Koinonia Settembre 2018


NEL CUORE DEL CRISTIANESIMO (I)

 

Parte prima: Un mondo in agitazione

 

Per comprendere meglio il più antico tra gli scritti del Nuovo Testamento, la Prima lettera ai Tessalonicesi, si deve anzitutto tenere conto del contesto in cui è nata. Tessalonica era in quegli anni capitale della provincia romana di Macedonia. Città ricca di affari commerciali e situata in una posizione strategica, vedeva passare di lì tutti coloro che dall’Adriatico si spostavano verso l’Asia. Essa ospitava tra l’altro una considerevole colonia ebraica e proprio per questo fu uno dei primi centri della cristianità.

Nel suo secondo viaggio missionario Paolo vi giunse insieme a Sila (o Silvano) e Timoteo. Tutto questo è raccontato negli Atti, al capitolo 17: “Giunsero a Tessalonica, dove c’era una sinagoga dei Giudei. Come era sua consuetudine, Paolo vi andò e per tre sabati discusse con loro sulla base delle Scritture, spiegandole e sostenendo che il Cristo doveva soffrire e risorgere dai morti”.

Qui non dobbiamo pensare che per quegli ascoltatori il Cristo fosse Gesù, per i giudei il Cristo altri non era che il Messia atteso da Israele, quello di cui parlavano i profeti e che secondo loro doveva ancora venire: ecco perché Paolo dovrà specificare subito dopo che il Messia era già venuto ed era quel Gesù che egli stava annunciando. Come finì la discussione? Finì che “alcuni di loro furono convinti e aderirono a Paolo e a Sila, come anche un grande numero di Greci credenti in Dio e non poche donne della nobiltà. Ma i Giudei, ingelositi, presero con sé, dalla piazza, alcuni malviventi, suscitarono un tumulto e misero in subbuglio la città”.

 

A seguito di ciò Paolo e i suoi due amici dovettero scappare fino alla città di Berea, dove trovarono migliore accoglienza. È scritto infatti che gli abitanti di lì “erano di sentimenti più nobili di quelli di Tessalonica e accolsero la Parola con grande entusiasmo, esaminando ogni giorno le Scritture per vedere se le cose stavano davvero così. Molti di loro divennero credenti e non pochi anche dei Greci, donne della nobiltà e uomini. Ma quando i Giudei di Tessalonica vennero a sapere che anche a Berea era stata annunciata da Paolo la parola di Dio, andarono pure là ad agitare e a mettere in ansia la popolazione. Allora i fratelli fecero subito partire Paolo, perché si mettesse in cammino verso il mare, mentre Sila e Timoteo rimasero là. Quelli che accompagnavano Paolo lo condussero fino ad Atene e ripartirono con l’ordine, per Sila e Timoteo, di raggiungerlo al più presto.”

Paolo ad Atene incontrerà i filosofi con i modesti risultati che conosciamo: in quella città di fatto non sarà mai fondata una chiesa. Poi scenderà a Corinto, dove incontrerà Aquila e sua moglie Priscilla, che erano arrivati poco prima dall’Italia. Paolo “si stabilirà in casa loro e lavorava. Di mestiere infatti erano fabbricanti di tende”. Appena però Sila e Timoteo giunsero dalla Macedonia, ecco che Paolo si dedicherà “tutto alla Parola, testimoniando davanti ai Giudei che Gesù è il Cristo” (At 18,1ss). Ci fa molto bene vedere uno come Paolo bisognoso di lavorare con le proprie mani per guadagnarsi da vivere: la fede rischia l’astratto se perde il contatto con le cose più umili e vere della vita.

Sarà in quei giorni che, dopo avere ascoltato Sila e Timoteo, Paolo scriverà la Prima lettera ai Tessalonicesi, quella in cui ci è dato trovare il cuore del   messaggio cristiano della prima ora, l’annuncio che il Signore sarebbe tornato presto. È questo non altro il motivo per cui la comunità cristiana aveva spesso in bocca il grido: Marana tha, “Vieni Signore Gesù”.

Tutto questo è stato col tempo dimenticato, o del tutto frainteso, al punto che nella mentalità odierna i credenti pensano che il momento in cui “il Signore verrà come un ladro di notte”, sarà il momento della propria morte. Come a dire: se la persona cara che infinitamente amiamo muore improvvisamente, in un incidente stradale per esempio, ecco che per lei sarebbe quello il momento in cui il Signore viene. Un giorno una suora, mentre parlavo con lei di escatologia, mi disse ad un certo punto con aria del tutto serafica: ‘Ma certo che lo aspetto il Signore, la vita è sempre un imprevisto, in ogni istante potrebbe arrivare il momento della mia morte!’.

