Koinonia Settembre 2018


P. MICHELE FORTUNA RICORDA MONS. PAOLO ANDREOTTI OP

 

Fin dalla mia entrata nella Scuola Apostolica domenicana di Soriano Calabro e quindi lungo tutto il corso della mia vita, molti furono i confratelli che lasciarono il segno, chi per un verso e chi per un altro, nella mia vita religiosa. Tutti ormai vivono nel regno della luce. Verso di loro conservo un ottimo e caro ricordo. Ogni volta che mi vengono in mente provo un certo senso di gioia profonda verso di loro appunto perché hanno fatto tanto bene all’anima mia. Li ringrazio dal profondo del mio cuore e prego il Signore  perché conceda loro la giusta ricompensa.

  Nel mio cuore, tra tutti questi miei cari confratelli, un posto particolare spetta al carissimo Mons. Paolo Andreotti.

Di lui avevo sentito parlare durante la mia formazione sacerdotale. Nient’altro più di questo. La conoscenza vera e propria iniziò fin dal mio arrivo in Pakistan dove esercitai per quasi dieci anni il mio ministero missionario.  

Esprimere tutto quello che sento verso Mons. Andreotti non è così facile. Tuttavia ci provo, sperando di far cosa gradita a tutti coloro che l’hanno conosciuto, amato, stimato e venerato. Mi riferisco soprattutto ai missionari che hanno vissuto con lui e con lui hanno condiviso gioie e dolori della Diocesi di Faisalabad (Pakistan). Gli abitanti di Prataccio possono quindi gloriarsi e soprattutto ringraziare il Signore per aver donato loro un così caro concittadino.

Arrivai in Pakistan, e precisamente all’aeroporto di Karachi, il 10 settembre 1973. Era notte. Guardando dal finestrino del mezzo che mi conduceva al luogo dove dovevo passare la notte vedevo delle cose che mi sembravano strane. Cioè non mi rendevo precisamente conto di cosa si trattava. In seguito, ripensandoci, aiutato dalla conoscenza delle abitudini di quelle parti del mondo, mi resi  conto di cosa si trattava.

Non vado avanti col narrare le mie impressioni d’occidentale e passo a dire qualcosa intorno alla figura di Mons. Andreotti che maggiormente, penso, interessa i lettori e che a me preme mettere in luce.

Le poche cose che dirò spero che saranno sufficienti per mettere in luce certi aspetti della figura di Mons. Andreotti.

Persona gentilissima e amabilissima da tutti ben voluta ed amata. La ragione della sua amabilità nel suo modo di trattare e di accogliere gli altri, chiunque essi fossero, nello spirito del Vangelo.

Per quanto mi riguarda sono veramente contento di averlo conosciuto, non solo, ma anche di aver goduto della sua bontà lungo tutto il tempo che trascorsi in Pakistan. Ho avuto tanti colloqui  con lui e ogni volta ne sono uscito  sempre contento e pieno di gioia.  Nei primi tempi spesso mi prendeva con sé, come compagno di viaggio verso qualche località da visitare. Questo egli faceva perché io prendessi visione dei luoghi delle persone e delle usanze  della gente di cui io in seguito avrei dovuto interessarmi. Questi viaggi erano tanto piacevoli. Parlavamo del più e del meno  con tanta semplicità e spontaneità.

 Di carattere molto sensibile, nel senso buono, prendeva ogni cosa con molto interesse  per il bene dell’interlocutore ai fatti che accadevano.

 Voglio dimostrare la mia asserzione con qualche episodio. Un giorno trovandomi a colloquio con lui dovetti parlare di un fatto alquanto delicato. Egli si commosse a tal punto quasi da piangere. Per un momento quindi si allontanò perché io non vedessi le sue lacrime. Nonostante tutto abbiamo continuato il colloquio con molta serenità. Da questo episodio io ne sono uscito molto pensieroso.

Un altro episodio che lasciò il segno riguardo alla sua delicatezza nei miei confronti. Con l’aiuto dei benefattori avevo costruito una chiesetta in onore  di S. Caterina da Siena in Jhang Sadar città abbastanza grande di cui ero parroco costretto a celebrare dove potevo perché non esisteva alcun luogo di culto. Dopo la consacrazione e inaugurazione il 29 aprile 1980, ricorrenza del Sesto Centenario di S. Caterina, la officiai con tanta gioia per tre mesi. Un giorno Mons. Paolo venne a trovarmi. Pensai che fosse una visita come tante altre. Assolutamente no. Con un tono di voce, in cui traspariva un certo disagio per quello che mi stava comunicando, mi disse che dovevo trasferirmi a Francisabad perché il P. Gerardo Schiavone aveva bisogno di cure per la sua salute e perciò non poteva stare  molto lontano dai centri dove poter consultare i medici.

Io ubbidì e feci come lui voleva, anche se interiormente soffrivo di abbandonare la chiesa che io avevo costruito e che officiavo con tanta gioia.

