fra mistica ed estetica, che era stata già, a cominciare fin da Schleiermacher con il suo «sentimento dell’universo» (cioè cosmicità) di molti romantici. Ed è, a mio parere, la stessa religiosità che oggi si riaffaccia alla ribalta della storia in una specie di neo-romanticismo: sia a livello di diffusa sensibilità, riscontrabile anche nel nuovo clima ecologico, sia a livello di sottile ricerca intellettuale (penso in particolare a Cacciari e al suo rilkiano angelo...).

L’inizio di un simile atteggiamento - mistico o misticheggiante - è moderno, o immediatamente premoderno, come hanno mostrato ad esempio Cuthbert Butler (6) e Michel de Certeau (7). Su

questa linea (diametralmente antibarthiana!) procederanno coloro che fra i due ultimi secoli apriranno la via all’attuale diffuso movimento di «ritorno del sacro», rifiutando il riduttivismo illuministico e positivistico per riscoprire l’interesse per la religione e l’«autonomia del religioso»: fino a Jung, a Otto, a van der Leeuw, Eliade ecc..(8) Sui sentieri cosmici delle religioni orientali, dei guru, s’incontrerà anche la droga, secondo quanto testimoniano nomi come quelli di René Daumal o di Aldous Huxley. Una religione non «profetica», e cioè di trasformazione del mondo, ma una religione «mistica», e cioè di fuga dal mondo, si profila ormai sempre più nettamente all’orizzonte come l’astratta, sognata, estetica compensazione «spirituale» di una vita divenuta radicalmente insicura, totalmente imbruttita dai disastri ecologici e urbanistici e dal grigiore di una burocrazia planetaria che sempre più condiziona e soffoca, ogni giorno, l’esistenza umana.

 

Sergio Quinzio

 

1. J. Hillman, Saggio su Pan, Milano, Adelphi, 1977.

2. A. Capitivi, Religione aperta, Vicenza, Ed. Neri Pozza, 1964, p. 194; Vita religiosa, Bologna, Cappelli, 1985 2, p. 98 e p. 11.

3. G. Scholem, La Kabbalah e il suo simbolismo, Torino, Einaudi, 1980, pp.14 s.

4. G. Scholem, Le grandi correnti della mistica ebraica, Genova, Il Melangolo, 1986, p. 19.

5. G. Scholem, La Kabbalah e il suo simbolismo, cit., p. 43.

6. C. Butler, Il misticismo occidentale, Bologna, Il Mulino 1970.

7. M. de Certeau, Fabula mistica. La spiritualità religiosa tra il XVI e il XVIII secolo, Bologna, Il Mulino 1987.

8. Cfr. G. Filoramo, Religione e ragione tra Ottocento e Novecento, Bari-Roma, Laterza 1985.

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