Koinonia Settembre 2018


BRUNO SEGRE:

UN EBREO ITALIANO TESTIMONE DEL NOSTRO TEMPO

 

Studiando alcuni scritti su e di Adriano Olivetti, di cui vorrei trattare nei prossimi numeri di Koinonia, tra i molti nomi della cultura italiana che hanno collaborato e contribuito alle sue iniziative nella seconda metà degli anni ’50 del secolo scorso ho scoperto Bruno Segre e poi, grazie a padre Alberto Simoni, ho potuto approfondire la sua conoscenza giovandomi della lettura di Che razza di ebreo sono io, Edizioni Casagrande, Bellinzona 2016. Si tratta di un libro intervista, curato da Alberto Saibene, curatore degli scritti di Adriano Olivetti per le Edizioni di Comunità, che con domande incisive e ben calibrate ha consentito a Segre di fornire, attraverso la narrazione di alcune delle vicende più significative della propria vita, una lucida testimonianza degli avvenenti di quasi un secolo che l’hanno visto protagonista: le leggi raziali, la nascita della Repubblica italiana, il movimento sionista e la fondazione dello stato di Israele, l’esperienza dell’Associazione Amici di Nevé Shalom/Wahat al-Salam e l’attuale politica israeliana.

 

Bruno Segre nasce a Lucerna nel 1930, il padre Emanuele era figlio di Gabriel, commerciante di stoffe a Torino, e di Sara Osimo proveniente da Monticelli d’Ongina, un paese che prima dell’unificazione dell’Italia faceva parte del Ducato di Parma, Piacenza e Guastalla. La madre, Katheleen Keegan, era figlia di un chirurgo militare cattolico nato a Dublino e di una ebrea nata a Vienna, vissuti per molti anni in India. La famiglia di Bruno è ebraica ma secolarizzata e così egli cresce a Milano in un ambiente per il quale la cultura ha un ruolo primario e le vicende di cui sarà protagonista lo porteranno fin da piccolo a privilegiare la lettura e lo studio.

Nel 1938 l’entrata in vigore delle leggi razziali determina uno sconvolgimento nella vita di Bruno: costretto ad abbandonare la scuola pubblica, i suoi genitori decidono di non iscriverlo ad una scuola ebraica ma di farlo studiare privatamente, questi avvenimenti determinano una “infanzia abbastanza solitaria”, gli fanno imparare che “è meglio sparire dalla circolazione e non farsi notare”, lo portano all’amara consapevolezza di essere “diventato invisibile”.

 

Ma il fatto ancor più tragico è la morte prematura del padre, a soli 51 anni nel 1941, a causa di un ictus che Segre riconduce esplicitamente alla delusione provata, dopo due anni di attesa, per il rifiuto da parte delle autorità (il Prefetto di Milano) di concedergli la ‘discriminazione’. Era questa una forma attenuata della persecuzione, prevista dalla legge dallo stato fascista per i «cittadini italiani di razza ebraica» considerati ‘buoni’ poiché devoti al regime. Segre rivela di aver temuto per molti anni che il padre si “fosse venduta l’anima” con questa richiesta e che solo nel 2014, dopo aver potuto leggere il testo inviato alla Direzione generale “Demorazza”, scoprì che in quella lettera il padre “reclamava” che venisse restituito a lui, alla moglie e ai suoi due figli, «l’onore dell’italianità». Quest’uomo inutilmente aveva cercato e sperato di riuscire a difendere l’identità italiana della propria famiglia di fronte alla cieca discriminazione fondata sull’assurdo principio dell’identità razziale. Ma nel ripercorrere questa tragica pagina delle storia italiana Segre, con grande realismo, precisa che in quegli anni  la massa degli ebrei italiani “si faceva gli affari suoi come è uso, da sempre, tra gli italiani”, ricorda che vi furono anche “rapporti non trasparenti” tra le istituzioni dell’esigua minoranza ebraica (“l’uno per mille della popolazione”) e il fascismo e stigmatizza come da parte fascista la possibilità prevista dalla “discriminazione”, negata al padre, fosse “un ammiccamento sornione, una sollecitazione neppure troppo coperta alla corruzione. Una storia molto italiana, appunto” (p.31).

A proposito della Shoah, più avanti nel libro, Segre afferma che il genocidio ebraico “continuerà ad essere la matrice fondamentale per la comprensione del nostro tempo storico” e  “la Shoah si porrà quindi per sempre quale paradigma e testimonianza della millenaria follia del mondo”. Poi ricorda anche la svolta decisiva determinata da Papa Roncalli che ricevette in udienza privata Jules Isaac (1877 – 1963; storico francese), impegnato nel denunciare le radici teologiche della giudeofobia dei cristiani, e che  con la convocazione del Concilio Vaticano II avviò “un cambiamento epocale nei rapporti cristiano-ebraici, sconfessando quell’«insegnamento del disprezzo» che per quasi duemila anni aveva contrassegnato la liturgia e la catechesi di cattolici nei confronti degli ebrei”.