Dopo un certo tempo Mons. Andreotti all’improvviso e da solo venne a trovarmi. Quel giorno ero fuori sede. Mi ero recato in un villaggio della parrocchia per compiere il mio ministero. Il caro Vescovo non si scoraggiò e attese il mio ritorno e passammo insieme il resto del giorno. Non toccammo, che io ricordi, il tasto del mio trasferimento, ma era ben evidente che Mons. Paolo era venuto a Francisabad in qualche modo per vedere come io mi trovavo nella nuova sede e quasi per chiedermi scusa del trasferimento che mi aveva causato per necessità un certo dolore interiore.  Comunque sta di fatto che io apprezzai moltissimo il suo gesto e ne uscii molto edificato e confortato. Questo ricordo mi è sempre presente e benedico Dio.

Mons. Andreotti era pienamente convinto che tutto avveniva per il volere di Dio. Camminando per le strade di Faisalabad avevo l’occhio attento su tutto quello che vedevo. Quando poi m’incontravo con Mons. Paolo io esprimevo il mio giudizio e anche il mio disappunto su tutto quello che mi capitava. Ecco quello che mi lasciò senza parola. Siamo usciti a parlare della Chiesa. Adesso a distanza di tanti anni non ricordo precisamente l’oggetto della nostra discussione. Certamente gli dissi qualcosa che in qualche modo mi turbava riguardo alla Chiesa in Pakistan. “Non ti preoccupare, figlio mio, perché la Chiesa la porta avanti Dio”. Fu questa una risposta così chiara e precisa, che io mi convinsi subito e ne fui confortato. Quella risposta s’impresse talmente forte nella mia mente che mi accompagna tuttora e  mi tranquillizza riguardo a tutto quel che avviene nella Chiesa. 

Per non andare  troppo per le lunghe, riferisco l’ultimo episodio che interessò la mia vita in Pakistan. Il fatto in sé mette bene in luce quanta attenzione metteva nel curare il benessere spirituale e fisico delle persone a lui care e in generale per tutti i fedeli con cui aveva  a che fare.

Era l’8 agosto del 1982, festa del S.P. Domenico. In me si verificò qualcosa di strano.  Mi comparve un dolorino alla nuca che presagiva niente di buono . Infatti quel dolorino iniziale ogni giorno aumentava. Quello che mi stava capitando lo accennai a Mons. Paolo. Egli certamente dovette capire che l’affare era serio per cui mi mandò a riposarmi a Lahore nel casa delle Suore di S. Paolo. Qui provai un po’ di sollievo ma il dolore proseguiva, aumentando gradatamente. Nonostante tutto arrivai alla fine dell’anno, e siccome il dolore mi lasciava spossato riferii questo stato precario della mia salute a Mons. Paolo. Volevo sapere da lui cosa dovevo fare. Egli molto seriamente non decise su due piedi, ma, compreso di quanto io gli chiedevo, mi disse molto prudentemente: “Su due piedi non so cosa consigliarti. Lasciami che preghi il Signore e fra otto giorni ti darò la mia risposta”.  Posso dire che il modo  con cui parlava indicava che il mio problema era molto serio e bisognava risolverlo con ponderatezza.

 Passati gli otto giorni il Vescovo mi diede la risposta. Con calma e con un certo senso di grande responsabilità, senza tuttavia nascondere il dolore per quello che stava per dirmi. Era il segno del suo stato di animo. Da una parte egli non voleva  che io lasciassi il Pakistan, però ne andava della mia salute. Chiaramente mi disse: “Figlio mio, stando qui non ho alcun’idea di come potrei farti curare, devi quindi lasciare il Pakistan e ritornare in Italia  dove potrai essere curato e rimetterti in salute”. 

Sono immensamente grato per la decisione, in qualche modo profetica, presa da Mons. Paolo, perché mi ha salvato la vita. Infatti appena arrivato in Italia fui immediatamente ricoverato nella clinica di Via Sassari gestita dalle nostre suore domenicane della Congregazione di S. Tommaso. Il Dottore dopo una visita molto accurata mi disse bell’e preciso: “Se lei fosse rimasto altri tre mesi in Pakistan  in questo stato, sarebbe stata la fine”. Tutto questo accadeva all’inizio del 1983. Cominciai la cura e in qualche modo mi ripresi. Grazie di cuore, mio caro Mons. Paolo!  Il Signore ricompensi in Paradiso il suo buon cuore per tutto quello che Lei  ha fatto.

 Ci sarebbe da dire ancora sulla figura splendida di Mons. Andreotti, ma mi fermo per non andare troppo  per le lunghe. Io penso che sia sufficiente per far conoscere quale personalità era  Mons. Andreotti.

E per chiudere  questo mio ricordo non posso fare a meno di s0ttolineare quello che io ho fatto per dimostrare la mia sincera riconoscenza verso Mons. Paolo. Tra le opere di carità sociale  che ho realizzato in Pakistan con l’aiuto dei miei tanti benefattori c’è anche quella che riguarda interamente Mons. Paolo e cioè il villaggio che porta il suo nome. Questo villaggio l’ho fatto chiamare Paulabad che significa precisamente: Città (villaggio) di Paolo. Il villaggio è formato da 50 case per 50 famiglie senza tetto.  Al centro del villaggio domina la chiesa. Penso, anzi ne sono sicuro, che Mons. Paolo da lassù avrà gradito il mio gesto di affetto e preghi il Signore che mi apra le porte del Paradiso quando sarà il momento del mio rendiconto.  A rivederci, caro Mons.Paolo! 

 

P.Michele Fortuna op

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