 

Ma è questo che dovrebbero intendere i cristiani quando si parla della venuta del Signore? Sicuramente no, ed è proprio la grande tradizione della Chiesa a dircelo, a cominciare da questa preziosa Lettera di Paolo, in grado di svelarci il pathos e la potenza interiore che muoveva quella gente e coloro che incontravano. Al punto che “i Giudei ingelositi” (anch’essi ancora quasi tutti ebrei, come ebreo era Gesù oltre che lo stesso Paolo, non dimentichiamolo), chiamavano i primi cristiani: “quei tali che mettono il mondo in agitazione” (At 17,6). Un’espressione così provocatoria che ci porterebbe a discutere parecchio pensando al poco fastidio che invece diamo noi cristiani di oggi, alla tiepidezza della nostra fede.

Lì la passione del credere era capace di “grandi progressi” (2 Ts 3) e tale che soltanto con la loro presenza i credenti riuscivano a mettere in uno stato di pensosità coloro che incontravano. Ascoltando quella gente, vedendo il loro modo di vivere e comportarsi, era come se tutta quanta la realtà attorno la si iniziasse a percepire in un altro modo, a guardarla con altri occhi: gli occhi della fede. Essi erano scossi da una “straordinaria potenza” che non veniva da loro ma da Dio (2Cor 4,7), una potenza che faceva sentire fin dentro le proprie viscere verità dell’altro mondo, verità scomode alle autorità religiose di turno ma bene accolte dalla gente comune, dai pagani soprattutto. In quei credenti viveva una speranza inaudita, una gioia contagiosa, anche in mezzo alle persecuzioni, una capacità di bene non riscontrabile altrove. Paolo parla di amore di madre, di amore di padre, di amore di fratelli e sorelle in grado di offrire la vita se era necessario. Solo così si può capire perché in pochi decenni essi metteranno sottosopra tutto il mondo allora conosciuto. Non solo: lo stesso nostro mondo di oggi, quello del progresso e della tecnica, sarebbe inconcepibile senza quel potente e improvviso agitarsi dei credenti di duemila anni fa.

Ma per comprendere a fondo il cuore di quel messaggio, accostiamoci a quanto rispose lo stesso Paolo ai “filosofi” d’Atene, desiderosi di conoscere meglio quelle “cose strane” che cercava di mettergli “negli orecchi”. Il Dio che vi annuncio – dice Paolo – è quello che in principio creò ogni cosa affinché tutti lo si cerchi “tastando qua e là come ciechi”, sebbene “non sia lontano da ciascuno di noi”. Ma non finisce lì: il fatto è che questo stesso Dio “ordina che tutti e dappertutto si convertano”. Sì, ma a quale fine? Alla creazione di una società più buona e più giusta? No, la conversione è unicamente finalizzata al “giorno” in cui Dio stesso ha stabilito che “dovrà giudicare il mondo con giustizia, per mezzo di un uomo che egli ha designato, dandone a tutti prova sicura col risuscitarlo dai morti” (At 17, 18-31). Il messaggio paolino è dunque rivolto a due eventi ultimi e decisivi per la nostra fede, eventi concretissimi che possiamo solo attendere convertendoci, iniziando cioè non solo a credervi, ma persino ad attenderli giorno dopo giorno: la risurrezione dei morti e il giudizio ultimo.

 

È alla luce di questa conversione e di questa attesa prese assolutamente sul serio che i cristiani di Tessalonica vivevano il vero e proprio dramma di alcuni che tra loro stavano morendo. Dramma che troviamo riflesso anche nella Prima lettera ai Corinti, nella quale Paolo farà questa precisa affermazione: “Chi mangia e beve senza riconoscere il corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna. È per questo che tra voi ci sono molti ammalati e infermi, e un buon numero sono morti” (1Cor 11,29-30). Sono parole, queste, che anche a Tessalonica erano certamente risuonate, poiché riguardavano il centro di ogni comunità cristiana: la santa cena, l’Eucaristia, il mangiare il corpo e il sangue del Signore, da vivere ogni volta - anche oggi - “finché egli”, il Signore stesso, il Risorto, “venga”, torni finalmente (1Cor 11,26).

Qui Paolo – ha fatto notare Karl Barth - è come se dicesse: “Com’è strano il fatto che siano morti degli uomini che hanno visto il Signore! Insomma, davanti al fatto della morte Paolo non riesce a trovare pace e non riescono a tranquillizzarlo né il pensiero della provvidenza, né quello dell’ordine naturale e nemmeno quello dell’esistenza di un’anima immortale” (La risurrezione dei morti).

Il vero dramma dei cristiani di Tessalonica era dunque questo: qualcuno dopo essersi convertito continuava - nonostante la sua fede e il suo battesimo – a morire. Perciò, a mettere in crisi la loro fede era che mentre il Signore tardava a tornare i credenti continuavano a morire. Era insomma una crisi provocata dal considerare la morte in una maniera esattamente contraria a quella che siamo soliti considerare oggi all’interno delle nostre comunità cristiane.  Per questo dovremmo almeno cercare di renderci conto della differenza e poi di come il vero incontro col Signore non sia quando moriremo, ma quando egli “di nuovo verrà nella gloria a giudicare i vivi e i morti e il suo regno non avrà fine”, come dice il Credo.

 

Daniele Garota

(1.continua)

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