 

Dopo la guerra, nell’autunno del ’47, Bruno si iscrive a filosofia alla Statale di Milano dove conseguirà la laurea con Antonio Banfi in un contesto di elevato livello culturale che comprendeva anche Cesare Musatti, Silvio Ceccato, Umberto Segre, Paolo Rossi e Rossana Rossanda. Negli anni cinquanta si occupa di sociologia della cooperazione ed educazione degli adulti nell’ambito del Movimento Comunità fondato da Adriano Olivetti, poi insegna in Svizzera dal 1964 al 1969.

La seconda parte del libro raccoglie una serie di esperienze legate allo stato di Israele e alla ebraicità di Segre. Egli compie il primo viaggio in Israele nel ’61, quasi da turista, come componente del Coro ebraico di Milano, e ha così l’occasione di vivere per alcuni giorni in alcuni kibbutzim entrando in contatto con comunità e stili di vita che, incluso il modo di celebrare lo shabbat, definisce “una società laica e socialista, qual era Israele nei suoi primi due decenni di vita”. Una bella l’immagine che gli è rimasta impressa e che ci  trasmette, fatta di “donne e uomini non tanto preoccupati di chiudere i conti con le atrocità tutte europee del recente passato, quanto protesi a guardare in avanti, pieni di estro creativo, impegnati a costruire senza modelli precostituiti un futuro di libertà per sé e per i propri figli, e inflessibili nel tutelare tali libertà”.

Poi, nel 1967, la Guerra dei sei giorni è l’evento che secondo Segre “determinò un’autentica svolta nella storia del giovane Stato” e che egli non esita a considerare come causa di un “abbaglio colossale” che rese tutti ciechi per un po’ di tempo: “Soltanto pochi capirono da subito che, con lo strepitoso successo militare, avrebbe avuto inizio un cambiamento radicale dello spirito che aveva animato Israele durante i suoi primi passi, alla fine degli anni Quaranta”. Tra questi “pochi” Segre annovera Nahum  Goldmann, uno dei fondatori di Israele, e Yeshayahu Leibowitz, filosofo e biochimico di origine lettone, che pur essendo un sionista e un ebreo ortodosso raccomandò alle autorità di rinunciare quanto prima ai territori invasi prevedendo che un numero crescente di “ebrei nazional-religiosi” si sarebbero insediati in Cisgiordania, “animati da una sorta di idolatria del territorio” ispirata dalla convinzione che in tale area geografica fossero avvenute le vicende della Bibbia.

 

Ritornato in Israele nel 1977 Bruno Segre incontra a Gerusalemme Yehoshua Arieli, docente di storia contemporanea all’Università ebraica, che gli spiega come l’annessione dei territori occupati, nei termini auspicati da Menahem Begin, capo del Likud, il partito di destra al potere, “avrebbe significato la scomparsa di Israele così come l’avevamo conosciuto dalla fondazione”. Arieli già allora vedeva nei coloni che in numero crescente andavano insediandosi nei territori l’affermazione di una forma di nazionalismo “fondato su simboli religiosi pervasi di misticismo e di spirito messianico” che esponeva Israele a una “deriva destinata a far dimenticare la tradizione razionale e umanistica dl progetto sionista originario”. Segre scrive che Arieli era convinto che uno Stato degli ebrei non potesse mantenere da un lato il carattere di “Stato ebraico” e “Stato democratico” e dall’altro sottomettere una minoranza ostile con specifiche caratteristiche nazionali, una visione lucida che anticipava quanto poi è accaduto ovvero “il colonialismo e la corruzione dello stato egemone”.

Sulle riflessioni relative all’evoluzione delle stato di Israele si inserisce la parte del racconto legata alla vicenda di Nevé Shalom/Wahat al-Salam, il villaggio fondato nel 1972 dal  Bruno Hussar a ovest di Gerusalemme  su un terreno preso in affitto dal monastero di Latrun e abitato da famiglie arabe ed ebree, attualmente 60. Figura oltremodo interessante anche questa, il cui vero nome era André, nato al Il Cairo nel 1911 da famiglia ebrea non praticante e di origini europee (padre ungherese e madre francese), dopo aver studiato al Liceo italiano de Il Cairo e aver conseguito la laurea in ingegneria presso l’École centrale Paris, spinto dal desiderio di creare ponti tra gli uomini si converte al cristianesimo ed entra nell’ordine Domenicano assumendo il nome di padre Bruno. Inviato a Gerusalemme vi fonda un centro studi sul giudaismo, partecipa in modo attivo al Concilio Vaticano II contribuendo alla redazione della dichiarazione Nostra Ætate sulla Chiesa e le religioni non-cristiane (1965), nel 1966 diventa cittadino israeliano e nel 1972 fonda la comunità il cui nome significa “Oasi di pace”. Segre del fondatore Bruno Hussar dice che era capace di armonizzare quattro diverse identità: l’origine ebraica, l’essere cristiano, la cittadinanza israeliana e il sentirsi vicino ed in sintonia con gli arabi.

 

Bruno Segre dal 1991, anno della sua costituzione, fino al 2007 ha presieduto l’Associazione Amici di Nevé Shalom/Wahat al-Salam e questo gli ha consentito di mantenere stretti rapporti con la comunità recandosi diverse volte all’anno in Israele. Riguardo al villaggio spiega che i fondatori erano animati dalla convinzione che l’unico modo per poter lavorare insieme raggiungendo obiettivi comuni fosse “vivere in una comunità paritetica (e giusta)” producendo “educazione alla pace”. Al suo intervistatore che osserva che in fondo questo villaggio è una goccia nell’oceano, risponde in modo semplice ma significativo: “Certo, però esiste”.

Segre dal 2001 al 2011 ha diretto il periodico di vita e cultura ebraica «Keshet» e ha scritto numerosi saggi tra i quali  Gli ebrei in Italia (1993; La Giuntina 2001), Shoah (1998; Il Saggiatore 2003) e Israele la paura la speranza (2014; Wingsbert House), ‘Adriano Olivetti‘ (2015, Imprimatur). Sulla base di queste sue esperienze e della vasta conoscenza del mondo ebraico e di Israele la seconda parte del libro-intervista è principalmente dedicata alla sua visione critica dello Stato di Israele.
Segre ovviamente non mette in discussione la difesa del diritto di Israele ad esistere “come popolo e come Stato”, ma non condivide la frequente equivalenza tra “sostegno a Israele” e “lotta contro l’antisemitismo” e denuncia il fatto che, anche in Italia, i pochi ebrei che denunciano “il progressivo degrado della democrazia israeliana ad opera dell’estrema destra al governo, vengono sistematicamente marginalizzati e tacciati di tradimento, di antisemitismo, di essere  “ebrei che odiano se stessi»”. La convinzione di Segre è che se Israele vuole conservare la propria natura e ebraica e democratica deve garantire ai palestinesi “uno Stato, vale a dire un territorio, un orizzonte politico e un futuro istituzionale”. La sua posizione è decisamente critica nei confronti non solo del Likud e del suo leader Netanyau, ma anche della miriade di partitini che costituiscono le frange più estreme di una destra politica che alimenta la paura mossi da “una ideologia populista i cui principali ingredienti sono l’islamofobia, un timore generico ma radicato degli arabi e un’irriducibile sfiducia verso i goym, la comunità internazionale”. In questa critica Segre non risparmia nessuna delle componenti della variegata società israeliana: gli ebrei orientali che temono e detestano gli arabi; i nazionalisti che provengono dall’ex Unione Sovietica contrari a tutto ciò che evoca la “sinistra”; gli ebrei ultra-ortodossi che vivono nel passato remoto; i coloni nazional-religiosi che si considerano le “avanguardie del Messia” e “presidiano con il sostegno di nuclei di millenaristi cristiani (protestanti evangelicali) vaste aree dei territori occupati”.

L’ultima esperienza di cui ci parla Segre è quella della rivista «Keshet» (“arcobaleno” in ebraico), nata come bollettino dell’omonima associazione di cultura creata nel 2000 a Milano con un’impronta laica e pluralista. E’ l’occasione per esplicitare nel testo il suo concetto di laicità: “sono laici, pertanto, tutti gli ebrei, poco importa se «secolarizzati» od «osservanti», che rifiutano di lasciarsi imporre, e anche di imporre, un “pensiero unico”, ossia qualcosa che ogni ebreo che si rispetti considera poco kasher.” 

 

Bruno Segre precisa che la sua laicità lo porta a schierarsi contro il “dogmatismo prevaricatore, qualsiasi matrice esso abbia e chiunque lo brandisca”, questa visione laica in cui non perde occasione di sottolineare l’importanza del pluralismo “come segno di ricchezza, come una benedizione” è accompagnata anche da una forte diffidenza nei confronti delle istituzioni religiose, considerate come “centri gerarchici di potere al cui interno apparati di chierici organizzano burocraticamente le funzioni liturgiche e gestiscono dogmaticamente il consenso attorno al pensiero unico: un pensiero imposto da chi sta in cima”. Questa affermazione, suscettibile ovviamente di discussione e valutazione in base alle diverse esperienze e appartenenze confessionali, va comunque nella direzione delle riflessioni e di molti incontri di Koinonia degli ultimi anni sul tema della riforma della chiesa, e di cui Bruno Segre è stato ospite.

A conclusione di questa ampia, ma parziale carrellata, vista la ricchezza di argomenti e di spunti che il libro propone, come ultima citazione mi sembra opportuno riportare la frase con la quale Bruno Segre descrive il seder di Pesah preparato per i quattro nipoti nel tentativo di dare una risposta alla domanda della piccola Eli, 6 anni, che gli aveva chiesto cosa volesse dire essere ebreo: “ai miei ragazzi riuscii a trasmettere, in forma molto piana, che noi siamo i lontani discendenti di una torma di schiavi che, fuggiti dall’Egitto, si sono ritrovati nel deserto come popolo libero, e sempre nel deserto hanno ricevuto grazie al loro capo Mosè, le tavole della legge, cioè un codice di comportamento di valore universale. La conquista della libertà non può andare disgiunta da un’assunzione di responsabilità”.

 

Valdo Pasqui

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